Body La Strada dei Ricordi
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Queens (New York). OGGI
Oggi è il giorno. Guardo le crocette rosse pulsanti sul calendario senza rendermi conto che ormai ammontano a ben 42. Un numero che ha fatto storia nel Baseball, un numero impresso sulla maglia del primo giocatore nero della storia di questo sport. Jackie Robinson era il suo nome e la frase che aveva fatto parlare era stata quella pronunciata da Ben Chapman, allenatore dei Philadelphia Phillies; diceva: “Torna tra i campi di cotone. Non sei degno di portare un numero sulla maglia.” Ogni giocatore della Lega è stato toccato da questo fatto, tanto che il numero 42 ha assunto un significato profondo, perché non si tratta più solo di un numero, è diventato un vero e proprio simbolo.
Un simbolo giusto per far accadere qualcosa di significativo, e se il calendario segna il 42° mese, allora oggi deve essere il giorno. C'è un'idea pazza che mi frulla in testa, in realtà mi assilla, è un'idea che desidero si trasformi in azione, perché se non mi scuoto temo d'impazzire e di perdere il coraggio. Un coraggio che, 42 mesi fa appunto, mi ha costretto a compiere un viaggio spaventoso, dopo aver ricevuto una notizia che mi ha contemporaneamente sconvolto e restituito la mia non-vita. Fisso il maledetto cassetto, so che dentro è riposto quel pezzo di carta che ha spezzato per sempre quel patto sigillato da un contratto che mi ha distrutto l'esistenza. Ecco perché io la chiamo non-vita, perché di fatto non l'ho vissuta veramente, sono stato solo lo spettatore di un'esistenza che avrei voluto vivere, e il prezzo per la sua rinuncia si è rivelato altissimo. Un prezzo che però ho voluto pagare, perché di fatto non c'era stata altra soluzione a quel tempo, se non quella di sacrificarlo per un valore assoluto, un valore potente, in grado di annientarmi inesorabilmente : l'amore. Apro il cassetto ed estraggo la lettera solo per leggere il mio nome, il mio vero nome, quello che sono stato costretto a dimenticare, a nascondere, a causa di un patto estremo che sono stato costretto a sigillare. Lo leggo ad alta voce e il mio cuore sobbalza. Lo ripeto di nuovo e mentre ripongo nuovamente la lettera nel cassetto, mi dirigo verso lo specchio pronto e agonizzante allo stesso tempo, perché so che l'immagine riflessa mi restituirà la sagoma impietosa di me stesso, non c'è nome che io possa pronunciare che sia in grado di riportarmi indietro nel tempo. Dove sono i miei meravigliosi muscoli? Gli addominali che un tempo fasciavano la camicia come una seconda pelle? E le cosce che sembravano esplodere dai pantaloni sempre troppo stretti? Chi è quel vecchio che mi sta guardando? Che nasconde il suo vero volto sotto quella maschera di rughe profonde e indelebili? Dove è finito Barry, dove è sparito Body? Per un istante trattengo un magone che si fa largo, e socchiudo gli occhi per mettere a fuoco nella mia mente l'immagine di un corpo, un corpo che non è mai invecchiato, un corpo che mi ha mostrato che il tempo si può fermare, un corpo che ho ritrovato e che mi ha scaraventato nell'oblio. Non posso parlarne, non ancora, fa troppo male, male da morire. Scuoto il capo e cerco di concentrarmi sulla camicia e i pantaloni che indosso. Ho fatto tutto per bene oggi, sono pulito, indosso biancheria intima nuova, perché se c'è una cosa che non tollero è il fatto di apparire come se fossi un barbone. Guardo l'orologio, sono le quattro del pomeriggio, è giunta l'ora e io devo andare. Lascio il mio minuscolo appartamento situato nel Queens, un sobborgo di New York in cui abito da quando ho fatto ritorno, e mi dirigo con la lentezza che ormai mi accompagna da tempo, in direzione della mia meta. Ho cercato di farci l'abitudine, di convincermi che il mio corpo più di così non può concedermi, ma talvolta non mi arrendo, chiudo gli occhi e mi vedo a vent'anni, quando al mio passaggio tutti si voltavano meravigliati di quanto madre natura fosse stata generosa con me. Mando giù la saliva in eccesso e trovo la forza di continuare, di andare avanti nonostante tutto, così inizio a percorrere il tragitto cercando di non intralciare i passanti. E' gente trafelata, gente con una maledetta fretta addosso, come se in un secondo la