Le gambe di metallo della sedia graffiano le orecchie, stridendo sul pavimento, ma Adam non vi bada. Continua ad avanzare compassato, trascinandosela dietro con pazienza, una mano stretta sullo schienale di metallo, l'altra a stringere un paio di cesoie intrise di sangue. Non lo fa per concedersi il tempo di assaporare il momento. Non è un sadico. La lentezza è parte del rito. È una recita la sua. Un teatrino, volto a dare il tempo, all'uomo legato dall'altra parte di quello squallido garage, di realizzare ciò che sta per capitargli. Pregustare il dolore che sta per infliggergli. Alle sue spalle, il tipo a cui ha appena finito di dedicare le proprie attenzioni emette un lamento sommesso. Adam si ferma e torna a voltarsi verso di lui. Ha la testa china sul petto e le gocce pesanti che gli cadono dal naso, storto sul volto, hanno formato una pozza sul suo ventre gonfio. Delle mani legate sui braccioli della poltroncina rimangono solo i palmi, con delle piccole propaggini carnose dove fino a poche ore prima c'erano le dita. Morirà dissanguato, una morte lenta ma non dolorosa. Molto più di quanto meriti. Adam riprende ad avanzare, un passo dopo l'altro. Lento, meticoloso, come lo è stato negli ultimi mesi. Un passo dopo l'altro, guardando solo alla meta. Il tizio davanti lo fissa con gli occhi spiritati e il volto cianotico. Forse per la paura, forse per il fiume di droga che gli scorre nelle vene. Gli piazza la sedia di fronte e vi si siede con cerimoniosa calma. «Però», gli dice, «tosto il tuo amico». Quello sembra d'improvviso riprendere contatto con la realtà. Si scuote contro lo schienale e si dimena come in preda a una crisi epilettica ma le fascette che gli immobilizzano braccia e gambe non cedono di un millimetro. «Fanculo bastardo!» Ha la faccia cattiva di chi ha visto il male del mondo e vi si è riconosciuto. «Dai, non fare lo stupido», lo rimprovera Adam bonariamente, «a te resta la parte facile». «Io... io non ti dico un cazzo». «Sì, lo diceva anche lui». «L'hai ammazzato brutto figlio di puttana». «No, non ancora. Al momento l'ho solo mutilato». «Sei un bastardo!». «Il nome». «Io non...» Adam si muove prima ancora che finisca la frase. Gli afferra il dito medio della mano sinistra, lo solleva e poi, con un colpo secco delle cesoie, lo recide. L'osso schiocca come un ramo secco tra le lame. Il tizio sputa fuori tutto il fiato che ha nei polmoni. «Il nome», ripete Adam non appena le urla si placano. «Fottiti, fottiti, fottiti! Non te ne fai un cazzo del nome! Quello abita a Kandia, oltre le terre degli Altri! Non riuscirai mai a...» Si muove ancora. Un altro schiocco sordo, altro sangue, altre grida. «Fi... figlio di puttana io ti ammazzo!» «Il nome». L'uomo esplode in una risata isterica. «Ti divoreranno. Ti divoreranno se solo provi a metterci piede. Lo capisci gran figlio di una cagna? Non puoi attraversare le terre degli altri sen...» Adam è costretto a stringere con entrambe le mani per spezzare l'osso del pollice. La falange salta via come il bossolo di un proiettile appena esploso. «Il nome». «Argh... Si... si chiama Paul! Paul Derain. Un mezzo francese di merda. Un tipo alto, elegante, coi capelli bianchi. Lavora a Kandia, per la Haute Maison o come cazzo si chiama quel posto...» «La Haute Maison?». «È una cazzo di... di casa d'aste, roba di lusso». Adam balza in piedi ed estrae la pistola che tiene infilata nella fondina sulla coscia. «Ehi no, aspetta, ti ho detto tutto quello che...». Il proiettile che gli attraversa il cervello mette fine a ogni protesta. Ripone la pistola e si guarda attorno. C'è del cibo in giro e forse qualcos'altro che potrebbe essergli utile ma quel posto è troppo lurido e lo inorridisce anche solo il pensiero di toccare le cose dei due figli di puttana che ci vivevano. Chissà da dove provengono, quali sofferenze sono costate. Inoltre, l'adrenalina si sta rapidamente spegnendo