1 LORENZO - Ritorno a Capri - venerdì 14 agosto 1648 - Capri, Golfo di Napoli
Leggere increspature scivolavano veloci sulle onde, lungo i fianchi della feluca, sollevando piccoli spruzzi che il vento portava via. Provava a seguire con gli occhi gli sbuffi bianchi che si rincorrevano sotto i raggi del sole a spezzare il blu intenso del mare. Faceva leva su una gamba per bilanciare la leggera inclinazione della barca. Per fortuna la vela si era gonfiata quasi subito appena partiti da Napoli e la navigazione procedeva tranquilla, al soffio di un vento di maestro che non aveva mai smesso di sospingere l'imbarcazione. Appoggiato con i gomiti sulle ginocchia, sul piccolo cassero di poppa sul quale era seduto, all'ombra del tendalino, Lorenzo correva con lo sguardo lungo la costa sorrentina, provando a individuare e riconoscere i vari abitati sparsi nel verde o arroccati sulle colline. Arrivato con gli occhi a Punta della Campanella, si tirò su stiracchiando lentamente le gambe, con i piedi nudi, liberati da calze e stivali, poggiati sul legno ruvido e fresco dei paglioli. Il caldo stava aumentando con l'alzarsi del sole. Si girò verso il giovane marinaio al timone, seduto al suo fianco, con gli occhi che scrutavano vela e movimento delle onde. - Quanto manca, Filuccio? - - Siamo quasi alle bocche, Lorenzo. Sto cercando di individuare il punto giusto per virare. Ancora un mezzo miglio, credo e poi dritti alla Marina. - La sagoma inconfondibile dell'isola copriva ormai quasi tutto l'orizzonte. Erano anni che non vi tornava e rivederla di nuovo che gli veniva incontro quasi ad abbracciarlo gli provocava una reazione mista di piacere e di nostalgia. Le rade case di Capri, bianche, immerse nel verde tutto intorno, le alture vertiginose di Anacapri da un lato e quelle più dolci di S. Maria del Soccorso dall'altra, il Castello che vigilava sull'abitato, S. Michele, la Marina... A prua Michele, il giovane garzone che aiutava Filuccio sulla barca, dormiva già da un bel po', con un'espressione beata sul viso, abbarbicato a pancia in giù su un paio di ceste, torso nudo e bocca aperta. Avevano toccato i remi per un po', a inizio traversata, lui e Filuccio, poi il vento aveva fatto tutto da solo. Si tirò su a sedere, diede una lisciatina a baffi e pizzetto e mise la mano nella borsa di cuoio che aveva poggiato ai piedi del piccolo cassero di poppa su cui erano seduti. Frugò e tirò fuori la lettera che Severino gli aveva inviato pochi giorni prima. Aprì il foglio ripiegato in quattro e rilesse. “Carissimo e fidatissimo Lorenzo, le preoccupazioni e i cattivi presentimenti che ti avevo segnalato nella mia ultima missiva riguardo alla morte del caro padre Gabriele, Dio lo abbia in gloria, credo fossero più che giustificate. Facesti bene tu comunque a minimizzare in tale occasione ed effettivamente le tue parole mi aiutarono a tranquillizzarmi, ma forse esagerasti nel prendermi in giro, come tuo solito. Negli ultimi giorni infatti il Signore ha voluto mettermi a dura prova. Pochi giorni addietro alla data in cui ti scrivo è accaduto un fatto davvero increscioso da cui temo possono derivare serie conseguenze per la Certosa.” Alcune lettere non si distinguevano bene e l'intero scritto aveva una inclinazione insolita. “Non temo per me, lo sai, ma per il priore e i miei confratelli. Non so se tutto ciò ha a che fare con i tumulti dei mesi scorsi a Napoli. Per questo non voglio affidare a queste righe il racconto di ciò che è accaduto. Avendomi tu detto del tuo nuovo incarico che ti porterà a Capri nei prossimi giorni, del quale mi compiaccio perché te lo meriti, avrei piacere di potertene parlare de visu, per averne consiglio, sperando che tu ti possa trattenere almeno un paio di giorni. Avvisami per tempo prima di venire così provvederò al tuo alloggio, perché se ti affidi agli uffiziali dell'università o al vescovo finirai di sicuro in qualche stamberga a dormire su un pagliericcio. Il Signore ti sia di guida. Capri, 15 luglio 1648 Severino” Quella lettera era strana. Erano sempre rimasti in contatto dopo che aveva lasciato l'isola e Severino si era fatto chierico. Un paio di volte si erano anche incontrati a Napoli, quando quest'ultimo era venuto per sbrigare alcune pratiche con l'Arcivescovado o con la Certosa di S. Martino. Durante l'anno ogni tanto si scrivevano, per raccontarsi