vita gli sfuggisse via da un momento all'altro; in fondo li invidio, perché hanno ragione. Il tempo passa e non perdona, e quando ti accorgi che non c'è niente da fare vorresti altro tempo per accettarti, tempo che, ormai, non hai più perché è agli sgoccioli. Dopo circa mezz'ora di delirio, tra strombazzate di auto, odori di spezie e puzza di piscio, raggiungo la meta. E' un mercato al chiuso inaugurato soltanto un mese prima. Prendo un bel respiro, entro e mi dirigo senza tentennamenti nel reparto che ospita strumenti tecnologici. Nelle teche di vetro tanto lucide da non scorgere la differenza tra quello che posso toccare e non, brilla in bella mostra l'avanguardia della tecnologia. Telefoni che non riuscirei nemmeno ad accendere, piccoli schermi larghi un palmo che potrebbero essere televisori, macchine fotografiche così piccole da rimanerne basiti, e io mi chiedo: possibile che questa roba costi come tre mesi di affitto di un piccolo appartamento? Un rigagnolo di sudore scivola sulla mia fronte, non posso farmi prendere dalla paura proprio adesso, devo fare quanto mi sono ripromesso e desidero che sia un botto, un botto che produca un fracasso infernale. Mi guardo attorno furtivo, tutta questa gente non bada nemmeno a me, è intenta a spendere e spandere senza nemmeno rendersi conto che sono solo cose, maledetti oggetti e nient'altro! Estraggo dalla tasca della giacca un piccolo martello, lo impugno con decisione e poi con tutta la concentrazione di cui ho bisogno sferro un micidiale colpo contro la teca di vetro. Il boato è immediato, il vetro si frantuma in minuscole schegge che volano dappertutto, mentre io infilo la mano all'interno della teca, agguantando l'apparecchio più costoso: un telefono che vale come quattro mesi della mia misera pensione. Il mio gesto raccoglie l'attenzione tra gli addetti alla sicurezza come fosse un fulmine a ciel sereno, tre persone con la divisa da vigilante mi sono addosso in un battito di ciglia. “Posa l'oggetto sul pavimento assieme a quel martelletto che stringi tra le mani, e fallo lentamente” ordina il tarchiato fissandomi negli occhi, mentre fa ondeggiare quella specie di bastone di gomma in dotazione, come se volesse colpirmi. Certo non è niente rispetto alle mazze da baseball che ero solito maneggiare io, quelle sì che erano vere e proprie armi, comunque eseguo quanto mi chiede, poggio sia il telefono e sia il mio martelletto sul pavimento, non con poca fatica. “Bravo, ora fammi il favore di allontanarti e di mettere le mani ben in vista” replica deciso. Si è raggruppata una piccola folla attorno a me, sono perlopiù clienti un po' annoiati la cui giornata è stata scossa dalla mia performance. Eseguo di nuovo l'ordine facendo due passi indietro, mentre l'altro vigilante si è sistemato alle mie spalle. Chissà se mi metterà le manette, penso, lasciandomi sfuggire una smorfia divertita, invece avverto un pungolo dietro alla schiena e la sua voce arriva forte e chiara “Cammina nonno! E non fare altri casini.” Nonno? Mi piacerebbe voltarmi e dargli uno schiaffo potente, ma mi limito ad ubbidire dato che il mio scopo l'ho raggiunto. Farmi arrestare era il mio obiettivo, il resto può anche andare a farsi fottere. Dopo due ore sono al Comando di Polizia, di fronte a me un uomo di circa cinquant'anni o poco più, mi fissa sgomento. Forse si chiederà il motivo per cui un vecchio di ottant'otto anni ha deciso di fare una simile sciocchezza, e avrà la sua risposta senza nessuna remora. “Sono il comandante Jason Smith” si presenta “e dai suoi documenti risulta che il suo nome è Albert Strasberg, è corretto?” aggiunge poi prendendo un bel respiro. Resto per un istante in silenzio, darei la vita per sentir pronunciare il mio vero nome, ma non è ancora arrivato il momento, così mi limito a confermare. “E' corretto.” “E mi dica Albert, cosa l'ha spinta a macchiarsi di un reato di tentato furto e atti di vandalismo?” chiede, andando subito al punto. Fisso il mio sguardo su di lui, ha occhi grandi distanziati in modo armonico, un naso diritto e una leggera barba che sporca appena le sue guance, ma è la sua espressione che mi colpisce, sembra davvero interessato a sapere, perciò merita la mia risposta sincera. “La solitudine” replico secco. L'uomo si