nelle sue vene e l'odore ferroso del sangue gli sta diventando ogni istante più insopportabile per cui si limita a recuperare tutte le munizioni che riesce a trovare ed esce. Fuori lo accoglie l'aria pungente del mattino e un sole gonfio e pesante che comincia la sua lenta ascesa nel cielo da dietro i tetti dei capannoni di quella zona industriale. Abbandonata. Come ogni altra sull'intero pianeta. Dall'altra parte della strada un cane solleva la testa e lo fissa per un istante. È magro, quasi consunto. I due criminali dentro il garage saranno un buon pasto per lui. Il tempo di lasciarsi alle spalle la zona industriale e il mondo esplode di colori. Aprile inoltrato. La primavera ha rovesciato una pioggia di verde squillante sui boschi che ammantano le montagne davanti a lui. Un tempo, una vita fa, si sarebbe avventurato tra quegli alberi con timore reverenziale e meraviglia. Adesso non più. Il mondo è andato avanti e lui con esso. Adesso davanti a sé non vede altro che un'insidia. Il luogo perfetto per tendere delle imboscate o peggio. Il rifugio ideale per gli Invasati. Imbraccia l'M4 che porta appeso allo zaino e si avvia a passo spedito sul sentiero che si infila dritto tra le ombre. Procede senza esitazione per un paio di ore, sotto chiome variopinte rese quasi fluorescenti dalla luce del sole mentre la vegetazione attorno a lui geme e scricchiola e l'aria è satura dell'odore penetrante di muschio, funghi e terra umida. I piedi gli lanciano stilettate di dolore dritte nel cervello a ogni passo ma ormai nemmeno le sente più, come le cinghie del pesante zaino, che si sono da tempo scavate il proprio posto sulle spalle. C'è la sua intera vita in quello zaino, o almeno quel poco che ne resta. Acqua, medicinali, una manciata di indumenti, un sacco a pelo, due fucili, un arco con cinque frecce, una sacca con una ventina di cellulari, un piccolo pannello solare e un po' di cibo, anche se il cibo è l'unica cosa che non manca mai. Basta avere un'arma e una mira decente. Il mondo trabocca di vita, almeno nelle terre libere. Ci sono animali ovunque. Adam ha incontrato perfino intere mandrie di bestie da pascolo, fuggite dagli Invasati come da un bosco in fiamme. D'improvviso si ferma. Le orecchie tese, i muscoli pronti a scattare. Ormai si è abituato anche a questo. Il corpo che reagisce a un potenziale pericolo prima ancora che il cervello sia stato in grado di registrarlo. L'istinto. Non sapeva nemmeno cosa fosse prima del Messaggio. Un istante dopo lo sente. Un fruscio aggressivo nel sottobosco, uno scalpitare rapido e deciso. Si accosta a un fusto e si china, un ginocchio a terra, l'arma spianata davanti a sé. Qualcosa si sta avvicinando rapido da fondo valle, risalendo la montagna con una fretta ansiosa. Rimane in attesa, silente. Dopo qualche istante, tra gli alberi compare un cervo. Un maschio, ancora giovane a giudicare dai palchi appena accennati sopra la testa. L'animale avanza rapido per un lungo tratto poi si ferma, ansante, furioso. Fiuta l'aria e si guarda attorno. D'un tratto i suoi occhi neri trovano quelli di Adam. Si scambiano rapidi una muta domanda, poi l'animale distoglie lo sguardo. Si volta di scatto verso fondo valle e fugge via, balzando sul terreno agile e scattante. I suoi inseguitori compaiono pochi attimi dopo. Quattro Invasati, tre uomini e una donna. Giovani anche loro, come il cervo, non ancora trentenni forse. Gli occhi iniettati di sangue, il volto contratto in un ghigno famelico. Ansimano disperati come se fossero in iperventilazione ma continuano imperterriti ad avanzare sul terreno, cadendo, rialzandosi, incuranti delle rocce, degli arbusti, dei rovi. Adam si accosta ancora di più al tronco dell'albero e resta a osservarli mentre inseguono ottusi una preda che non riusciranno mai a raggiungere e come ogni volta non può fare a meno di provare un po' di pena per loro. Attende con pazienza che si