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Autore: Luca Inglese
Paolo Roma
Giallo
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Paolo Roma
La vita di un agente di custodia. (Volume 1)

Paolo Roma abbandonò il suo letto quando l'orologio non segnava nemmeno le cinque e il sole, probabilmente spento e al di là delle alpi, come un bambino attendeva ancora il permesso per oltrepassare le montagne e incontrare Vercelli. Per arrivare dov'era abituato ogni giorno a essere: all'orizzonte, sopra il Piemonte e sull'infinita campagna agricola circostante.
Erano gli anni sessanta e la città, reduce da un conflitto che l'aveva intaccata fino a rovinarla, ancora adesso sembrava subire i postumi di quel tempo, per colpa dei ruderi che tuttora decoravano il circondario annegandolo di ricordi.
Certamente lontana da ciò che doveva essere stata un tempo. A infliggerle tristezza ci pensavano i fabbricati, le voragini e anche gli edifici che ancora in frantumi, forse per non rivangare il passato, nessuno aveva ancora avuto il coraggio di rimettere in sesto e rattoppare nonostante il tempo e malgrado la guerra si fosse ormai estinta.
La terra, poi, crivellata da tante buche da fare invidia all'inferno, dopo numerosi bombardamenti che l'avevano interessata per degli anni, tuttora riusciva a raccontare di Vercelli qualcosa di distorto, di macabro e maledetto.
Paolo uscì perché era deciso a scrollarsi di dosso quel malessere che, a giudicare i fatti, non sembrava per niente interessato a mollarlo. E dopo aver passato la notte in bianco e a pugni contro un sentimento logorante, l'uomo reagì scivolando all'esterno dopo essersi infilato nella sua divisa che faceva di lui, a tutti gli effetti, uno degli agente di custodia di Vercelli.
Ancora confuso arrivò in strada quando nessuno sembrava esserci stato: eccetto l'oscurità che tutt'intorno, come una regina, continuava imperterrita a governate il circondario.
Raggiunta la vettura che sapeva essere parcheggiata dirimpetto al palazzo, a due passi dall'ingresso, una volta salito a bordo lui e la sua Fiat Seicento scivolarono lontano da Via Pastrengo senza la benché minima idea di dove andare. L'unica certezza era che, se non voleva impazzire, era necessario scomparire. Svanire e diventare così invisibile come solo un'ombra avrebbe saputo fare.
Iniziò a viaggiare, da prima senza meta attraverso la città e i suoi palazzi che, sfiorandolo, gli sembrarono le riproduzioni di un cortometraggio muto e colorato solo di bianco e nero.
Aggiratosi per un po' nel centro, dopo aver capito quanto tempo ancora gli restava a disposizione prima di prendere servizio, Paolo scelse d'imboccare Via Casale e dirigersi verso il rione Cappuccini dove la periferia iniziava e la campagna, smisurata e infinita, avrebbe iniziato a venirgli incontro.
Deciso a viaggiare per far passare il tempo, Paolo percorse la strada fino a quando di case non sembrarono essercene più.
Il desiderio di vuoto s'implementò nel suo petto, rapidamente, così come la carreggiata che gli fece ben presto capire di essersi allontanato troppo.
Arrivato a un certo punto, quando tutt'intorno non sembrava esistere altro che terra, fossi e un'infinità di niente, cocciuto com'era, al posto di fermarsi preferì proseguire.
Paolo schiacciò a tavoletta il pedale con così tanta foga e rabbia da rischiare quasi di rompere l'auto e fondere il motore, ma piegata al suo volere la piccola vettura sembrò quasi decollare.
Arrivato a metà strada tra Vercelli e Casale Monferrato, con il cartello che gli indicava sulla sinistra l'abitato di Pezzana, piuttosto che proseguire e andare così incontro ad un'altra regione, lui preferì svoltare per visitare una terra che pur vicina e a due passi da dove era abituato a vivere, in verità non se l'era mai cavata di visitare.
Le risaie e un piccolo borgo di case circondate dall'acqua, in lontananza, iniziarono a mostrarsi a quel visitatore inaspettato. Poi, al posto di entrare nell'abitato come già gli suggeriva un altro cartello, Paolo preferì proseguire diritto e poi a destra dove la confluenza permetteva di lambire le case senza necessariamente passarci dentro.
Passato oltre, il sole iniziò a descrivere e sottolineare con il suo moto l'orizzonte con una leggera linea di luce, come la cornice di un quadro ancora da decifrare e descrivere.
Raggiunti i pressi di un canale che attraversava la carreggiata passandoci sotto come una talpa, Paolo decise finalmente che era arrivato il momento di fermarsi e, parcheggiata l'auto accanto, dopo aver fatto pochi passi e aver raggiunto il parapetto, decise di sporgersi per osservare meglio quell'acqua che sentiva già in lontananza scivolare e correre.
Il suo sguardo si perse nel fluire del ruscello che, come la vita intenta a pulsare nel petto di un uomo, anch'esso è condannato ad andare avanti e a percorrere la sua strada senza comprenderne il senso, e forse nemmeno il motivo.
Lo immaginò perfino raggiungere la confluenza con la Sesia e lì, dopo un infinito viaggiare e scorrere, perdersi e mescolarsi con l'immensità del mare. L'identico mare che, solo qualche anno prima quando la guerra lo aveva obbligato a combattere, una notte e quando il nemico stava per raggiungerlo, pur si salvarsi sembrò affidarsi a esso, alle sue acque e ai misteri che di sotto sembrano vivere e esistere.
Salito perciò a bordo di una bagnarola insieme con altri soldati del suo plotone, pur di sopravvivere iniziò come gli altri a remare. A fuggire dalla terra ferma e a una lenta e certa agonia che sarebbe derivata dopo l'arresto e la deportazione; perché così sarebbe senza dubbio finita, per lui e per tutti, se solo fossero stati presi.