acciglia è incredulo “In che senso...non capisco” commenta grattandosi la testa. “Sono ben 42 mesi che non parlo con nessuno, non ho una vita sociale e per quanto mi sforzi cerco di mantenere il mio equilibrio, ma oggi non ce l'ho fatta più, così ho deciso di farmi arrestare, così almeno riesco a interagire con qualcuno.” “Sta scherzando vero?” chiede dubbioso. “Affatto” replico, spostando la gamba destra che inizia a dolere. “Vuole farmi credere che per avere una sorta di compagnia lei ha deciso di macchiarsi di un reato?” domanda con un tono che mi lascia interdetto. “E' così, e comprendo quando sia strano, ma lei non può capire” rispondo sicuro, senza mai distogliere lo sguardo. “Strano ha detto? No, è da pazzi! Sarebbe stato meglio se avesse deciso di frequentare qualche circolo sociale, oppure ponderare la soluzione di andare a vivere in una Casa per Anziani, perché compiere un reato implica sempre la carcerazione e lei non mi sembra un giovincello da quello che vedo.“ Vorrei colpirlo. Un pugno su quella faccia che ora mi sembra improbabile sarebbe ben speso, perché le sue parole sono state pronunciate senza sapere nulla di me, e questo mi manda in bestia al punto di diventare scorbutico. “Lei faccia il suo lavoro e non si preoccupi per me. Piuttosto che finire tra l'odore di piscio in qualche ospizio o lamentarmi in un fatiscente circolo per anziani, mi ammazzerei, quindi mi arresti e facciamola finita, sono stato chiaro?” L'uomo apre la bocca ma le parole non escono, l'ho scioccato lo so, ma è meglio così. “D'accordo” risponde trattenendo i miei documenti “sette notti in gattabuia, poi manderò il fascicolo al Giudice della Contea che deciderà la sua condanna, è tutto chiaro?” “Non ci sarà un processo?” domando incredulo. “Non più, sono reati minori, ora è il Giudice a decidere.” Prima di alzarsi fa una telefonata informando l'addetto di venirmi a prelevare, quindi m'invita a seguirlo. Non appena metto piede in una sorta di spogliatoio un giovane ragazzo mi si avvicina “Signore si deve spogliare, metta le sue cose sopra questa panca” esclama con gentilezza “devo passarle il disinfettante su tutto il corpo” aggiunge poi. “Non sarà mica quella cazzo di polvere bianca che ho visto nei film mi auguro?” domando un po' preoccupato. Il giovane scoppia a ridere. “No, è solo uno spray, la polvere l'hanno tolta negli anni 50.” “Ah! Bene” replico iniziando a spogliarmi. Il ragazzo non mi stacca gli occhi di dosso, non è la prima volta che succede, anche se il mio fisico è vecchio c'è chi riesce ancora ad intravedere quel corpo che ormai non mi appartiene più, e il ragazzo sembra davvero appartenere a quella categoria. “Quanto è alto signore?” chiede, incuriosito dalla mia stazza. “Da giovane ero 1,92 centimetri, ma mi sono abbassato con l'età, non saprei.” “E' stato uno sportivo però, lo vedo dai suoi muscoli” aggiunge osservando le braccia e le gambe, nonché l'addome ancora piatto ma piegato da una pelle ormai in decadenza. “Già, uno sportivo” replico solo per dire qualcosa, ma il ragazzo non demorde, mi scruta attento, fino a quando non si agita nel vedere il mio vecchio tatuaggio situato sulla spalla che ho maldestramente tentato di togliere. Lo copro con la mano per fargli capire che la sua curiosità m'infastidisce, quindi mi giro e domando “Allora quello spray?” “Sì signore” replica scuotendosi, con due guance rosse come un peperone. Effettua il lavoro, quindi mi fa cenno di rivestirmi. Nel giro di pochi minuti sono di fronte ad una stanza piuttosto comoda, l'unica differenza è la porta in acciaio e la finestrella sbarrata al centro. “Prego entri, questa è la sua cella” il tono del ragazzo è gentile, merita la mia attenzione. “Grazie figliolo, c'è altro che mi devi comunicare?” chiedo, forse per allungare una conversazione che avrebbe potuto concedermi ancora la compagnia di un essere umano, “Più tardi verrò a trovarla per definire le ultime cose, faccio il turno di notte” replica chiudendo la porta della cella non appena varco la soglia. Resto di nuovo solo, la mia pelle sa di ospedale e la stanza, pur sembrando comoda, misura all'incirca due metri quadrati per tre. Forse non ho fatto un buon affare.
Alexandra Steel
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