Apollo, nelle ali una speranza
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Apollo viveva con i suoi genitori in una grossa voliera molto confortevole, al centro di una radura, circondata da un fitto bosco. Da giorni l'intera famiglia era in trepidazione perché dall'uovo che la mamma aveva deposto in primavera stava per spuntare fuori un piccolo avvoltoio: - Avrò un fratellino, ne sono sicuro, mamma! - continuava a ripetere Apollo eccitato, mentre la mamma pazientemente continuava a tenere l'uovo al calduccio. Apollo era nato e cresciuto nella voliera: gli umani si prendevano cura di lui, della sua famiglia e di tutti gli altri avvoltoi che vivevano nel villaggio. Il piccolo non riusciva a capire bene perché tutti quegli uccelli vivessero in gabbia: sapeva solo che molti di loro non potevano più volare. Anche mamma e papà non potevano più farlo: alla mamma mancava un'ala. Diceva che quando era piccola, ai primi voli, era precipitata e si era ferita gravemente. Gli umani l'avevano trovata appena in tempo e l'avevano salvata, ma la sua ala era troppo danneggiata per permetterle di tornare a volare. E cosi era arrivata al villaggio, dove aveva conosciuto papà che viveva li da un pò, a causa di un “colpo di fucile”. Apollo non sapeva cosa significasse “un colpo di fucile” ma doveva essere qualcosa di terribile e molto doloroso, perché ogni volta che papà raccontava la sua storia diventava triste e cupo. Nel villaggio c'erano tanti capovaccai: ognuno nella sua voliera e ognuno con una storia da raccontare. C'era Filippo, il più anziano: aveva vissuto libero per tanti anni, poi un giorno, dopo un pranzo succulento, si era accasciato al suolo in preda a dolori lancinanti. Pensava di morire, ma quando aveva riaperto gli occhi si era ritrovato nella gabbia che era poi diventata la sua casa. E poi c'era Carlotta, una simpatica vecchietta un pò matta: ogni giorno raccontava una storia diversa e così nessuno sapeva bene da dove provenisse o cosa le fosse realmente accaduto. Però tutti avevano capito che doveva essere qualcosa di veramente terribile. E poi c'era il suo amico Asso: erano nati lo stesso giorno, la primavera precedente. Le loro gabbie erano vicine e passavano tutto il tempo a scherzare, a chiacchierare e a fantasticare sul mondo. In fondo la vita in gabbia non era così male: aveva sempre a disposizione acqua fresca e succulenti bocconcini da gustare ed era circondato dai suoi cari. Ogni tanto, poi, passavano di lì altri uccelli che gli raccontavano storie fantastiche sul mondo; gli parlavano della bellezza del cielo, delle montagne e delle verdi colline e degli avventurosi viaggi, ma anche dei mille pericoli che erano costretti ad affrontare ogni giorno. Gli raccontavano di quanto fosse difficile trovare il cibo, del freddo delle gelide notti invernali e dei predatori feroci da cui dovevano difendersi costantemente. Apollo ascoltava estasiato i racconti dei suoi amici. Un pò li invidiava certo! Volare liberi e girare il mondo doveva essere bellissimo! Le sue giornate passavano tranquille: ogni mattina di buon ora si intrufolava nel nido per vedere se il fratellino era uscito dall'uovo e poi aspettava pazientemente l'arrivo degli umani. - Come sono buffi! - pensava - Senza penne e senza ali! Apollo li fissava con interesse ed era anche riuscito, grazie all'aiuto di mamma e papà, a imparare un pò il loro linguaggio. Gli umani portavano il cibo e pulivano le gabbie, ma non si fermavano mai più del necessario. Apollo avrebbe voluto giocare con loro, conoscerli meglio, ma loro si tenevano sempre a distanza. Un giorno, alla prime luci dell'alba, gli umani arrivarono con una grossa scatola scura, aprirono la gabbia e lo agguantarono: il piccolo cercò di difendersi con tutta la forza possibile. Anche mamma e papà si precipitarono per aiutarlo, ma fu tutto inutile. Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò da solo e al buio. Non capiva cosa stesse succedendo ed era molto spaventato. “Dove mi stanno portando?”- si chiedeva tremante. Il viaggio durò tantissimo tempo. Il silenzio del villaggio aveva lasciato il posto a rumori assordanti e sconosciuti: sentiva gli umani parlottare, ma non riusciva a capire cosa dicevano. Il piccolo Apollo iniziava a pensare che non sarebbe mai uscito da quella scatola, che non avrebbe più rivisto il sole e che sarebbe morto lì, solo e abbandonato. Stava per cedere allo sconforto quando improvvisamente la scatola si aprì. Era una splendida giornata di sole e la luce faceva bruciare i suoi occhi, che erano stati al buio per tantissimo tempo. Rimase immobile e in silenzio per ore; cercò di capire dove fosse, ascoltando i suoni, ma niente gli era familiare. Non conosceva quel posto, ne era sicuro, non era la sua casa. Quando il sole iniziava a calare decise di farsi coraggio e, con il cuore palpitante, si affacciò timidamente dal bordo della scatola. Si trovava in una grossa voliera, molto più grande della sua vecchia casa. In un angolo c'erano cibo e acqua in abbondanza. Gli umani erano andati via: era completamente solo. Saltò fuori dalla scatola ed iniziò a perlustrare la gabbia: era davvero enorme! Sulla sua testa c'erano dei possenti rami che andavano da un lato all'altro e in un angolo, in alto, c'era una grossa finestra chiusa, raggiungibile solo in volo. Era davvero tutto molto strano: non capiva perché gli umani lo avessero portato in quel posto, perché era lì da solo e cosa doveva fare. Stanco per le emozioni di quella lunga giornata si addormentò in un angolo, con il pensiero rivolto alla sua famiglia e ai suoi amici e con la speranza di trovare presto risposte alle sue domande.