siano persi dietro al loro desiderio evanescente e poi si rimette in marcia. Il piccolo borgo di Prosoros gli si apre davanti poco dopo essere uscito dal bosco, un centinaio di case aggrappate al versante roccioso di una montagna che sale ripida fino a una cima aguzza. La parte meridionale è stato recintata per tutta la lunghezza da una spessa rete metallica sormontata da filo spinato e l'unica via d'accesso all'abitato è attraverso la strada principale, alla quale fanno la guardia due uomini dall'aria annoiata. Uno è intento a leggere un libro, l'altro a cercare qualcosa sulla punta dei propri piedi. Adam solleva un braccio in un cenno di saluto non appena quelli si accorgono di lui. Il lettore accenna forse un movimento della testa, quindi torna a sprofondare tra le sue pagine. L'altro, invece, si alza di scatto dalla sedia su cui era stravaccato e gli si fa incontro, senza dubbio entusiasta di aver finalmente qualcosa da fare che non sia continuare ad aspettare che il tempo passi. «Salve viaggiatore», lo saluta gioioso. «Salve a voi». «Benvenuto a Prosoros. Io sono Luc e il mio amico lì è Gunther». Il lettore solleva ancora la testa e stavolta si lascia andare a un vago accenno di sorriso poi torna inesorabilmente a concentrarsi sul libro. «Non ci far caso, è un asociale del cazzo. E tu? Come ti chiami?». «Io mi chiamo Adam». «Piacere». Gli stringe la mano. È un ragazzone robusto e la sua stretta è salda e sincera. «Cosa ti porta da queste parti Adam?». «Sono un commerciante. Ho un po' di roba da smerciare». «Oh, interessante. Roba tipo?». «Di tutto. Alcolici, caffè, libri». «Dio pagherei oro per una buona bottiglia di vino». «Se mi dici dove posso dormire stanotte ti faccio un buon prezzo». «Beh, ti ringrazio ma a meno che tu non sia disposto a regalarmela dubito di potermela permettere... Però dove dormire te lo dico ugualmente!» ride di gusto, come se avesse appena partorito la battuta più divertente della storia, «Puoi dormire alla locanda cittadina. La trovi nella piazza centrale, seguendo la strada principale. Non ti puoi sbagliare». «Grazie». «Ma se vuoi entrare in paese devi lasciare le armi». «Come?». Il tizio spalanca le braccia in un gesto bonario mentre il lettore solleva nuovamente lo sguardo. «Che vuoi farci? Nostro il paese, nostre le regole. Ti garantisco che ritroverai tutto». «Davvero?» «Assolutamente». «Pretendete un bel po' di fiducia per essere dei perfetti sconosciuti». «Ma non è su quella che si fonda una convivenza civile? E comunque ripeto: nostro il paese...» «Ho incontrato degli invasati nei boschi». «Sì, capita, soprattutto d'estate. Le ombre degli alberi li riparano dal sole. Ma non si spingono mai fino a qui. E comunque ci siamo noi no?» Adam annuisce lentamente. Inutile discutere. Si toglie lo zaino dalle spalle e lo appoggia a terra. Stacca il Mossberg e l'M4 che porta assicurati alle cinghie, li scarica e li consegna a Luc. Quello li osserva come un bambino ebete di fronte al giocattolo tanto desiderato. «Un M16, fantastico». «È un M4». «Quanto vuoi?». «Non puoi permetterti una bottiglia di vino». «Mi sa che hai ragione». Adam ripone le cartucce nello zaino, quindi sfila le due Beretta dalle fondine alle cosce, estrae i caricatori e consegna anch'esse. «Rivoglio tutto». «Riavrai tutto». Infila anche i due caricatori nello zaino e lo solleva. «Anche il machete», interviene il lettore, gli occhi di nuovo fissi su parole che non sta leggendo, «e i coltelli da guerra se li hai». Adam li passa in rassegna entrambi, senza nascondere la propria irritazione. Stavolta è il lettore ad alzare le spalle «Te l'ha detto: nostro il paese...» Consegna il machete appeso alla cintura e il coltello da caccia che tiene dietro la schiena, poi, finalmente rimette lo zaino in spalla. «Adesso posso andare?». «Benvenuto a Prosoros amico».
Leonardo Araneo
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