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Autore: Riccarda Riccò
Non lasciarmi - Numaparasi
Sentimentale Formazione
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Non lasciarmi - Numaparasi
Mentre Sofia guidava svagata verso l'Ungheria le capitò il secondo inconveniente: il vetro davanti, dalla parte del guidatore, si bloccò. Non era aperto del tutto, ma neanche chiuso, quella via di mezzo di chi si fa una sigaretta in macchina e vuole fare uscire il fumo. Si fermò, spense l'auto, la riaccese, niente da fare. Il cristallo era immobile.
Che palle, pensò Sofia, potevo tenermi la mia macchina! Va beh, poco male, pensò poi, con il caldo che c'è è il modo migliore per stemperare l'aria condizionata.

Quella mattina, con Brenno Capedri piantato in testa come un chiodo, se l'era presa comoda a Maribor, passeggiando per il centro storico e guardando ammirata le piccole case pittoresche addormentate sulle sponde del fiume, tra i profumini dello strudel di mele e degli gnocchetti di albicocca. Aveva anche fatto una veloce visita al castello e al quartiere Lent prima di riprendere la strada, motivo per cui passò la frontiera ungherese nel primo pomeriggio.
Nonostante il suo chiodo fisso nel cervello che le rimbalzava ogni cosa al Lupo, era tranquilla e rilassata e nel controllare il percorso quel suo cervello forato non aveva punto registrato quello che i suoi occhi avevano letto, o l'aveva fatto come qualcosa di talmente improbabile da suonare ridicolo. Cioè che non c'era da augurarsi di assistere a una tempesta sul lago Balaton. Tanto che non capì nemmeno un avviso di allarme emesso sotto forma di segnale luminoso in un punto all'inizio del lago.

Non c'è peggior cattivo di un buono che diventa cattivo, le diceva sua nonna, come se tutta la rabbia covata a lungo e mai esplosa avesse una forza distruttiva maggiore. Facile che fosse vero, pensò Sofia, per un uomo, un vulcano, o un lago dalla calma piatta.
 In pochi minuti la giovane si trovò in mezzo a un uragano con lampi e raffiche di vento superiori ai settanta chilometri orari. Pensò più di una volta di essere scaraventata con l'auto in mezzo all'acqua o contro un palo, mentre all'interno dell'abitacolo gridava terrorizzata quasi a bilanciare la furia esterna. La pioggia entrava a fiumi dal vetro aperto della macchina e con la mano destra, senza lasciare il volante, cercò di afferrare dal seggiolino dietro un asciugamano e un plaid che aveva preparato quella mattina, pensando casomai di potere usufruire di un'oretta di spiaggia all'altezza di Zamárdi o Siófok, l'Ibiza ungherese.
Si fermò in uno spiazzo a destra cercando di formare due boli arrotolati di stoffa per ficcarli nel buco da cui entrava l'acqua. Aveva le mani che le tremavano e il viso grondante pioggia, mentre la tempesta urlava facendo oscillare la Dacia. Grazie al tappo di fortuna creato con lana e spugna si sentì un po' meno in balia del fortunale, mentre si asciugava gli occhi con un fazzolettino di carta pescato in borsa.
In compenso continuò fissa a pensare a Brenno, come sempre, più di sempre. Così ripercorse mentalmente tutti i segni che quel giorno l'avevano fatta tornare a lui: i pantaloni mimetici del giardiniere dell'hotel dove aveva dormito, come quelli del Lupo;
la cicatrice che il cameriere del caffè dove aveva fatto una sosta aveva sotto l'occhio sinistro, come quella del Lupo; gli occhi verdi tagliati dell'uomo alla biglietteria del Mariborski grad, come quelli del Lupo; il gruppo di taglialegna nell'area di sosta in autostrada a Zamarkova, che menavano asciate furibonde, come il Lupo; la tempesta che l'aveva colta alla sprovvista, come quella di neve a Montecenere, a casa del Lupo; il pick up grigio che la stava superando in quel momento, come quello del Lupo, tra gli scrosci d'acqua della tempesta.
Non c'era elemento che non la riportasse a lui, perché sempre in ogni traccia si cerca chi si ama.
“Dove sei Lupo?” Domandò drammatica a voce alta, continuando a tergersi il viso, nonostante non piovesse più dentro all'auto.
“Dove sei? Chissà dove sei. Chissà se mai ti troverò”.
E continuava a piangere. Quella bufera improvvisa l'aveva spaventata e prosciugata. Si sentiva sola e vulnerabile, abbandonata e in balia di eventi improvvisi e distruttivi, nonostante ormai la tempesta sul lago stesse passando.

