Fu Erika, cocktail shakerato tra le nuvole, a far scaturire involontariamente “la sfida del cavo elettrico”, che tanto eccitò i miei amici da diventare una consuetudine annuale - come il palio di Siena o la regata delle quattro Repubbliche marinare - e poiché iniziò il ventuno di luglio, e nessuno si fece male, quella data fu seguita in modo scaramantico anche nelle “edizioni” successive. La prima sfida fu consumata nel pieno di un'estate che ricordo come la più torrida e insopportabile della mia vita, dopo un lungo giro con i motorini che ci aveva resi esausti. Quel giorno il sole rovente alto nel cielo ci spingeva a cercare un posto all'ombra tra gli alberi, che sembravano scomparsi dall'orizzonte, ai piedi dei quali intendevamo stenderci e dedicarci all'unica attività adatta per quella temperatura: il dolce far niente. Eravamo ormai nell'estrema periferia di Roma quando, curvando su una stradina sterrata, ci trovammo davanti a un paio di vecchie case coloniche, immerse in un campo di erba selvatica e chiuse su un lato da un boschetto di alti pioppi, che sembrò comparire dal nulla come un'oasi nel deserto: avevamo trovato l'ombra. Ci dirigemmo immediatamente verso il boschetto dove, dopo aver abbandonato i motorini qua e là, ci stendemmo nell'erba ai piedi degli alberi. Erika che, prima di tutti si stese a pancia ingiù, diventò un doppio cuscino per Giuggie e Umberto, ognuno dei quali stendendosi appoggiò la testa su una natica del suo splendido culo. La natura l'aveva attrezzata per far fumare le marmitte dei desideri: il suo corpo perfetto, il volto dagli occhi malandrini e la bocca provocante, avevano quell'armonia, quei guizzi e quei movimenti che la dotavano di una sensualità naturale e congenita. La pelle del suo volto, liscia come quella di una bambina, le donava una disarmante aria infantile, ma il suo corpo era come una bella barca alla deriva senza nessuno al timone, una libellula in volo senza direzione, una bolla di sapone alla mercé dei flussi aerei. Il ventaglio di tutte le sfumature del compatimento e dell'emarginazione creato - seppure in modo diverso - da genitori, coetanei e insegnanti, contribuiva a farla sentire diversa e a disagio. I loro pensieri severi ed evidenti sembravano emettere sempre la solita sentenza: “Che cosa farai Erika in questo mondo moderno, civile e complicato, tu, così incapace e inadeguata?” Al di fuori del nostro gruppo chi l'avesse sentita parlare l'avrebbe subito considerata una ritardata: a diciotto anni leggeva ancora a voce alta aiutandosi con l'indice, le lettere che scriveva erano grandi quanto i bottoni di un cappotto, e aveva finito la quinta elementare quando era diventata fertile già da qualche tempo. Per noi, che non avevamo tabù, era la nostra femmina e le volevamo bene. Erika era semplice, senza inibizioni e vulnerabile. Le piaceva e la incantava quel senso stupendo di provvisorietà di quegli anni, quando si sentiva avvolta in una gaia nuvola iridescente, insieme al culto della libertà dei sensi che viveva pienamente. Se un maschio le chiedeva di fare l'amore, dopo un secondo lo faceva, spesso impudicamente davanti a tutti. E a volte i giochi d'amore si consumavano con più partecipanti contemporaneamente. - Sto bene con voi, - ripeteva. Nel nostro gruppo scoprì la forza del desiderio e il potere del sesso, tramite il quale sentirsi importante. - Ragazzi, vi amo tutti, anche voi ragazze, amo tutto il mondo. Ma tu Alex, perché non fai l'amore con me? Sei l'unico che non mi vuole. Ma, prima che le rispondessi, intervenivano gli altri ragazzi: il suo lui se l'è svitato e l'ha riposto in soffitta, se lo riavviterà quando troverà l'anima gemella. Erika, le dissi: - Un maschio dopo il sesso diventa debole e perde tutte le sue energie, il fatto è che devo studiare... poi quando apro i libri non capisco più niente, - buttavo lì quella scusa, ma i motivi per cui la rifiutavo erano due: non ero abbastanza disinibito e farlo con lei mi sembrava come rubare le caramelle a un bambino. - Baciamoci Alex, almeno questo. La baciavo.
