La serata prosegue senza altri intoppi, finiamo di cenare, paghiamo il conto e lasciamo la pizzeria. Destinazione successiva: il Cloud, un locale trendy alle porte di Milano. Non appena varchiamo la porta, la musica assordante raggiunge i miei timpani, è una banale discoteca piena zeppa di corpi sudati che ballano appiccicati l'uno all'altro. Vorrei darmela a gambe. Sono in luoghi come questo che mi sono sempre sentito fuori posto. E lo sono anche ora, a distanza di anni. “E' uno sballo, scegliamo un posto poi buttiamoci”, suggerisce Stefano indicando uno spazio con delle sedute libere. Cerco di mandare giù la saliva che si è accumulata in eccesso, sembra un groppone che mi si è bloccato in gola, non posso arrendermi in questo modo devo assolutamente reagire e scrollarmi di dosso questa insicurezza che di nuovo mi attanaglia. Maledizione non ho più sedici anni, ne ho quasi trenta e non voglio più essere quel Giacomo che respirava di nascosto e si nascondeva per non essere notato, oggi voglio essere un uomo nuovo, un uomo che si butta e si diverte, un uomo che non ha paura e che affronta la sua natura con orgoglio e determinazione. Così, spinto da una nuova energia cresciuta all'improvviso senza spiegazioni, mi butto nella mischia assieme a Stefano e alle ragazze. Il ritmo incalzante inizia a penetrarmi dentro, sciolgo le spalle e mi lascio andare muovendo il corpo con naturalezza, sembra che la serata stia prendendo un'altra piega rispetto alle mie previsioni e questo pensiero riesce a sollevarmi il morale. Sara, di tanto in tanto, si struscia contro di me e io fingo di apprezzare il gesto, tuttavia è Stefano che guardo, che guardo estasiato. Si muove sinuoso, le sue ampie spalle occupano lo spazio che gli serve per compiere movimenti che lo rendono meraviglioso ai miei occhi, è uno schianto assurdo e lui nemmeno se ne accorge. Passano pochi minuti, la ressa aumenta e io mi trovo scaraventato di lato lontano qualche metro da Stefano e dalle ragazze, cerco di recuperare la distanza che mi separa ma improvvisamente una mano mi arpiona il collo, sembra un potente artiglio che mi morde minaccioso. Non riesco a comprendere quello che succede, so solo che qualcuno spinge e spinge, mi sento scaraventato chissà dove, le luci a intermittenza non mi permettono di mettere a fuoco la persona che mi sta braccando, fino a quando la sua mano non mi costringe ad appoggiarmi ad un pilastro in fondo alla sala da ballo. Due paia di occhi mi guardano con disprezzo e cattiveria. “Ciao Giacomo, che piacere vederti dopo tanto tempo! Allora aveva ragione il Borletti a dire che forse eri davvero tu!” esclama quello leggermente tarchiato, più basso di me di qualche centimetro. L'alito puzza di alcol e la sua presa non è intenzionata a mollarmi “Lasciami! Che cazzo vuoi?” replico tirando fuori la rabbia che ho dentro, ma forse non è rabbia, è paura, una paura che conosco bene. “Cosa fai qui? Non è posto per te questo! Dovresti frequentare quei localini per froci, quelli che trasmettono una musica romantica e sdolcinata, non è vero Franky?” sbraita rivolgendosi all'amico. Franky!? Ora rammento chi sono, sono quelli del pestaggio, quelli che hanno deciso che lo scopo per cui respiravano e continuavano a respirare era sempre stato solo quello di perpetuare la violenza e l'omofobia, perché ce l'avevano nel sangue, da sempre. “Bastardo lasciami!” urlo spingendolo via con una forza che non credevo di avere, ma l'altro mi prende per i capelli e mi trascina in terra. Vedo i piedi di tutti quelli che stanno ballando, la ressa è così fitta e potente che nessuno si accorge che sono lungo disteso sul pavimento. Per un istante sembra che il mio cuore perda un battito, non è possibile che stia succedendo di nuovo, non voglio più che la mia vita sia una merda, non voglio più strisciare sui pavimenti lerci tentando di fuggire, non voglio più essere il Giacomo che ero, mai più! Mi divincolo e riesco a liberarmi dalla presa sui miei capelli, tento di alzarmi ma un calcio mi raggiunge in pieno fianco. Mi piego in due dal dolore eppure non mi arrendo, scivolo lungo la pista fino al gradino poi, approfittando di un gruppo di ragazzi poco distante da me, sguscio via riuscendo a fuggire