come crescevano e come trascorrevano le loro giornate e nella loro corrispondenza avevano sempre mantenuto un tono gioviale e allegro, anche se le loro vite ormai erano decisamente diverse. Pensò a quante volte aveva preso in giro Severino che ormai non faceva altro che parlare di meditazioni, salmi e benedizioni e delle incombenze che doveva assolvere nel monastero. Ma stavolta era tutt'altra cosa. Anche la calligrafia, di solito precisa e lineare con i suoi caratteri elaborati, in questa lettera era più essenziale, discontinua, nascondeva uno stato di agitazione o quantomeno di preoccupazione. Filuccio gli diede di gomito. - Certo che Michele s'è proprio stancato! - Indicò il suo mozzo e si portò il dito sul naso per fare segno di non fare rumore. Aveva una pesca in mano, recuperata da una delle ceste che aveva vicino. Prese con cura la mira e la tirò verso Michele. Lorenzo seguì la parabola del frutto che si andò a schiantare, spiaccicandosi un po', dietro l'orecchio sinistro del giovinastro, che sobbalzò e rovinò a peso morto sul fondo della barca. - Ma che mar... - - Michè, non bestemmiare! - Lo ammonì in tempo Filuccio. - E scetete, che siamo quasi arrivati! -
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Tirata giù la vela, si prepararono a prendere terra. - Mi metto io ai remi, Filuccio. Tu dai una mano a Michele. - Erano almeno dieci anni che desiderava tornare a remare. - Non ti sembra vero, eh? - Un sorriso accompagnò il cenno di assenso dell'amico. - È da quando sono venuto a Napoli dopo la morte di mia madre che non ho più messo piede su una barca. - - Beh, non credo che ti sia dimenticato come si fa. - - Stai tranquillo. Da piccolo andavo a pesca, sulla barca di Bartolo, un pescatore che era di famiglia, o dei suoi fratelli o di qualche altro, proprio qui giù alla Marina. Mio padre non mi ha mai impedito di farlo. Anzi. Insisteva sempre a dirmi che dovevo trovare il mio futuro con lo studio, ma anche che non era mai male imparare un mestiere. E quando si impara qualcosa, è solo questione di riprendere un po' la pratica. - Già, Bartolo. Chissà sua figlia, Menuccia, che fine aveva fatto. Magari aveva già trovato marito. Severino non ne parlava mai nelle sue lettere, anche se ogni tanto gliene chiedeva notizia. Eppure da piccoli erano inseparabili loro tre. Solo una volta, che si incontrarono a Napoli meno di un paio di anni addietro, gli aveva accennato che era proprio cresciuta, ancora più bella di sua madre. E questo gli aveva fatto pensare che forse si era perso qualcosa. Il movimento della barca lo strappò dai suoi pensieri. In piedi, fronte alla riva, con pochi colpi decisi spinse la barca verso la battigia domando le piccole onde che si infrangevano sulla riva. Michele balzò per primo giù dalla prua, scalzo e cominciò ad armeggiare nell'acqua a mezza gamba a che la barca non si arenasse tra i ciottoli. Un paio di pescatori, appena li avevano visti avvicinare alla riva, avevano lasciato le reti che stavano rammendando e, salutatili con gesti e voci di benvenuto, gli vennero incontro. Tutti insieme scaricarono le ceste con la mercanzia che la barca aveva portato da Napoli passandosele di mano in mano e le posero in fila sul selciato della Marina. Dopodiché Filuccio lanciò a Michele la falanga di legno che aveva a bordo. - Infilala subito sotto. - Il ragazzo l'afferrò al volo, piegando leggermente le ginocchia sotto il peso. Non seppe resistere. Prima che Filuccio saltasse giù a sua volta, Lorenzo lo precedette e con un balzo oltre la sponda della barca, si immerse fino a mezza gamba, bagnandosi piedi e pantaloni. Salì sul bagnasciuga e afferrò uno dei legni che gli porgeva uno dei pescatori accorsi. Riuscì a non farsela scappare dalle mani e la mise cinque, sei palmi davanti la prua. Tutti insieme, tra un incitamento urlato e una pacca sulle spalle, in un gran baccano che richiamò l'attenzione di mezza Marina, si alternarono per ripetere l'operazione e tirarono su la feluca che scivolò leggera sul grasso dei legni, finché non fu tutta fuori dall'acqua, in secco e a ridosso del selciato. Quante volte li aveva fatti quei gesti da ragazzino? Lui, Severino e gli altri ragazzi della marina? Di corsa e facendo a gara a chi faceva prima a raccogliere la falanga libera per posizionarla alla giusta distanza davanti la prua. E Menuccia? La più piccola