Brenno Capedri era partito oltre quindici giorni prima, perché viaggiare rende modesti e lui doveva ridimensionare il dolore che lo attanagliava.
Voleva mettere uno spazio sufficiente tra la casa della radura, quello che c'era successo dentro, e la sua vita. 
Voleva ridare una misura esatta alle cose, aprire gli occhi e ricostruire la forma reale di tutti gli elementi, come gli succedeva a volte prima di dormire quando si ingigantivano o rimpicciolivano nella mente, così che a volte gli sembrava ad esempio di essere schiacciato da un immenso comodino, mentre lui si percepiva piccolo. 
Voleva ridare a Sofia la giusta dimensione e pensava che viaggiare lo aiutasse.
 La sua intenzione era di tornare alle origini, ma forse pensando ai problemi che aveva in Romania, ai parenti, all'attaccamento di Georgeta, e soprattutto perdendosi nel ricordo di Sofia che gli faceva salire una rabbia immediata, per tutto questo e altro ancora era partito dall'Appennino tosco-emiliano con la vaga idea di prendere la direzione della Romania, ma a Modena sud aveva imboccato l'autostrada verso nord, precisamente Milano.
Voleva perdersi per ritrovarsi.
Andò avanti, avanti, avanti, senza meta, finché gli venne in mente un volume del primo novecento tradotto in italiano in "Il pensiero autistico", che aveva letto per scoprire qualcosa di più su suo nipote Giulio. L'autore era Eugen Bleuler, uno psichiatra svizzero che aveva ridefinito clinicamente l'autismo, coniandone anche il termine.
Brenno Capedri si lasciò guidare da quel pensiero e dopo oltre sei ore arrivò nel paese natio dello psichiatra, dove pernottò e rimase un paio di giorni, sebbene non ne avesse neanche voglia: Zollikon.

Per tutto il tempo pensò a Giulio e a suo padre, cioè suo fratello, al fatto che era sempre stato assente, obbligandolo a occuparsi lui del figlio; pensò alla madre Caterina, uccisa al Ponte del Diavolo; e infine al rapporto che si era creato tra suo nipote e Sofia, sua insegnante di sostegno, a quanto Giulio si fosse affezionato a quella giovane donna e a quanto a cuor leggero lei fosse riuscita a staccarsi da quel ragazzo. Questo pensiero tuttavia non gli serviva a niente, non riusciva a disprezzarla, né a prendere distanza da un sentimento schiacciante di amore verso di lei. Gli faceva solo venire ancora più rabbia.

Dopo la tappa svizzera, Capedri continuò a spostarsi in su, senza una ragione, fino ad arrivare a Gießen, in Germania. Visto che una delle grandi passioni del Lupo era la tassidermia e nella città dell'Assia era nato August Wilhelm von Hofmann, il chimico tedesco annoverato tra i nomi fondamentali della moderna imbalsamazione grazie alla scoperta della formaldeide, Capedri si fermò là.

Tutto il tempo in cui rimase a Gießen pensò a Sofia e a quella notte in cui era finita per sbaglio nella stanza degli animali imbalsamati, gridando come un'ossessa finché lui non l'aveva sollevata e portata fuori. Si ricordava come un marchio a fuoco le sue mani sul torace della ragazza e le sue dita che le sfioravano i seni nudi. Era la prima volta che avveniva un contatto fisico tra i due e per lui era stato scioccante, in barba a tutte le relazioni precedenti che aveva avuto con altre donne. Ma era possibile che l'esperienza in quel campo servisse così a poco? In realtà serviva, si disse, ma non così tanto se si parlava di amore.

