Poco sesso, niente droga e qualche gol
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È galantuomo il tempo che passa. Perché nelle persone smussa i ricordi negativi ed enfatizza quelli belli. E nello sport ed in particolare nel calcio questo avviene in maniera eclatante. Il mio calcio di quegli anni, Settanta ed Ottanta, non esiste più. E non potrebbe essere diversamente visto che la società attuale è completamente diversa da quella in cui sono cresciuto. Non è detto che il mio fosse migliore, come molti sembrano asserire: semplicemente era. Diverso. A distanza di tanti anni ho voluto farci i conti, senza filtri, senza abbellimenti o epico rivivere, ma andando a cercare il ragazzo e il calciatore che ero. Senza necessità di sdebitarmi nei confronti di un ambiente che ancora oggi mi nutre di una sufficiente indi-pendenza economica né con la nostalgia amara del non mutabile. Solo con affetto. Tutto quanto il narrato è accaduto veramente, i nomi sono reali ed i miei sentimenti di allora sono lucidamente rivissuti. Perché tanto ai vecchi, è concesso di essere sinceri.
SOTTO LA CURVA
Corro. Verso la curva. Verso quell'esatto angolo in cui di solito si ferma lui, quando segna nella porta che dà verso Servola, giusto nel punto in cui curva e gradinata si compenetrano nel muro che le divide. Onestamente l'ho sempre trovato esagerato, Franco De Falco, con quel suo correre esagitato ad invocare l'abbraccio virtuale dei tifosi dopo un gol, con quei suoi occhi aperti ad afferrare la folla e a suggellare un rapporto d'amore che io invece coltivo poco e che anzi, a volte in questi anni, ha anche rasentato se non l'antipatia sottile quantomeno la reciproca indifferenza. Questioni di appartenenza politica, dicerie inventate portate a verità da sbandierare dagli spalti, discontinuità nel campionato del ritorno obbligato dopo l'anno a Terni e magari quella indimostrabile convinzione che nessuno è profeta in patria. C'è un rapporto contrastato tra me e la tifoseria triestina, composta di gente che conosco da anni di vita in comune, persone semisconosciute con cui talvolta mi saluto, volti confusi nella massa a cui non so dare né collocazione né nome. Una serie di cuori domenicalmente pulsanti che per me rimane un agglomerato unico indistinto, nel suo boato entusiasta ad una bella giocata come nel mormorio burrascoso per un errore madornale. Forse perché mantengo un fondo snob da finto intellettuale, forse perché non mi è ancora chiaro come in fin dei conti passione (sportiva) derivi dal latino pati, inteso come soffrire o quanto la parola tifo abbia a che fare con la malattia incontrollabile; e quanta libertà emozio-nale possa sprigionarsi in novanta minuti tutti insieme a seguire un pallone che 22 ragazzi su di un prato provano a comandare con i piedi. Quest'anno poi ci ho messo del mio, per farmi malvolere. Avevo iniziato bene, le prime partite. Poi, contro il Treviso, ho beccato una di quelle giornate balorde in cui, dopo dieci minuti, la partita diventa una lotta personale contro i primi fischi che arrivano dagli spalti, un percorso ad ostacoli a dimostrare a te stesso che puoi ribaltare il corso delle cose; inconsapevole che il corso delle cose, delle tue aspirazioni, bellamente se ne frega. Alla fine del primo tempo, negli spogliatoi ero convinto che il mister, Buffoni, mi avrebbe levato per dare spazio a qualcun altro che anche al minimo sindacale oggi avrebbe potuto giocare meglio di me. Invece mi sono ritrovato in campo anche nel secondo tempo, con le mie rivalse sgonfiate dai quindici minuti di pausa, le gambe insolitamente rigide ed un nervoso leggero ma incontrollabile a percorrermi tutto il corpo. Fossi giocatore furbo ed esperto avrei virato sul conservativo, su di un facile nascondermi dietro gli avversari; avrei giocato palle facili e assolutamente ininfluenti in attesa di una sostituzione giusta e in parte desiderata. E invece ho continuato la mia lotta personale. Prima contro mille, poi contro duemila, cinquemila, fino a quando, a dieci minuti dalla fine, sono riuscito a