Alexis: la fiaba di Aurora
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Sentì il battito del cuore accelerare. Lo zaino premeva sulla schiena fradicia di sudore, le gambe affaticate si muovevano con troppa lentezza. Erano dietro di lei. Camminavano in gruppo: non riusciva a distinguere quanti fossero, ma non si voltò. Stavano ridendo. Provò ad aumentare il passo, ma non ci riuscì: ogni muscolo era teso e dolorante, il volto rosso di sudore. I suoi occhi indugiavano inquieti sulla strada polverosa, mentre si trascinava a fatica verso casa. Vide l'ombra del grande palazzo venirle incontro e trovò la forza di percorrere gli ultimi metri senza fermarsi. Entrò: il tonfo del portone che si richiudeva alle sue spalle creò una barriera mentale che la fece sentire finalmente al sicuro. Il pavimento di maiolica era scheggiato e scolorito in più punti, si appoggiò al corrimano di legno scuro. L'ascensore scese cigolando, non si udiva nessun altro rumore. Uno strascico di ansia la costrinse a contare ogni piano fino al quarto, mentre risaliva a testa bassa, guardandosi la punta dei piedi. Si accorse che le scarpe di tela erano sporche e consumate: si chiese se anche i suoi compagni le avessero notate. Il pianerottolo appariva buio dopo quel bagno di sole che le aveva ferito gli occhi abbagliandola, ma si diresse sicura verso la porta anche senza vederla, prese le chiavi nella tasca dello zaino e la aprì. Era la prima volta che non c'era la mamma a casa ad aspettarla: questo la fece sentire grande, ma allo stesso tempo spaventata. Poteva percepire l'eco della voce di Claudia mentre la salutava: “Buongiorno tesoro, tutto bene a scuola?”, ma non c'era nessuna voce, soltanto un riflesso che doveva esserle rimasto incastrato nelle orecchie. Non era la stessa casa: gli spazi sembravano diversi, com'era possibile? La presenza di una persona poteva cambiare l'aspetto di un luogo? La luce gialla che entrava filtrata dalle tende, i rumori della strada, i colori degli oggetti familiari: avevano un aspetto nuovo, quasi sconosciuto. Si guardò intorno e trovò un biglietto sulla mensola della libreria: La caprese è nel frigo, il pane fresco sul tavolo, ci vediamo più tardi, buon appetito! Percepì l'affetto della mamma come una carezza, ma il silenzio era una presenza troppo ingombrante perché riuscisse a ignorarla: provò a riempirlo di gesti. Si sciacquò il viso con l'acqua fresca e si tolse gli abiti sudati riponendoli con cura nella cesta, indossò qualcosa di comodo, accese la TV e si sedette a tavola. I pomodori datterini erano di un rosso intenso e lucido: ne sentì esplodere in bocca l'intenso sapore, acido e dolce; distinse l'aroma del filo d'olio d'oliva che li ricopriva. Una goccia di latte sgorgò dalla mozzarella quando la tagliò con la forchetta e ne percepì il gusto con gli occhi ancora prima di assaggiarla. Mentre si godeva il pranzo, il rumore del silenzio era smorzato dal chiacchiericcio della tv. Il suo sguardo si alzò dal piatto: dalla credenza di fronte a lei la foto della nonna Lina la stava fissando, era la stessa che avevano scelto per la lapide. Ricordò il momento in cui era stata scattata, qualche mese prima che si ammalasse: indossava l'abito coi fiorellini neri. Quante volte si era nascosta dietro di lei, tuffando la faccia nella stoffa morbida, assorbendo l'odore di bucato pulito. Aveva un sorriso sereno la nonna, ignaro, rassicurante. Quel lumino rosso, che la mamma teneva sempre acceso, era una nota stonata e la riempì di angoscia. “Nonna, sono ancora sola.” Provò un senso di smarrimento che le fece abbassare di nuovo gli occhi e si sentì per un attimo sul punto di piangere, ma non voleva farlo e cercò di distrarsi. Ripensò all'interrogazione di geometria: era preparata e aveva risposto bene a tutto. Studiare le veniva naturale: le dava un senso di controllo conoscere le cose, sapere le risposte. I suoi compagni, invece, non riusciva proprio a capirli. Si sentiva ferita dal loro continuo, stupido, ridacchiare ed era profondamente disgustata quando ridevano nel loro modo sguaiato. Si chiedeva perché provasse quella intensa repulsione. Anche lei lo aveva fatto? Forse da piccola. Cercò di ricordare. Si, in