verso l'uscita di emergenza. E' una fuga della memoria, sembra che tutto il mio passato mi abbia investito come un treno ad alta velocità e che i ricordi facciano reagire il mio corpo in modo autonomo, senza che il mio cervello impartisca gli ordini. Il dolore brucia ma non è niente rispetto a quello che sto provando dentro. Mi sento di nuovo rotto, spezzato, con un magone così grande che faccio fatica a reprimere, perché di fatto solo ora comprendo che ho sbagliato ad accettare l'invito di Stefano. Cerco di aprire quella maledetta porta ma i due bastardi sono già dietro, mi giro di scatto, il pugno mi prende in piena guancia facendomi sbattere la testa, mentre Franky mi arpiona le braccia bloccandole dietro. “Vigliacchi!” urlo con tutta la voce che ho in corpo, loro sono due e io non posso nemmeno difendermi. Il tarchiato alza il braccio pronto a colpirmi una seconda volta, non posso muovermi ma riesco sferrargli un calcio, un calcio che lo colpisce proprio sulle palle. Lo vedo piegarsi davanti a me, mentre l'altro allenta la presa sulle mie braccia, ed è allora che comprendo che sono in grado di liberarmi, così gli sferrò un pugno diritto sul naso. “Frocio di merda adesso ti ammazzo!” sbraita il tarchiato e nonostante il dolore ai testicoli riesca ancora a indebolirlo, mi piomba addosso con una furia da non credere. E mentre tento di fermare, invano, i pugni a raffica che mi sta dando, una mano lo arpiona da dietro e lo scaraventa contro il muro. Cerco di capire cosa stia accadendo ma riesco a vedere solo una mischia senza riconoscere nessuno. Il sangue cola dall'arcata sopraccigliare e raggiunge la mia bocca, il suo sapore sa di ferro arrugginito, e imbratta completamente il collo e la maglietta. Cerco di mettere a fuoco colui che mi ha liberato da quella furia e vedo Stefano sferrare una serie di pugni sulla faccia di entrambi, prima uno poi l'altro. E' surreale quello che sta succedendo, invece di rivivere il mio sogno, ho assistito ad un vero incubo. Finalmente mi raggiunge “Coraggio andiamo via”, mi dice sostenendomi col suo braccio, “questo è un posto di merda”, conclude poi dirigendosi verso l'uscita. Le ragazze tremano e sono accostate alla macchina, cerco di nascondere la faccia con le mani ma non serve a niente il sangue è dappertutto. “Cosa ti hanno fatto!” sbraita Sara con le lacrime agli occhi “Andiamo via!” urla Stefano invitandole a salire. Non vedo la strada del ritorno, non sento nemmeno il silenzio assordante che è calato nell'abitacolo, sono in un limbo tutto mio fatto di ricordi e di disperazione. “Stai bene? Parlami Giacomo per favore!” esclama Stefano cercando di scuotermi. “Guida e portami a casa”, riesco solo a dire. Fisso la strada davanti a me, tutto il mio corpo è dolorante, ma è quello che provo dentro che mi lacera, chiudo gli occhi cercando un modo per calmarmi, ma non ce la faccio, e per un attimo quella strada che ritorno a fissare si trasforma in un percorso che va in senso contrario, un percorso che avevo promesso di non esplorare più, ma mi perseguita, togliendomi ogni speranza di vivere una vita normale, una vita in grado di restituirmi un po' di serenità, una serenità che ho cercato oltreoceano. Sono talmente avvilito e stanco che non m'accorgo di essere giunto davanti alla casa di Stefano. Le ragazze spariscono dalla nostra vista e Stefano scende. “Vieni”, dice mentre mi aiuta, “andiamo a casa mia. Non puoi tornare in questo stato, ai tuoi verrà un colpo.” Un brivido mi assale. “No, portami a casa invece, me la caverò.” Lui sembra non sentire, continua a dirigermi verso la sua porta. “Stefano...” ansimo per il dolore. “Stai zitto, lasciati medicare almeno!” mi rimprovera. “Va bene”, rispondo arrendendomi. Impieghiamo diversi minuti ad entrare, Stefano mi appoggia alla parete, perché faccio fatica a stare in piedi. “Aspetta qui e non muoverti”, ordina, “vado a prendere un telo da stendere sopra al divano”, aggiunge sparendo dalla mia vista. Con tutto il sangue che si è depositato sul mio corpo e sulla maglia rischio di sporcare tutto quanto. Lo vedo ricomparire con un grande asciugamano, lo sistema sul divano quindi viene a prendermi. “Ti aiuto a togliere la maglia”, dice guardandomi negli occhi. Chissà