mettermi contro tutto lo stadio. In contropiede, inseguito dal terzino che non mi può raggiungere, mi sono involato verso la porta in solitaria seguito dal respiro sospeso di tutti, in un rumorosissimo silenzio solcato da qualche “Dai” isolato. Circondato dal mio personale convincimento di riuscire a zittirli tutti prima di farli esplodere di gioia. Miseramente però, davanti al portiere ho calciato fuori. I fischi sono stati assordanti. Pensavo che il mio corpo fosse in qualche modo impermeabile alle onde sonore e invece sono entrate dappertutto, nelle gambe, nelle mani, nello stomaco: ma soprattutto nel cuore. Perché a 22 anni ti sembra di spaccare il mondo e invece, in certi momenti, è il mondo che spacca te. E a completare l'opera ci ha pensato Adriano Buffoni da Colle Umberto il quale con mossa tattica inspiegabile mi ha tolto a pochi minuti dalla fine, offrendomi agnello sacrificale ad un consesso di delusi per il pareggio in corso. Dalla metacampo all'uscita verso gli spogliatoi sono stati 60 metri di via Crucis senza la possibilità di una religione futura, poco meno di cento passi tra le urla, gli insulti e gli scarichi di insoddisfazioni settimanali non allontanate da una gioia domenicale. È stato solo prima di infilarmi nel sottopassaggio, che la mia anima bombardata di presunto rokkettaro ribelle si è ricordata di avere una dignità e ha suggerito al dito medio della mano destra un saluto di risposta che non passasse inosservato. Scatenando l'inferno. Da allora in poi, ci siamo guardati un po' a distanza io e i tifosi, fiutati con apparente distacco. Un lento ricucire fatto di buone prestazioni, di gol festeggiati più sobriamente del mio compagno di squadra, di applausi a volte convinti e a volte tentennanti nel concedere un merito ancora non perfettamente legalizzato dalla frangia più ostile. Fino a questa partita con il Trento, a questo lancio lungo di Mascheroni che mi sorpassa dolce, ispirandomi il gesto mai sperimentato di colpire di sinistro di controbalzo e fare il pallonetto al portiere in uscita. Un gol impensabile per uno come me che il sinistro lo usa come piede d'appoggio per saltare di testa o al massimo per fare un passaggio che non superi i quindici metri. E ora, corro. Verso la curva. Verso quell'esatto angolo dove di solito si ferma lui, Franco De Falco. Che da oggi non troverò più esagerato. E capisco che cosa accade nel cuore della gente che si abbraccia, che dai gradini si precipita alla rete ad applaudirmi, che urla al cielo la possibilità della gioia senza ritegno. Ché tutto intorno è musica. E oggi suoniamo insieme.
COME IN UN FILM DI FELLINI
Nella nebbia scompariamo. Uno alla volta. Talvolta anche in due o tre, inghiottiti di colpo dall'uniformità delle cose. Quando qualcuno riappare all'altro ci si guarda, chiedendosi con gli occhi se è accaduto qualcosa di nuovo, se in quei secondi di balìa il risultato è cambiato, se la squadra avversaria ha recuperato palla, se qualcuno si è infortunato. Ci ritroviamo quasi di colpo, macchie colorate del colore amico, a passarci un pallone che immediatamente sparisce se calciato più in là di 20 metri. Individualmente poi immaginiamo le possibili traiettorie successive; che talvolta intercettiamo, per un ritorno di fiamma in zona e talvolta soltanto conosciamo a percorso finito, quando un compagno od un avversario ci confermano che il pallone è uscito fuori campo. Per lo più stiamo. In un'attesa da Deserto dei Tartari, appena spezzettata dal brusio di un pubblico visibile solo quando vai a bat-tere un calcio d'angolo o ti rechi ad effettuare una rimessa laterale a metacampo. E dal fischio dell'arbitro che ogni tanto certifica un accadimento. Lo spazio davanti a noi linearmente conosciuto misura 15 metri e chi in tale spazio si avventura palla al piede non sa cosa troverà al di là. È come affrontare l'ignoto, avventurarsi in ambiti non prevedibili, accentuando ancor di più le differenze di ruolo: come se il gioco fosse praticabile solo per settori, abbandonati in scontri individuali, senza il supporto dei