alcuni intimi momenti aveva riso, ma non come facevano loro. Era stata un'esplosione di gioia che l'aveva travolta da capo a piedi, un'emozione intensa quanto rara. Era da tanto che non le succedeva più. Ridere era una cosa seria, un gesto riservato a momenti preziosi, non si poteva sprecare una risata gettandola via e lei aveva l'impressione che loro fingessero: era questo a disgustarla, soprattutto. Ridevano per mascherare imbarazzo, per simulare complicità o quando non sapevano reagire in altri modi. Quegli spasmi che non toccavano il cuore, a lei, gelavano il sangue. Finito di mangiare ripulì il tavolo e percorse il lungo corridoio verso la camera dei genitori. Guardò fuori dalla finestra scostando la tenda con un gesto meccanico, la strada adesso era quasi deserta. Si sedette sul letto pensando a come gestire il tempo vuoto che aveva a disposizione, mancava ancora qualche ora prima che la mamma tornasse dalla visita medica. Il suo sguardo iniziò a spostarsi, incerto, dalla finestra alla modanatura di legno scuro dell'armadio, alla maniglia d'ottone, allo spigolo della cassettiera, senza trovare pace. Infine, si perse nella grande specchiera del comò: si adagiò a sondare i dettagli dei piccoli pori della pelle, la consistenza delle labbra, la forma degli occhi, per un istante immobili, il loro colore sfuggente. Si ritrovò a osservare sé stessa nel modo sottile e profondo con il quale, talvolta, entrava in contatto con la realtà. All'improvviso accadde qualcosa che non si aspettava: non riconobbe se stessa nella propria immagine. Avvertì la certezza di non appartenere né a quel corpo né a quel mondo. Una sensazione di vertigine e puro terrore, che partiva da qualche parte nella sua anima, si diffuse fino agli arti: fu sul punto di svenire, un urlo muto le attraversò la bocca dello stomaco. Rimase impietrita per un istante che le parve eterno, incapace di muovere quella massa estranea che aveva addosso, in preda al panico. Appena i muscoli tornarono a obbedirle, il cervello diede l'impulso primordiale di scappare: si ritrovò a correre per la casa, cercando un luogo inesistente, nel quale tentava inutilmente di tornare, intrappolata nella realtà, come in un incubo eterno. Voleva la mamma con ogni cellula del suo corpo. Si bloccò quando fu accanto al divano, aggrappata allo schienale come al miraggio di qualcosa che non esisteva realmente: i pugni stretti fino a farle male, a volerlo trattenere nel mondo, prima che sparisse. Chiuse gli occhi, si sedette e iniziò a piangere. Si sentiva travolta da un senso di disperazione che non sapeva definire né gestire, sopraffatta da qualcosa che non esisteva e dai sensi di colpa per essere così com'era. Si lasciò andare cercando di estraniarsi da sé stessa, osservandosi da fuori. Permise ai singhiozzi di scandire un ritmo regolare che servì a calmarla e piangendo si addormentò. Fu svegliata, qualche ora più tardi, dal rumore delle chiavi nella toppa. Quando sollevò la testa la mamma era entrata e la stava chiamando, corse ad abbracciarla e si sentì finalmente al sicuro. – Alessia, cosa c'è? Stai bene? – – Si mamma, mi sei mancata! Sto bene. – Le era già accaduto due volte, nell'ultimo mese, di provare una sensazione di disagio davanti allo specchio, ma in casa c'era la mamma a riportarla alla realtà, a fare esplodere quella bolla di paura prima che prendesse forma. Non aveva saputo come definire le sue sensazioni, né come spiegarle, e così aveva deciso di ignorarle. Questa volta, però, si era convinta a parlarne con la madre. Prima di dormire, mentre erano sdraiate l'una accanto all'altra nel letto matrimoniale, le disse che le era capitata una cosa strana, come di non riconoscersi allo specchio. Non riuscì, però, a trasmettere il senso di angoscia che aveva provato né il panico che l'aveva scossa, così la mamma non sembrò preoccuparsi per lei quanto si era aspettata. Le aveva detto di stare tranquilla, che era per tutti un periodo di cambiamenti e che poteva capitare di provare un po' di disagio. Alessia si lasciò rassicurare, era quello che voleva anche lei: rilassarsi e non pensarci più.
Damiana Scandamarro
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