Avevo cinque anni, sei al massimo, in quel giorno stranamente caldo di marzo. Uno degli anni in cui la Pasqua cade bassa, per non so quale conteggio. O meglio, non ricordo, dato che mi è stato spiegato svariate volte. A quell'epoca ero un frugoletto vispo e di piacevole compagnia, capace di suscitare gioia e ilarità in tutti, famiglia, parenti o sconosciuti che fossero. E così fu anche quel giorno, quando feci la mia comparsa nel primo pomeriggio, animato da chiacchiere femminili, urla giocose di bambini e le bestemmie irripetibili dello zio Gino, intento a giocare a tresette con gli altri adulti maschi, tra cui mio padre Mario, severo ispettore di polizia. La mia entrata in scena, preceduta da un ticchettio strascicato, provocò l'arrestarsi a cascata di tutte le voci, fatta eccezione per quelle di mia sorella e degli altri cugini, troppo impegnati a rincorrersi nei corridoi della vecchia casa di nonna. - Sciono come la mia mamma - . Bastarono quelle poche parole biascicate per scatenare una risata collettiva che coprì l'improvviso silenzio calato sulla stanza da pranzo. Con indosso una camicia da notte recuperata dall'armadio di nonna Lucia, dal classico odore di naftalina (anche il sapore era quello, dato che per infilarla ero riuscito a passarmela sulla lingua), camminavo trascinando i piedi infilati dentro un paio di décolleté dal tacco basso e largo, che usava per andare a messa. - Se ti prendo! - , ricordo il suo tentativo di sgridarmi, soffocato tra le risa trattenute a stento. Ho impresso il volto teso di mio padre, contratto in una smorfia irosa mascherata da sorriso. - Sì, amore, sei come la mamma, ora rimetti a posto le cose di nonna - , per sincerarsi che mettessi tutto in ordine, mamma abbandonò il gineceo per riportarmi nell'altra stanza.
*** - Ti ripeto che quello non è normale! - . - Ma che dici, Mario? È carnevale, che c'è di strano a mascherarsi da donna? - . - Fa' come vuoi. Per me non è normale - . Dalla mia stanza sentivo mamma e papà discutere, mentre mia sorella misurava alcuni suoi vestiti sulle mie spalle. Era il febbraio del 1984 e avevo quattordici anni. Nel pieno della pubertà, gli ormoni facevano a cazzotti dentro di me, irrequieti nel mio fisico esile. Al momento di uscire lo salutai. Gli occhi stretti in sottili fessure incastrate in un viso rude e abbronzato, mi scrutava impettito nel suo doppio petto blu. Un altro ricordo di lui, un'altra polaroid sbiadita nel mio album dei ricordi tristi.
***
Giugno 1987. Quel giorno pensai di aver consumato la mia dose di lacrime assegnata alla nascita. Con il corpo scosso da tremiti ascoltavo mio padre, incapace di trattenere singulti nervosi. Il sapore salato nella mia bocca e le guance umide simboleggiavano il suo fallimento come uomo e come padre. - Cazzo, un figlio frocio doveva capitarmi. Porca di quella troia ladra! - . - Basta, Mario! Non ce la faccio più. Basta! - , era la prima volta che sentivo mamma reagire così, andare palesemente contro il suo compagno di una vita. Ne era sempre stata succube su alcune questioni e non aveva mai osato rispondere in quel modo. Quel giorno lasciò una cicatrice visibile nel loro rapporto, che rese più dolorose e vive quelle nascoste. - Fate il cazzo che volete, ma finché sono vivo non succederà mai! - . A ripensarci ora, sento ancora vibrare i vetri delle finestre nel momento in cui sbatté con violenza la porta, uscendo di casa.
***
Qualche anno fa, invitata all'inaugurazione della nuova ala del carcere di massima sicurezza intitolata a lui, la mia mente, come in un gioco beffardo, fece riaffiorare quelle parole taglienti come lame. Per una strana congiunzione astrale, la vita mi ha portata a seguire le sue orme professionali. Avrebbe oggi per me quelle stesse parole cariche di bile?
1 – ELENA
17 novembre 2018 - Franz, ne abbiamo un'altra - , poche parole al telefono e un indirizzo al quale trovarci. Maledetto il giorno in cui ho deciso di fare il concorso in polizia, merda! Eppure, mi avevano avvisata a cosa sarei andata incontro: turni massacranti, reperibilità, niente feste comandate. E il mio ottimismo, quello che da sempre mi accompagna, a tranquillizzarli, che sì, so gestire bene i ritmi e le nottatacce. Balle. Complice una mattina tranquilla in ufficio, scandita da qualche telefonata e l'ordinaria amministrazione, avevo dedicato a me il resto della giornata. Immersa in un bagno rilassante con Sali all'eucalipto e un bicchiere di rosso per accompagnare la musica dei Queen, che arrivava in sottofondo dalla sala a solleticare i pensieri indirizzati al dopo cena; fino a qualche tempo fa ci sarebbe stata anche una sigaretta tra le dita, ma era arrivato il tempo di smettere. Tête-à-tête al ristorante con mio marito, Stefano, risate e sguardi di intesa. Agli occhi di chi ci osservava saremmo potuti passare per giovani amanti, e per noi è sempre come il primo giorno, anche dopo vent'anni di vita assieme. Poi, quel nuovo messaggio.