Paolo ricordò anche il terrore che ciascuno provò incondizionatamente mentre i tedeschi li cercavano e un gigantesco capodoglio, al largo, dopo essersi accorto di loro si era accostato per curiosità, o perché voleva guardarli in faccia, per scrutare ognuna delle paure presenti nei loro occhi e, ancora di più, per comprendere il motivo perché quegli umani si erano spinti tanto lontano.
Se ci pensava bene, ancora adesso sentiva lo sguardo di quell'essere demoniaco posarsi su di lui e sui suoi compagni. Come anche per paura, uno dei suoi aveva tentato con un remo di scacciarlo, mettendo a repentaglio la vita sua e di tutto l'equipaggio ma che grazie all'intervento di un marinaio veneziano, anch'esso a bordo, venne per fortuna a morire sul nascere.

Paolo rimase impalato, quasi inebetito dal ricordo, mentre l'acqua continuava a scorrere sotto i suoi piedi e quasi certo che l'ora di entrare in servizio fosse in procinto di scoccare. Dopo aver raggiunto l'auto si preparò anche a partire ma, nonostante questo, l'uomo non sembrò farcela ancora.
Un raggio di luce come un riflesso di qualcosa che aveva appena incontrato il sole, dopo essersi intrufolato nell'abitacolo, gli scivolò in un occhio fino a farlo poi voltare.
Girata la testa, l'agente andò a cercare l'origine dell'abbaglio.
Ad attrarre la sua attenzione, infatti, era stato il sole e il luccichio di un metallo.
Una croce, come tante che identiche arredava qua e là il territorio ricordando le atrocità commesse durante il conflitto, comparendogli davanti si piazzò anche al centro dei suoi occhi.
Piazzata a terra e a riva del canale, a una prima impressione l'oggetto gli sembrò distante appena pochi passi, o forse più.
L'uomo avrebbe preferito scendere e avvicinarsi per inquadrare così l'oggetto, come anche l'immagine della donna che in lontananza dava l'idea di essere ritratta come un quadro al centro ma, percependo l'ora e l'urgenza di tornare farsi opprimente, all'agente non rimase altro che fissare l'immagine diventare piccola mentre lui iniziava ad andarsene.

Paolo Roma arrivò a Vercelli e nei pressi del carcere con ancora l'immagine della donna nella testa. E quando qualcuno addossato all'ingresso della prigione con le braccia conserte sembrò incontrarlo dopo averlo individuato gli lanciò anche un'occhiataccia, l'agente di custodia cercò di farfugliare una scusa che potesse giustificare agli occhi dell'altro il suo ritardo, per non apparire troppo sciocco e perché, forse, avrebbe potuto anche evitarsela quella rogna; ma oltre all'incertezza di non sapere che dire, dalla sua bocca non sembrò uscire niente eccetto “mi spiace”.
Il collega, invece, sebbene esausto dopo una notte di veglia passata a vigilare su un'orda di tagliagole e lestofanti, conoscendo Paolo e le sue stranezze, per il rispetto che li legava non sembrò rispondere alle sue scuse se non con un sorriso e un caloroso “benvenuto e buon lavoro”.
Passate poi di mano le chiavi che gli avrebbero permesso di accedere all'interno e a ogni ala dell'edificio, il nuovo arrivato si preparò a entrare all'interno con addosso uno spirito completamente diverso, dopo quella gita non programmata; perché un sorriso inaspettato, ricevuto la mattina quando meno ci si aspetta, è capace di concedere speranza a un uomo assai più di ogni altra cosa al mondo.

Roma era conosciuto da tutti.. E chiunque ci aveva avuto a che fare sapeva bene il bagaglio che quel disperato sembrava trascinarsi appresso. Dall'infanzia passata all'orfanotrofio perché i genitori lo avevano abbandonato, alla guerra arrivata quando era solo un ragazzo, alla prigionia trascorsa in Germania nei campi di concentramento di Mannheim e Heidelberg dove, per sopravvivere, un uomo era costretto a imporsi con ogni espediente. Perfino barattare un paio di scarpe per un tozzo di pane e qualche buccia di patata, per un sorso di vita. E tutti all'interno del carcere sapevano anche quanto pesanti fossero in certi casi i suoi silenzi, quando le ombre del passato ritornavano per acchiapparlo, colpirlo e poi ammanettarlo.
L'agente varcò finalmente l'ampio corridoio per raggiungere in fretta il cuore pulsante della prigione, in particolare dove la maggior parte dei prigionieri trascorreva la loro cosiddetta villeggiatura a cinque stelle: le celle di detenzione.
Dopo aver salutato l'intero corpo di agenti rimasti ad attendere il suo arrivo, ricevuto da tutti l'occhiata che meritava, Paolo si preparò a imporre ancora una volta i suoi ordini su ciascuno, soprattutto su chi, al di sotto per gerarchia, era obbligato a farlo e ad ascoltarlo.
La squadra di agenti assegnati al turno del mattino si preparò, pertanto, ad assolvere il proprio dovere e, attivato il meccanismo che avrebbe permesso a ogni cella di aprirsi come un fiore, attendere che l'intera prigione si svegliasse e animasse.

Luca Inglese

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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