Tra i due edifici abbandonati e fatiscenti, distanti fra loro una ventina di metri, era steso un cavo che un tempo portava l'energia elettrica a entrambe le abitazioni, oggi disattivato e inutile, che nel traliccio successivo finiva penzolando nel vuoto. Il cavo tra le due case si trovava a un'altezza di una decina di metri dal suolo, ed era facilmente accessibile dalle finestre dei solai nel sottotetto. Mezzogiorno: caldo e fame. Le ragazze, previdenti come mamme, avevano acquistato per tutti delle fette di salame, pane, sacchetti di patatine, lattine di birra e coca cola. I soldi non erano un problema saltavano sempre fuori: si stava insieme, pertanto anche quelli personali erano di tutti e c'era sempre chi ne aveva anche per gli altri. In breve trasformammo il gruppo di alberi a ridosso delle due case in un letamaio di carte, lattine, briciole, mozziconi di sigarette e chewing gum, creando il caos. Fu dopo quello spuntino che Erika, sollevando la testa e guardando quel cavo, tirò in ballo l'articolo che aveva letto il giorno prima. Impiegando un buon quarto d'ora riuscì a raccontarci la storia di un vecchio funambolo francese il quale, per ritornare alla ribalta e dimostrare a tutti il suo valore e il suo coraggio, aveva camminato per un centinaio di metri lungo un cavo della corrente elettrica, da un traliccio al successivo, aiutandosi con una lunga asta per bilanciarsi. Uno dei tipici trafiletti, di quattro o cinque righe, che lei leggeva quando le capitava un quotidiano sott'occhio, a volte imparandoli a memoria perché sapeva che prima o poi ce li avrebbe raccontati: brevi scritti di commento a fatti accaduti o a volte inventati di sana pianta, con i quali riempire la colonna di un giornale a fondo pagina. Erika raccontò quel fatto, come sempre, senza pensare alle conseguenze. Giuggie scattò in piedi, come se fosse stato punto da una vespa: - Chi scommette che mi appendo a quel cavo e usando solo le braccia vado da una casa all'altra? E indicò il cavo elettrico che poco prima aveva fatto ricordare a Erika l'episodio del vecchio funambolo. - Lo posso fare anch'io, - disse Umberto. Si fece avanti Oscar, anche lui un personaggio molto particolare del nostro gruppo: - Se è una gara partecipo anch'io, - disse. Fummo percorsi da un'eccitazione incredibile e ci sollevammo tutti in piedi. Alle ragazze non pareva vero di aver sentito quello che volevano fare i maschi: sgranarono gli occhi e si fecero attente. - Va bene, allora facciamo una gara e vediamo chi impiega meno tempo ad attraversarlo. Si stabilirono le regole e il premio: chi avesse vinto si sarebbe portato a letto Erika per tutta la notte e lei, felicissima, l'avrebbe appagato in tutti i modi possibili e inimmaginabili, trasformandosi in una specie di juke-box di carne sul quale bastava selezionare il desiderio voluto; ma il vero premio era che, fino alla sfida successiva, il vincitore diventava il capo branco, quello più rispettato: “Il lupo con la coda sollevata”, considerato il più forte e coraggioso. Invece, l'ultimo arrivato, avrebbe dovuto pagare la cena a tutti i presenti. Vinceva chi impiegava il minor tempo nell'attraversamento del cavo e nel farlo ci si poteva aiutare anche con le gambe, non come inizialmente voleva Giuggie con la sola forza delle braccia. Così quel cavo diventò un possibile dispensatore di morte e di emozioni: i ragazzi che partecipavano alla sfida oltre che forti dovevano essere tanto coraggiosi quanto incoscienti.
I primi due anni alla “sfida del cavo” avevano partecipato: Umberto, Oscar e Giuggie, che aveva sempre vinto e, più di tutti gli altri, non aveva paura della morte perché dalla vita non aveva avuto niente. Per lui programmare il futuro, pensare al domani senza vivere l'oggi, fino all'esaurimento fisico e mentale, era qualcosa che non avrebbe mai compreso. Lui era l'unico del gruppo a non essere incensurato avendo scontato una pena di quasi un anno in riformatorio. Naturalmente la gara era sempre aperta a chiunque ma di gente disposta a rischiare la pelle, seppure nella giovanile esaltazione dei vent'anni, non ce n'è tanta in giro e nel nostro gruppo ne avevamo ben tre. Oscar era pulito per quanto riguarda la fedina penale e per tanti aspetti si poteva dire che avesse avuto un'educazione e una famiglia normali: ma, sostanzialmente, era un picchiatello. Madre natura l'aveva fornito di questo genere di vocazione per il rischio, come in altri casi può regalare una bella voce, un gran naso, o un potente membro. Quanto a Umberto: non era un delinquente né un incosciente. Perché lo faceva? O meglio, per chi lo faceva? Ma questo lo venni a sapere solo in seguito. Non aveva avuto una regolare vita famigliare: i suoi genitori erano morti in un incidente stradale dentro l'auto in cui lui, neonato di soli sei mesi, era rimasto completamente illeso dentro la culla sistemata tra i sedili posteriori. Lo sterzo di quella carretta da rottamare si era bloccato di colpo proprio in curva, portandoli inesorabilmente incontro al loro destino: una quercia. Umberto fu allevato dalla nonna, già vedova e stanca quando successe la disgrazia, che per non fargli mancare nulla dovette ritrovare energie giovanili scomparse da molto tempo, lottando contro l'età, la stanchezza e le malattie. Giurava a se stessa di non lasciarsi andare alla rassegnazione e alla liberazione della morte fintantoché non lo avesse visto sistemato e con un lavoro stabile. Ma lui, lo so, continuava a percepire l'infinita solitudine con cui la vita l'aveva accolto, perciò avrebbe voluto sposarsi il più presto possibile, per crearsi quella famiglia che non aveva mai avuto.