Capì in fretta che girovagare a zonzo gli serviva a poco, anzi, a niente. Cercare la pace fuori quando dentro era un fuoco era inutile, per cui decise di stare un po' nei contrasti di Berlino per poi prendere la strada verso Sud-Est.
 Per tre giorni fu appostato da una cliente sola dell'hotel dove soggiornava, occhi scuri, bocca piena, pelle bianca. Colazione, dopocena, colazione, dopocena, colazione.
Quel terzo dopocena il Lupo vide la predatrice avvicinarsi al tavolino basso dove lui stava gustando un whiskey e sedersi nella poltrona di fronte alla sua. Senza parlare, gambe accavallate, scavallate, accavallate, scavallate, accavallate, dita stese sul tumbler, attorno al tumbler, liquore in bocca, lingua sulle labbra. Nessuna parola fu spesa, solo sguardi dritti di lei, sghembi di lui. Molto insistenti di lei. Dopo un'ora si alzò, stendendosi sui fianchi la gonna che le era salita su; ammirò di nuovo il Lupo e scrisse su un foglietto il numero della sua camera, spingendolo sul tavolino verso Capedri. Lui non fece una piega. Lei si spostò i capelli di lato, si girò e ondeggiando sui tacchi alti si diresse verso l'ascensore.
Lui rimase fermo, ondeggiando il bicchiere in mano, il ghiaccio ormai sciolto, a guardare le luci della città fuori.
 Si allungò verso il biglietto e lo accartocciò, prima di salire nella sua camera.

Dopo poco era sdraiato sul letto e guardava il soffitto, chiedendosi come aveva potuto una trentacinquenne entrare a gamba tesa nella sua vita affossandogliela, come aveva fatto Sofia a buttare quell'amore, il loro, nell'immondizia della vita, rinunciando per sempre a quel sentimento che tanto riesce a cambiare, e che solo e unico riesce a trasformare uno scontro sessuale in una fusione di corpi e anime, che solo e unico riesce a trasformare il desiderio in salvezza.
Come poteva rigettare volontariamente quella magia che piegava i pensieri, tutti, convergendoli di continuo, sempre, verso un'altra persona, quella amata. Come si era permessa di privarsi di un bene tanto grande mentre il mondo rotolava nel suo squallore.
 E come avrebbe tollerato lui il futuro senza di lei, come avrebbe fatto a sopportare l'esistenza senza vederla mai più.
 Non aveva risposte e nemmeno armi. Il Lupo che era in lui ardeva solo e sempre più per gli estremi della solitudine, predatore braccato e ferito al cuore.

A Berlino continuò a perdersi per diversi giorni, ma i colori delle donne tedesche gli facevano troppo spesso cercare somiglianze con Sofia Bompani e arrivò a non tollerare più quel soggiorno.
Si buttò dunque a capofitto verso sud, dormendo una volta a metà strada e finendo a Stainz in Austria, dove si impose almeno di visitare l'Hunting Museum and Agriculture Museum, pieno di bestie impagliate, tra cui anche qualche esemplare di lupo, che gli provocò una grande nostalgia della sua casa a Montecenere e di Sofia.
 La notte seguente aveva pernottato a Maribor, già sulla strada verso le sue origini rumene.

Dove sei Sofia? Dove sei? Pensò il Lupo, chissà dove sarai... di sicuro con il tuo fidanzato in qualche località turistica piena di sole.
Diede un pugno sul volante e accelerò dopo avere visto un'auto ferma sul ciglio della strada, una Dacia Duster nera con un plaid appallottolato infilato nel vetro. Non era necessario fermarsi a chiedere se chi era all'interno avesse bisogno di aiuto, perché ormai la tempesta sul lago Balaton andava scemando.

Riccarda Riccò

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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