in che stato sono, mi sento un mostro, un mostro tumefatto. “Faccio io”, rispondo, ma il tentativo viene vanificato dal dolore sordo che arriva improvviso. “Cazzo Giacomo, lascia fare a me!” sbraita, e con un gesto repentino mi sfila la maglia. “Cristo! Hai botte su tutto il torace”, esclama guardandomi, peccato che mi veda solo ora, non sono un bello spettacolo e non posso nemmeno nascondermi. “E' cosa normale dopo un pestaggio, credimi. Hai del Lasonil pomata in casa? Fa miracoli credimi.” La mia risposta è dettata dall'enorme esperienza che ho in fatto di pestaggi, e a lui non sfugge, dato che la mia esclamazione lo lascia basito. “Si può sapere cosa cazzo è successo? Perché quelli ti hanno pestato in quel modo furioso?” Abbasso la testa, non voglio guardarlo in faccia, mi manca il coraggio. “Non lo immagini?” rispondo con un timbro che quasi non mi appartiene. “Cos'è un nuovo gioco? No, non lo immagino ed è raro che io faccia a botte, ma quelli avevano tutta l'aria di massacrarti, mi sembra naturale chiederti il perché, non credi?” Alzo la testa è arrivato il momento, il momento di parlare. Non confessare mai la tua natura ad uno sconosciuto. Fanculo alle regole, fanculo agli errori. “Mi hanno riconosciuto, sono io quel fottuto frocio di cui parlava Silvio Borletti, è tutto chiaro adesso?” I suoi occhi sono fissi su di me, ma la sua voce non esce, non esce maledizione! Tanto vale che dia fiato a tutto l'inferno che mi porto dentro e che ho ritrovato sulla strada del mio ritorno a casa. “Sono gay da quanto sono nato e l'ho scoperto all'età di tredici anni, la mia vita è stata scandita da bugie, maschere e pestaggi, come quelli che hai visto stasera. Ho vissuto in punta di piedi, sempre, per paura di essere scoperto, per paura di essere deriso, e quando mi sono accorto che per me non c'era niente, sono fuggito oltreoceano, lì almeno ho trovato un compagno e ho una vita degna di essere vissuta”, sono un fiume in piena mentre il sangue ha ripreso a colare. Stefano mi guarda poi finalmente la sua voce esce. “Fammi capire...quelli ti hanno pestato perché sei gay?” La sua domanda mi tramortisce, possibile che gli sfugga il senso di quello che ho detto? Eppure, non è un idiota! “Cosa non ti è chiaro? Sì, mi hanno percosso solo perché sono gay, non è una novità per me, io sono l'esperto più esperto che esista nel ricevere botte, e ora è meglio se tolgo le tende così da non disturbare più la tua vista”, ribatto in tono rabbioso. Lo vedo avanzare verso di me, ha uno sguardo illeggibile, un'espressione indecifrabile, eppure leggo rabbia nei suoi occhi, rabbia furiosa. “Tu non mi disturbi, e non mi disturba nemmeno il fatto che tu sei gay! Ciò che mi disturba, invece, sono gli atti di violenza perpetuata, l'omofobia, e quei cazzoni di bambocci universitari che si sono sempre nascosti dietro ai soldi di papà, per finanziare tutti i danni che sapevano di procurare ad altri, grazie alle loro bravate! Questo mi disturba Giacomo! E adesso siediti, il sangue sta colando troppo in fretta, rischi di sporcare tutto!” La voce non mi esce più, sono costernato dalla sua reazione e come un automa eseguo il suo ordine. Stefano sparisce per una decina di secondi, poi ritorna con un enorme secchio ricolmo d'acqua e due panni spugna. “Tieni”, mi dice, “ripulisciti il viso, io lavo via il sangue dal tuo torace.” Prendo il panno e senza ribattere inizio a passarmelo sul viso. Avverto il suo tocco, è leggero, quasi delicato, credo che abbia paura di farmi male. “Non sono fatto di porcellana, puoi anche essere più deciso, non sento dolore”, esclamo tranquillo, ma lui non risponde, sembra immerso in pensieri e io muoio dalla voglia di sapere cosa gli sta passando per la mente. Mi fa male guardarlo, ma non è il dolore fisico che ho sul torace, è un male diverso, spietato, profondo. Mi sento nudo dopo quello che gli ho confessato e pagherei un milione di dollari per carpire i suoi pensieri. “Non ti ho nemmeno detto grazie per il tuo intervento”, mi costringo a dire. “Figurati”, replica, “era il minimo che potessi fare”, conclude finendo di ripulire la mia pelle. “Mi guarderai con altri occhi adesso?” la mia domanda esce inattesa, in realtà era un pensiero appena