La notte passò velocemente: quando i primi raggi del sole illuminarono l'orizzonte, Apollo aprì gli occhi all'improvviso: - Mamma, mamma ho fatto un sogno stranissi... - le parole gli rimasero bloccate sul becco. Non era stato un sogno! La scatola, il lungo viaggio e la grande voliera sulla collina erano una realtà. Apollo si sentì mancare: si accucciò in un angolo e incominciò a singhiozzare, disperato. Si sentiva solo e continuava a non capire. Cosa aveva fatto di male per meritare tutto questo? Perché gli umani lo avevano portato via dalla sua casa e dalla sua famiglia? Avrebbe mai più rivisto i suoi genitori, il suo fratellino e i suoi amici? All'improvviso da lontano udì delle voci a lui familiari: erano gli umani! - Saranno venuti a prendermi per portami a casa - pensò rincuorato. Ma non era cosi: gli umani lasciarono cibo e acqua e andarono via, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. Fu in quel momento che il piccolo avvoltoio comprese che doveva abbandonare ogni speranza: non sarebbe mai più tornato a casa! Doveva abituarsi alla sua nuova sistemazione. Si rese ben presto conto che la gabbia gli permetteva di spiegare le sue possenti ali: era una strana sensazione! Aveva visto tante volte gli uccelli volteggiare in cielo e li aveva invidiati terribilmente. La sua nuova casa era cosi grande da permettergli di volare e voleva imparare. E cosi passava buona parte delle sue giornate ad esercitarsi nel volo e diventava sempre più bravo. Ormai era capace di sollevarsi in aria e saliva con facilità sui grossi tronchi posti nella parte alta della gabbia. Poi all'imbrunire, quando il sole pigramente si preparava a lasciare il posto alle tenebre, Apollo si rifugiava nel suo angolo preferito e da li scrutava le imponenti pareti rocciose che si stagliavano maestose all'orizzonte. E stava li, a fissare la nuda roccia e il bosco rigoglioso ore ed ore: era davvero un posto bellissimo, selvaggio e misterioso. Cercava di immaginare i suoi abitanti e fantasticava su come sarebbe stata la sua vita in quel bosco e tra quelle rocce. Gli sarebbe piaciuto tanto vivere li! Le giornate passavano, tra esercizi di volo e visite degli umani: Apollo aveva ormai accettato il suo destino e in fondo non stava cosi male. Certo sentiva la mancanza dei suoi affetti più cari: spesso pensava alla sua mamma e a quanto doveva mancargli. Ma ormai la nostalgia era sempre meno dolorosa. E poi la sua nuova casa era davvero bellissima! Arbusti rigogliosi coloravano la collina: biancospini, rose canine, ginestre e peri selvatici si ergevano fieri lungo i pendii, lasciando spazio qui e là a piccoli e colorati fiori di campo, su cui si posavano, in cerca di nettare, centinaia di insetti. I campi pullulavano di vita: gli uccellini si rincorrevano felici cinguettando e nascondendosi tra gli arbusti, mentre le lucertole e i ramarri si godevano il sole caldo, distesi sulle pietre e sui tronchi. La notte, poi, i campi si accendevano della luce delle lucciole che, come piccole lanterne, brillavano nel buio. Era uno spettacolo incredibile! La sua presenza non era passata inosservata: ogni tanto qualcuno si fermava a chiacchierare con lui. Volevano conoscere la sua storia, sapere perché era li. Apollo non aveva molte risposte, ma pian piano stava iniziando a conoscere gli abitanti della collina e si sentiva sempre meno solo.
Mariangela Iacovino
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