
Non avevo ancora dodici anni, ero una bambina cresciuta dentro e troppo fragile per guardare il mondo con gli occhi della realtà, eppure la notizia della morte di mia madre mi passò sopra senza scalfirmi. Non era scomparsa per una malattia, non aveva mai avuto il tempo di ammalarsi. Era stata uccisa in battaglia perché era una combattente curda e quando ero ancora troppo piccola per capire, mi aveva mandata in Europa per proteggermi dalle atrocità della guerra. Sono tornata nella mia terra dopo un viaggio che sembrava non finire mai. Sono tornata nella mia terra per restare e combattere come aveva fatto lei. Ad attendermi c'era soltanto Sirwe, una cugina che non avevo mai visto prima. Si prese cura del mio corpo fisico (jism) e affidò la mia anima (nafs) e il mio spirito (ruh) a Ziryan, il mio nuovo maestro. «Un popolo senza terra è un popolo senza destino.» furono le prime parole che mi disse. E quando abbassai lo sguardo verso i miei piedi nudi che calpestavano la polvere, mi sollevò il mento con due dita. «La terra non è il suolo dove cammini,» continuò «la terra è pane per i vecchi e speranza per i figli!» «E quelli di mezzo?» gli domandai, sollevando un piede alla volta per proteggerli dall'arsura. «Chi sono quelli di mezzo?» mi domandò con voce calma. «Quelli che non sono vecchi e non sono figli.» obiettai, con l'innocenza di chi non ha mai avuto un vero confronto umano. Ziryan mi fece cenno di avvicinarmi e poi mi invitò a salire sul muretto di pietra davanti alla sua casa. «Sono tutti quelli che riesci a vedere.» esclamò, passandosi le mani nella sua lunga barba bianca. «Ma non c'è nessuno!» «Sono andati a riconquistare la nostra terra.» «Torneranno presto?» gli domandai preoccupata. «No,» abbassò il tono della voce «torneranno soltanto quando sarà liberata.» Fu Sirwe a spiegarmi che quelli di mezzo erano morti per difendere Kobane. Adesso eravamo soli, ma il nemico non ci aveva ancora sconfitti. Andavo tutti i giorni da Ziryan. Era come andare a scuola da un vecchio maestro che sapeva ogni cosa della vita e da lui imparai a guardarmi intorno, perché fu questo il suo primo insegnamento. «Chi sono i nostri nemici? » gli chiesi. «Sono tutti quelli che ci sorridono.» mi mise in guardia «Le persone buone non hanno bisogno di fingersi nostri amici, perché lo sono già.» «Ma Sirwe mi sorride sempre e mi abbraccia. La devo considerare un nemico?» «Ti fidi di lei?» «Non ho nessun altro di cui fidarmi. » sussurrai «A parte te ovviamente!» «Sirwe era come una sorella per tua madre.» «Non voglio parlare di mia madre.» gli ribadii «Voglio parlare di mio padre. Anche lui è morto vero?» «Eri ancora nella pancia di tua madre quando andò a cercare la nostra terra. La nostra è una vita così, senza la certezza di vedere la prossima alba o il tramonto. C'è chi muore di notte e allora l'oscurità diventa una coperta di seta che lo nasconde agli occhi del nemico... e chi invece resta per ore nella polvere sotto il sole, per essere consumato lentamente dagli animali del deserto.» «Non voglio più sentire queste storie!» «E cosa vuoi sapere allora?» «Voglio imparare a combattere per uccidere chi ha fatto del male a mia madre e mio padre.» «Va bene,» sentenziò Ziryan «dalle tue parole ho capito che sei pronta, quindi domani ti insegnerò!»
Il mio nome è Nalîn e non avevo ancora dodici anni, però ero pronta a difendere il villaggio, come tutte le donne che mi sorridevano senza essere mie nemiche. La mattina aiutavo Sirwe e il pomeriggio andavo a scuola. Ma non era una scuola come quelle che avevo frequentato in Europa. Non c'erano i banchi, la lavagna e la cattedra, ma soltanto un muretto di pietra che mi separava dal maestro. Lui stava dall'altra parte, perché quella era la sua terra. Io invece stavo seduta sopra un sasso piatto, perché le sedie le avevano già bruciate quasi tutte per fare il fuoco. «Quando avrò un'arma?» domandai, alzandomi in piedi. Ziryan mi fece cenno di tornare a sedere e poi si chinò dietro il muro. «Questa è la tua arma,» mi spiegò, mostrandomi un bastone «devi averne cura perché non ce ne sono altri.» «Non posso uccidere un nemico con un bastone» gli urlai «Non posso uccidere nessuno!» «Non è vero!» mi guardò con un'espressione burbera «Là in fondo c'è uno scarafaggio e una farfalla, puoi provare la tua arma su di loro.» «Non voglio uccidere una farfalla.» obiettai. «Perché no?» «Perché è bella e non mi ha fatto niente.» «Allora uccidi lo scarafaggio!» mi spronò.
Il mio nome è Nalîn e non avevo ancora dodici anni quando sono diventata un'assassina. «Ti senti meglio adesso?» mi domandò, mentre schiacciavo quella bestia immonda fino a farla a pezzi nella polvere. «Mi sento più forte.» risposi. «È normale,» ammise «hai ucciso un nemico che è mille volte più piccolo di te!» «Poteva essere pericoloso.» obiettai «Avrebbe potuto avvelenarmi nel sonno, magari entrarmi dal naso o dalla bocca e andare giù nello stomaco fino a farmi vomitare.» «Quindi ne sei fiera?» «Sì,» annuii «ora quale altro insetto schifoso posso ammazzare?» «Dovresti cercare la moglie dello scarafaggio e anche i suoi figli,» mi sorprese «devi assicurarti che nessuno di loro possa venire nel tuo letto a vendicarsi.» «Non possono sapere che sono stata io.» «Potrebbero andare nello stomaco di qualcun altro, pensando che sia lui il colpevole. No... no... devi trovarli e ucciderli. E quando li avrai eliminati, devi sterminare tutti i loro parenti, così da essere assolutamente certa che non ci potrà essere alcuna vendetta.» «Non si possono schiacciare tutti gli scarafaggi del mondo!» affermai. «Mi fa piacere che tu abbia imparato questa lezione» sorrise «perché è esattamente ciò che succede in guerra.»
Nalîn Arslan
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