Mario, invece, non aveva mai partecipato a quell'impresa né mai l'avrebbe fatto, perché non aveva la prestanza fisica necessaria. Quel giorno c'era almeno una quindicina di spettatori, ansiosi di capire chi avrebbe rappresentato le migliori qualità di coraggio, temerarietà e forza fisica tra tutti noi. - Ragazze, guardate la faccia di Alex: è bianco come un lenzuolo È il terzo anno che veniamo qua a seguire questa sfida e lui non si è ancora abituato. Sembra avere l'espressione di mia madre quando mi chiede che cosa ho fatto la tal giornata ed io glielo racconto con tutti i particolari, - disse Erika. Non c'era niente da fare: quello che pensava, qualsiasi cosa fosse, doveva dirlo. Sonia la fulminò con lo sguardo: - Erika, finiscila. - Va bene, che cosa ho detto in fin dei conti. Capii che a Sonia, anche se l'avevo derisa per via della sua ignoranza, stava a cuore la mia immagine. Io non avrei mai fatto quello che sto per raccontare se lì vicino, appena dietro di noi, non avessi notato la presenza del Giglio Rosso. Quando la vidi, mi prese una specie di raptus e, dopo essermi fatto a torso nudo, imboccai la scala della casa per salire fino alla finestra del sottotetto. Un desiderio sessuale che non avevo mai conosciuto prima d'allora aveva annientato in me ogni barlume di razionalità: lo facevo per avere la sua attenzione, certo di affascinarla. - Non farlo ti prego, se lasci la presa sei morto, guarda le braccia che hanno loro e guarda le tue, - mi sussurrò Mario terrorizzato per quello che mi accingevo a fare. Non gli risposi. - Non preoccuparti Mario, sta fingendo, vedrai che come arriva su ci ripensa e torna a terra con la velocità di un siluro, - gli sussurrò Sonia all'orecchio. - Sì certo, hai ragione, - e si tranquillizzò, mentre vedeva che mi arrampicavo davanti a tutti, convinto che ci avrei ripensato. - Ehi, è forse il tuo amante? - proseguì Erika provocando una risata all'unisono. Giunto in cima mi attaccai al cavo come una scimmia, partendo velocissimo tra lo stupore generale. Era come se mi avesse preso una forma di delirio. E allora, fecero scattare i cronometri degli orologi. - Cristo come menavi le gambe e le braccia, sembrava non avessi mai fatto altro nella vita, - mi dissero poi. - Cazzo se ci sa fare ragazze. - Calmati Mario, - disse ancora Erika, - vedrai che torna giù tutto intero, anzi, per me vince: guarda com'è veloce. Sei agitato? Adesso ti calmo io. Allora, senza aggiungere altro, dopo aver trafficato al centro del suo corpo gli afferrò in mano la molla e iniziò a muovere la mano in su e in giù come se stesse per completare la dipintura di una parete. - Anche a me Erika, - disse prontamente Paolo. E così, mentre a dieci metri di altezza io rischiavo la pelle, Erika a terra riportava un po' di leggerezza dando sollievo a due maschi contemporaneamente, rientrata nel suo ambiente naturale, come un pesce che ritorna nell'acqua dopo aver boccheggiato fuori per un po'. Li guardavo dall'alto: tutti immobili, quasi allineati come un plotone all'ispezione, i nasi a quarantacinque gradi, eccitati per il pericolo, eccitati per quello che faceva Erika, eccitati perché rischiavo la vita per far circolare l'adrenalina nel loro sangue.
Come una regista che assisteva alle scene del nostro film per valutarne la riuscita, c'era il Giglio Rosso, ma non avevo davvero idea di come fosse arrivata fino a lì e perché ci avesse seguito, né sopprattutto cosa volesse da noi. Continuava a non parlarci, a non legare con nessuno, a osservarci da lontano come un'aquila in volo, maestosa e inavvicinabile. Sembrava aspettasse il momento giusto per intervenire. Intanto, per catturare la sua attenzione, io stavo appeso a quel cavo rischiando di cadere e spezzarmi l'osso del collo.
Franco Alesci
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|