Rivoglio i Matia, con Antonella Ruggiero
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Terrasicca, 30/04/2019.
Mia cara Arianna, non so se la scrivania di frassino su cui ho adagiato questa lettera riuscirà a sostenere il dolore da essa grondante quale manna dal sapore acre: il dolore dell'amore che fu. Leggendo queste parole, forse tornerai a tenere fra le tue braccia il mio cuore, come si fa con una trapunta quando il freddo pietà non ha; se così sarà, fallo con la cura che si conviene usare nei riguardi di un bambino, in questo sta l'amore; ricordi quel bambino quando tre anni fa urlava talmente da poter essere scambiato per un animale portato al macello? Allora mi sembrò di essere estratto dalla mia stessa pelle, quasi rivivesse in me il martirio di Marsia; ti guardai mentre il treno ti portava con sé, sin dove riuscì a spingersi l'occhio, ti amerò fino a quando il cuore me lo consentirà. Tu avevi il capo chino come la donna ritratta nella copertina di Rimmel, il tuo volto era per me una sentenza, difficile da sopportare; mi parve però che in fondo nessuno dei due volesse lasciare l'altro, fosti la più forte, la redattrice della dura sentenza. Ormai, da troppo tempo, eravamo camere separate. Da allora tento di dimenticare quando ti vidi per la prima volta con quel tuo sorriso da me scambiato per un principio senza fine; tento di dimenticare gli occhi grifagni mediante cui guardavi l'opulento ventre della gioventù e il mento aguzzo quanto la lama di un pugnale che entrava in me per non uscirne più; tu arrivasti con la stessa freschezza di un temporale in un'afosa giornata d'agosto, e stravolgesti la mia vita, con la forza di un temporale in un'afosa giornata d'agosto; lo facesti nella discoteca dove andammo, la vigilia di un nuovo anno e di una nuova vita, ognuno assieme alla sua comitiva; quella nella quale dovevamo originariamente andare era stata chiusa, il nostro incontro dove sarebbe avvenuto poco importava, stava già scritto da qualche parte, e tanto bastava, il nostro incontro mi portò ad amarti dell'amore ottuso, assoluto, che spinge a guardare solo all'amato, mai al contorno, a isolarlo, tenendolo sotto una campana di vetro, fino a soffocarlo, fino a soffocarti. Ricordi la sera di quel Capodanno? in quel paesino marinaro a cercare un bar aperto per mettere qualcosa sotto i denti, e lo trovammo, con i suoi cornetti precotti surgelati avanzati dalla mattina (forse addirittura risalenti ad altre epoche) che sembravano di plastica, nei quali potevi leggere la malinconia degli avanzi acuita dalla vetustà degli arredi, di colore scuro, e dalla luce scarsa; una pizzetta con un'idea di salsa al pomodoro (simile al segno di una scolatura di pittura), a forma di semicerchio, nella parte inferiore, e due rondelle di würstel, in quella superiore, sembrava occhieggiare, un arancino placido era talmente grosso da riflettere la serena pinguedine di certe icone di Budda, talmente grasso da dare l'impressione di non poter essere sollevato neanche con un paranco, un calzone napoletano vestiva una pasta spessa, forse per proteggersi dai rigori dell'inverno. La pochezza della merce esposta non rendeva giustizia a quel giorno di festa, presentava lo scandalo di un ossimoro. Forse, se fossimo stati meno sbadati, avremmo potuto sentire la pizzetta dire all'arancino: “Che cavolo ci fanno questi due il primo dell'anno in questo bar di questo paese dimenticato pure da Dio? Poi cosa vogliono, perché hanno puntato l'indice contro di noi e ora si avvicinano, che fanno, non ci vorranno mica mangiare? no, allontanatevi, siamo indigesti!”, forse, se fossimo stati meno sbadati, avremmo potuto sentire un cannolo che riposava sotto una copertina di cioccolato, un africano, gridarci: “Io sono un africano, come uno di quelli arrivati con una di quelle bagnarole, magari vi attacco la scabbia, quindi sciò, sciò!”; forse, se fossimo stati meno sbadati, avremmo potuto sentire una genovese, così dura da poter essere spezzata solo col martello, profferire le seguenti parole: “Signori miei, come vi potete fidare di un dolce siciliano chiamato genovese? un dolce già nel nome contenente un inganno”, per non parlare di una sfogliatella riccia insipida: “Non lo