formato, ma come spesso accade i pensieri si trasformano in suoni senza nessun preavviso e la forma non è sempre perfetta. “La tua domanda è subdola Giacomo, quando dici ‘altri occhi' intendi con disprezzo o con altro?” risponde gettando il panno spugna nel secchio d'acqua e fissando le sue iridi di ambra liquida nelle mie. Ho i brividi. “Intendo con disprezzo.” “Ti sembra che ti stia guardando con disprezzo ora?” ribatte piccato. “No, ma è ancora presto, sono ferito e tu mi stai medicando, non è certamente la situazione giusta per guardarmi con disprezzo” replico sostenendo il suo sguardo. “E dimmi quale sarebbe la situazione giusta per far sì che io ti guardi con disprezzo?” insiste in un tono che io non conosco, un tono tra la rabbia e il compatimento. “Magari quando siamo insieme ad altri, oppure nella partita che dovremo giocare, mentre siamo nella tua officina, ce ne sono di situazioni che si possono verificare...” esclamo con l'intento di capire la sua reazione. “Ti senti quando parli? Possibile che non ti sia convinto davvero che la cosa non mi disturbi?” “Faccio fatica a crederlo”, ribatto abbassando il capo. Ma è in quel momento che avverto un tocco strano, un tocco diverso, la sua mano si è presa uno spazio, si è appoggiata sulla mia spalla e sembra decisa a non staccarsi. “Giacomo guardami...” dice fermo, eseguo l'ordine, ho il cuore a mille e sembra che il sangue mi circoli in modo diverso. “Dovresti difendere e non nascondere la tua natura. Essere gay non è una scelta è piuttosto una consapevolezza e tu sei stato in grado di accettarla solo oltreoceano, lontano da tutte le persone a te care, ma qui sei rimasto il ragazzo che eri prima di partire.” Le sue parole sono come spine che pungono, che si conficcano nella carne, perché di fatto quello che ha detto non è altro che la semplice verità, ora che ci penso mi sento esattamente come quel lontano giorno, il giorno che ho deciso di fuggire. “Mio padre e mia madre non sanno che sono gay, tu sei l'unico al quale l'ho confessato.” Lo dico con rammarico, mentre lui toglie la mano dalla mia spalla con un gesto lento, lento ma gentile. “Anche mio zio Fede lo era, per questo mio padre ha voluto che se ne andasse. Ma come vedi non è servito a nulla, uno ci nasce così e deve convivere con la sua diversità per tutta la vita. Tu dici di difendere la mia diversità, ma come fai a farlo se attorno a te si scatena sempre l'inferno quando ci provi? Ecco perché ho preferito nascondermi, è stato l'unico modo che mi ha permesso di sopravvivere.” Le mie parole lo hanno colpito in qualche modo, perché d'un tratto si scuote e le sua replica mi arriva nitida. “Dovresti parlare con tuo padre.” “Piuttosto morirei”, rispondo senza esitare. Stefano mi osserva, che strana espressione che ha, sembra perfino che un' ombra trapassi le sue iridi. “Non parlare della morte così tanto per dire, sappi solo che vorrei essere al tuo posto solo per avere ancora un padre a cui dirlo.” Improvvisamente avverto un tonfo sordo al cuore. Quello che ha detto mi ha colpito al punto da avvertirne il peso. “Hai ragione, forse ci penserò”, esclamo sinceramente, mentre uno spasmo mi raggiunge all'altezza del fianco. Il calcio che ho ricevuto mi ha regalato un' ecchimosi così estesa che ci vorrà almeno una settimana perché si assorba. “Fa male?” domanda Stefano ricordandosi di aver ancora la pomata sigillata poggiata sul divano. “Un po', ma ho avuto di peggio”, replico col fiato corto. Lo vedo svitare il tappo della crema, lo preme raccogliendone una copiosa dose sulla propria mano. “Mettiti di fianco”, ordina, “così posso spalmarla per bene”, conclude aspettando che io ubbidisca. E io eseguo. Mentre massaggia la crema senza premere troppo, la sua voce mi raggiunge di nuovo. “Qual' è stato il momento preciso in cui hai scoperto di essere gay?” Che strana domanda, non sono ancora pronto per dirglielo, né sono preparato a ricevere i suoi tocchi in questo modo. Nonostante il dolore sono molto provato dalla sua presenza, faccio una fatica a trattenere il desiderio che inizia a crescere, a breve dovrò confezionare una scusa per farlo smettere, perché io non ho più nessun controllo ormai. “Perché ha importanza?” replico tergiversando. “Sì, potrei