compagni di reparto. Ed è strano, quando sei in fase offensiva, il non riuscire a percepire il momento esatto in cui passi a quella difensiva, il non sapere da cosa difenderti, da dove il pericolo può arrivare. I parametri personali di rapporto uomo/palla si scardinano, sostituiti da nuovi appigli che si ridisegnano attraverso voci, suoni, movimenti di ombre che riconosci come appartenenti a compagni o ad avversari solo in un secondo momento. E gli scatti nello spazio si rivelano inutili dopo cinque sei metri, quando inghiottiti dall'ovattata atmosfera ci si rende conto dell'inutilità di dettare il passaggio in uno spazio senza contorni o rife-rimenti. Assistiamo impotenti ad una ridefinizione dei movimen-ti in campo che conduce ad una temporanea abolizione del dai e vai, del lancio lungo, del cambio di gioco, del passaggio filtrante. È come se ci venisse chiesto, per qualche ora, di fare a meno di buona parte del nostro rapportarsi allo spazio e al tempo, rinnegando, ben prima che il gallo canti, anni e anni di acquisizioni psico-motorie, di valutazione delle traiettorie, di anticipi sull'uomo. Chiudiamo il primo tempo in vantaggio con un gol di Andreis che non ho visto, anche se nel percorso verso gli spogliatoi Clemente, alzatosi dalla panchina, si complimenta con me per il passaggio che staffette vocali hanno finito con l'attribuire al sottoscritto. I giornalisti, a cui l'arbitro ha permesso di stare a bordo campo per diritto di informazione successiva, pietiscono uno straccio di cronaca da poter trascrivere sui loro tac-cuini e si scambiano spezzoni di notizie captate a mezza bocca, confondendo la successione dei fatti più di quan-to già abbia fatto la massa grigia circostante. Anche loro stasera dovranno inventarsi un nuovo modo di relazionare al pubblico, brancolando nel campo della sensazione, senza potersi affidare agli stereotipi del lin-guaggio giornalistico sportivo, inventandosi una partita possibile visto che quella reale è scivolata via lontano dai loro occhi. Nel secondo tempo loro pareggiano con Vitale; non ha importanza come, visto che attendiamo da un momento all'altro il fischio dell'arbitro a sancire la sospensione di questa partita spezzettata e sfuggente. Quando qualcuno di noi, nel recuperare un pallone finito fuori, appare improvvisamente ai pochi tifosi sugli spalti viene subissato di domande. - Quanto stiamo ? - - Chi ha fatto gol ? - - Sostituzioni ? - Nel rispondere ci sentiamo esploratori coraggiosi di ritorno da un mondo non ancora cartografato, pronti a rituffarci nella precarietà, consapevoli di aver regalato a qualcuno racconti da condividere in attesa del nostro prossimo ritorno. Cosicchè accade che magari nelle gradinate vengono a conoscenza del gol del nostro nuovo vantaggio, di Marcato, ben prima che la notizia arrivi alle tribune in una specie di gioco del telefono senza fili arricchito di particolari inesistenti in partenza. Anche la partita finisce in tempi diversi. Prima per quelli vicini all'arbitro, i quali percepiscono nitidamente il triplice fischio, poi a sprazzi per gli altri, via via fino al portiere avversario, a lungo abbandonato in una solitudine più grande di quella in cui solitamente si muove; e da lì al pubblico, ad accendere qualche sparso grido di giubilo tra i nostri e a sprofondare nella delusione i tifosi di casa che fino all'ultimo hanno incoraggiato la loro invisibile squadra. Solo alla fine, qualche minuto dopo, negli spogliatoi, ci vediamo tutti. Chi con il labbro spaccato da un colpo proibito non visto, chi con la maglia strisciata di verde da una lunga scivolata, chi con il fiatone dell'ultima rincorsa ad un pallone apparso all'improvviso, chi frastornato dalla luce delle lampade dopo tanto grigio. Quasi naufraghi in qualche modo arrivati alla riva, in una Terra Promessa fatta di thè caldo e voci allegre che finalmente appartengono ad un corpo preciso. Mentre l'allenatore ci fa i complimenti. A caso. Ché tanto la partita, non l'ha vista nemmeno lui.
Andrea Mitri
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