sapete, sciocchini, cosa cantava Modugno: riccia, no!” Ma noi non potevamo di certo sentire le cose parlare, noi ascoltavamo solo la voce di quell'amore in fieri, la dimostrazione della fragilità di ogni essere umano, di Adamo il quale, privato della costola, ne sente la mancanza. Tutto attorno, un deserto; saracinesche e persiane chiuse parevano obbedire a una sorta di coprifuoco, come per incanto; resisteva solo scetticamente il giovane farmacista dai capelli flavescenti, col camice bianco che gli dava una rasserenante autorevolezza, gli conferiva un aspetto angelico. Dall'interno del suo locale vuoto, mani in tasca e naso appiccicato alla vetrata, probabilmente si domandava se fosse un paese di gente sana come un pesce o un cimitero, pensando possibilmente già alla prossima cena, quando si sarebbe ricongiunto ai parenti lasciati malvolentieri dopo il corroborante pranzo con la classica frase: “Mi spiace, ma il dovere chiama”; qualche controindicazione questo lavoro redditizio è pur giusto che l'abbia, questo lavoro redditizio che coi distributori automatici di trastulli per adulti e medicinali, col piacere e dolore dei clienti, fa guadagnare anche quando dorme la notte sognando il denaro con cui la moglie farà shopping (she loves shopping), e pazienza se lui ronferà, sarà il giusto prezzo da pagare. Da quel giorno ci frequentammo spesso, come fanno gli amanti all'inizio per conoscersi meglio, l'uno prendendo l'altro a massicce dosi fino ad assuefarsi completamente; giravamo tutti i locali, forse per avere solo una scusa per uscire assieme, tutti i ristoranti, anche se a volte avevamo già mangiato a casa. Il sabato sera ti venivo a prendere fuori dalla chiesa, ti aspettavo davanti all'edicola dirimpetto, mentre leggevo “La Gazzetta dello Sport”, che allora cantava le imprese di Roby Baggio, Totti e Batistuta; i quotidiani, calato il buio, hanno un'invincibile tristezza, sono il già visto, l'inattualità, struggenti come un amore scaduto, una piccola apocalisse. Il confessore ti diceva con parole marziane: - Dunque, glielo vogliamo dire a questo benedetto ragazzo di rispettarti? - , ma a te piaceva tanto non essere rispettata; così, per non doverti più confessare, finisti di andare a messa, facesti la tua piccola rivoluzione. Il tuo primo regalo (me lo ricordo bene) fu una sciarpa dal disegno cachemire, per riscaldarmi soprattutto quando non c'eri, cosicché anche allora ti pensassi, e tu miracolosamente fossi un po' con me anche in tua assenza, un regalo né troppo costoso, né da quattro soldi, dal valore proporzionato a una relazione agli albori, verso cui era lecito un po' diffidare, soprattutto perché nata a Capodanno, dopo qualche bicchiere di troppo. Ti annuncio di aver completato, salvo revisione, il romanzo iniziato mentre eravamo ancora insieme; l'ho fatto servendomi di un computer il quale per iscritto m'invita a chiedergli qualcosa, a dire cosa stia pensando, razza di impiccione, peggio di Alfonso Signorini, sì, sì, sì; a questo siamo arrivati: corrispondere con una macchina; poi lui saluta anche; oggigiorno, molte volte, non lo si usa neanche tra condòmini, cioè, vale a dire, fra esseri umani. Ora sto in uno di quei paesini dei quali gli svagati forestieri, che qualche volta v'inciampano, dopo un po' di tempo non riescono neanche a rammentare i nomi. Tu, possibilmente, al contrario, ricorderai persino i volti degli sconosciuti indigeni sfiorati in quei centri, con le loro storie schiuse come fiori pudichi, buoni da cogliere per regalarli agli stranieri disattenti. Le piccole comunità sono reliquiari laici contenenti esistenze di uomini una volta sicuri che per vivere non fosse necessario violarne i confini; secondo questi, trasgredire avrebbe significato perdere in eterno la carta d'identità; perciò hanno pensato bene di nascere lì, facendovi scivolare la propria vita delicatamente, come si può adagiare una palla di bowling, perché la vita è una palla di bowling, da accarezzare facendola scorrere fino a vederla perdere nella buia bocca della pista; così ogni tanto qualcuno di loro scompare, scompare perché, prima o poi, senza molta fantasia facciamo tutti così.
Dario Zizzo
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