far luce su cose di me stesso che non riesco a spiegare”, risponde fissando i suoi occhi d'ambra nei miei, mentre il massaggio cessa all'improvviso. Non riesco a credere a quello che vedo, lui sembra così a suo agio da farmi paura. “Se ti confessassi il momento esatto, non avrei più pace”, mi scopro a dire. “Perché?” chiede in tono serio. “Perché è stato il giorno esatto in cui ti ho veduto per la prima volta, durante il campionato di calcio. Avevo poco più di tredici anni e tu mostravi già un enorme potenziale. Ti ho guardato nella doccia ed ho avuto la mia prima erezione.” La sua bocca s'increspa in una smorfia di disappunto. “Allora sono stato io a dissipare ogni tuo dubbio?” “Sì.” “Bene, siamo pari, perché tu hai dissipato i miei.” Il panno che avevo ancora in mano cade improvvisamente, possibile che lo abbia detto davvero? “Non capisco”, dico sincero, “quali dubbi ho dissipato? Tu non sei gay Stefano, di questo ne sono sicuro.” “E' vero, ma questo non m'impedisce di provare attrazione per un uomo. Ci sono andato vicino diverse volte, ma mancava sempre qualcosa, qualcosa che mi convincesse di provarci davvero.” Cosa dovrei dire adesso? Sono così ammutolito da restarne costernato. Stefano si sta rivelando una sorpresa e io non sono preparato ad affrontare un argomento così intimo con lui, eppure chiedo, chiedo senza remore. “Hai provato davvero attrazione per un uomo?” Ad un tratto si alza, apre la piccola credenza e dice “Bevi qualcosa?” “Sì”, replico aspettando che risponda alla mia domanda, ma lui si prende il tempo che vuole, riempie i bicchieri, me ne porge uno poi si siede di nuovo di fianco a me. Si scola il liquore, quindi volge lo sguardo nella mia direzione, ora siamo occhi negli occhi. “Mi è successo in due occasioni, ma è stato tanto tempo fa, ero ancora un ragazzo”, replica senza nessuna paura. “Cosa non ha funzionato?” la mia insistenza è dettata dal fatto che desidero capire. “Non so rispondere Giacomo, ho avuto la sensazione che non avrei saputo gestire un' emozione simile, quindi mi sono arreso ancora prima di andare in fondo”, ribatte in tono calmo. “Comunque è meglio non rivangare il passato, certe volte può far riflettere. A proposito cosa ne dici di fermarti da me stanotte? Avverto io tuo padre.” Per un istante non ho voce, lo vorrei con tutto me stesso ma temo che in piena notte mi verrebbe la tentazione di varcare la soglia della sua camera per infilarmi nel suo letto. “Ti ringrazio ma preferisco rientrare...” “Allora ti accompagno in macchina”, insiste. “No, preferisco camminare. Voglio capire se domani posso giocare, in fondo ho solo qualche botta sul torace e una faccia da fare schifo, e la faccia, come sai, non mi serve per giocare.” D'un tratto scoppia a ridere. “Okay, vedo che ti è ritornato il buon umore, allora è meglio che ti presto una maglia, la tua è sporca di sangue.” Annuisco e mentre lui si alza io lo seguo sentendomi leggermente confuso. La testa girà ma tutto sommato sono stato peggio di così. “Tieni”, dice allungandomi l'indumento, “questa dovrebbe andare.” La sciolgo dalla sua piegatura e me la infilo lentamente. “Grazie, te la renderò presto”, esclamo prendendo la direzione verso la porta. Lo sento dietro di me, vorrei girarmi per mordere le sue labbra, per confessargli che sono così attratto da lui da fare una pazzia, ma non ci riesco, ho così paura che sembra che il buon senso mi stia dirigendo su strade mai conosciute, strade che non riesco a controllare. “Allora...buonanotte”, mi dice appoggiandosi allo stipite della porta, mi volto per salutarlo e il fiato mi si spezza. E' una visione celestiale quella che ho davanti, tanto che la mia gamba non accenna a muoversi, è bloccata, quasi paralizzata, ho come l'impressione che stia tentando di convincermi a restare. “ Sicuro di voler andar via?” aggiunge con voce profonda. “Sicuro...” replico deglutendo “se resto potresti pentirtene”, concludo, allontanandomi per evitare di sentire la sua risposta. Eppure per un secondo, un battito di ciglia, capto una parola, una parola che credo di non aver compreso bene, ma fuggo così velocemente da cancellarla dalla mia mente.
Alexandra Steel
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