***
Sono le ventidue e le strade sono ancora piene di auto che sfilano disordinate, come macchinine elettriche guidate da un bambino. Specchi imperfetti bagnati da una pioggia fatta di impalpabili stille, fitta al punto da sembrare quasi nebbia. Ho un brevetto di guida sicura, ma odio guidare in queste condizioni, attorniata da pericoli al volante che spuntano all'improvviso, noncuranti delle più elementari norme di sicurezza. Abbagliata dai fari di un'auto contromano, la evito con un doppio colpo di sterzo, seguito subito da una manata sul clacson e un urlo che non sentirà: - Stronzo! - . Le luci della macchina, simili al lampo di un faro sulla costa, richiamano alla mente il momento in cui lo schermo del mio cellulare si è illuminato; come fosse un boccone di cibo sgradevole, l'anteprima del messaggio Whatsapp mi ha mandato la cena di traverso nell'esatto momento in cui stavo per gustare degli invitanti culurgiones al sugo, retaggio culturale della mia terra d'origine. Mezz'ora per fare cinque chilometri. Sarebbe bello se le persone stessero a casa sul divano, invece di intasare le strade con suv imponenti e minacciosi, manco dovessero affrontare percorsi di guerra.
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Al mio arrivo, le superfici bagnate delle carrozzerie rimandano come un caleidoscopio invisibile i riflessi bluastri dei lampeggianti ancora accesi, illuminando a intermittenza le facciate dei palazzi. Ringrazio l'agente che solleva il nastro rosso e bianco utilizzato per cingere il perimetro e scivolo sotto con la mia Volvo V40 bianca. Il confronto con i suv incontrati prima mi fa sorridere. All'inizio della serata romantica non avevo messo in conto di dover fare un sopralluogo sulla scena di un delitto in gonna e décolleté tacco dodici. Vabbè. Un altro agente si premura di tenere un ombrello aperto sopra lo sportello per permettermi di scendere dalla macchina e mi segue fino al portone del civico 95 di via Fereggiano, per poi tornare a presidiare la zona. Dinanzi alla palazzina stazionano diverse persone, probabilmente inquilini dei palazzi scesi in strada appena udite le sirene insistenti della polizia. Come pettegole curiose parlano tra loro, fanno ipotesi, chiedono sottovoce cosa sia successo. All'interno dello stabile aleggia un forte odore di muffa, ovunque ci sono infiltrazioni, in fondo all'atrio si intravede una porta dal vetro opacizzato, che rimanda un debole pallore di luce. Presumo dia su un cortile interno al palazzo. L'ascensore occupa il centro dell'atrio e attorno si sviluppa la scala divorata da anni di passaggi. La maggior parte degli inquilini è ancora riunita al piano terra e lungo la prima rampa di scale, nonostante gli inviti degli agenti ad andare via. - A che piano è, Franz? - , chiedo a Francesco Vitielli, il mio assistente capo, mentre continuo a guardarmi in giro. - Terzo piano, interno 12, Elena - , la sua voce risuona roca nell'atrio dal soffitto alto, il taccuino stretto in mano mentre apre l'ascensore datato. Sono stata io ad affibbiargli quel diminutivo una decina di anni prima, appena saputo che cantava e suonava la chitarra in un gruppo blues rock; e da allora non se lo è più scrollato di dosso. In fin dei conti gli piace. Entriamo nella cabina seguiti dall'agente giunto per primo sulla scena. Una volta chiuse, le porte cigolano finché arriviamo al terzo piano. Quel suono mi porta indietro di trent'anni, uno scricchiolio che sentivo sui vecchi traghetti della Tirrenia, durante la traversata che tuttora collega la Sardegna al resto del mondo, quando il mare agitato metteva a dura prova la tenuta delle vecchie navi. Sospiro nel vedere sul piccolo specchio segnato dal tempo l'effetto dell'umidità sui miei capelli mossi. In tre occupiamo tutto lo spazio disponibile e, per poter chiudere le porte, Franz e il poliziotto hanno dovuto muoversi di lato. La targa Enpi, appesa sopra la vecchia gettoniera, dice che può ospitare quattro persone. Filiformi.
Sabrina Mills
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