della combriccola? Che si dava da fare anche lei, ma non ce la faceva mai a sollevarne una? E si sedeva con una risata sui ciottoli o col culo nell'acqua e il legno in braccio. Chissà se l'avrebbe incontrata. Saliti a riva recuperò la spada e il suo bagaglio, che Filuccio aveva deposto su uno scoglio. Controllò che la camicia e il paio di brache che aveva messo nella sacca di cuoio, nel caso di una permanenza più lunga sull'isola, insieme con i documenti della missione, non si fossero bagnati. Visto il caldo ne avrebbe sicuramente avuto bisogno. Lasciò asciugare i piedi al sole, spostando lo sguardo intorno, su tutti quei luoghi che gli tornavano così famigliari. La fontana, poco più in là, dove alcune donne riempivano un paio di langelle ciascuna. I ragazzini, che giocavano a mare, lungo la spiaggia sassosa della Marina. Le case bianche, immerse nel verde con i panni stesi. Tutto sembrava uguale a come la ricordava. Si sedette su uno scoglio e si accinse a malincuore a rimettersi calze e stivali. Mentre procedeva all'operazione, dai magazzini lungo la Marina si avvicinò un garzone, capelli ricci, torso nudo e abbronzato dal sole, occhi neri che lo scrutavano. - Don Lorenzo? Siete voi don Lorenzo Guerra? - - Chi mi cerca? - - Mi manda padre Severino. È lì giù, nel magazzino del vino della Certosa. Ha chiesto di raggiungerlo lì, perché non può lasciare. - Guardò nella direzione indicata da quello e scorse, nel vano a volta del magazzino in fondo alla Marina, una sagoma bianca che lo salutava agitando un braccio per aria. Finì di calzare gli stivali, si rimproverò di non essersi portato un paio di scarpe basse e più adatte alla stagione, si cinse la spada e gettò la sacca al giovinastro. - Guadagnati un paio di tornesi! - E si avviò verso il fresco dei magazzini, seguito dallo scalpiccio dei piedi nudi del ragazzo. - Lorenzo, domani io parto sul presto, prima della prima ora. - Dietro di lui Filuccio si accingeva a sistemare la barca. - Così per tarda mattinata sto a Porto Piccolo. Se non ci vediamo su a Capri ti devo aspettare? - - Si, certo. Se dovessi cambiare idea ti mando qualcuno ad avvertirti. - Con un gesto della mano salutò l'amico. Riandò con la mente a quando lo aveva conosciuto per caso in una taverna del porto a Napoli ai tempi delle scorribande da studente. Di un paio di anni più giovane, ci aveva tenuto subito a precisare che anche lui studiava presso i domenicani. Le origini capresi di entrambi avevano fatto comunque da collante per la loro amicizia. Una figura snella, avviluppata in un saio bianco che gli appariva abbondante, era intanto uscita dall'ombra del deposito e gli veniva incontro. Il candore della veste, che splendeva ancor più nella luce del sole ormai alto nel cielo, gli dette la sensazione di esser davanti a un'apparizione diafana, quasi mistica. Erano quasi un paio di anni che non si vedevano. Ancora più magro di come lo ricordava, il naso aquilino che separava due guance smagrite, coperte da una corta barba scura, le stempiature che avanzavano e facevano quasi un tutt'uno con la chierica, gli occhi che sembravano più grandi del solito. Sentì un fastidio allo stomaco, come se una mano avvizzita glielo stringesse. Si scrollò di dosso quella cattiva sensazione e si sforzò di sorridere. - Fratello Severino! - Allargò le braccia verso l'amico. - Fratello Lorenzo! - Quel saluto era ormai quasi un rito fra di loro. - Che il Signore ti benedica! - Si avvolsero in un lunga stretta e potette constatare sotto le sue mani che forse l'amico stava davvero esagerando con digiuni e penitenze. - Vieni al fresco del magazzino. Ieri è arrivato il vino da Vico e dobbiamo finire di inventariarlo e sistemarlo, così da domani lo portiamo con calma in Certosa. Ci vuole poco. Appena fatto ce ne andiamo insieme su a Capri, così per strada ti racconto tutto. - Si avviò nel fondo del locale dove un altro certosino e un paio di garzoni sistemavano in bell'ordine alcuni barili. - Prima se ne occupava fra' Gabriele. - Si schiarì la gola. - Adesso tocca a me pensarci. - - Va bene, per me l'importane è che nel pomeriggio possa parlare con il sindaco. - - Per la faccenda del vino? - - No, per quella ve la vedete con la Sommaria. Si tratta di un'altra pratica che riguarda l'Università. - Nonostante l'amicizia preferì restare sul vago. Era il primo incarico di una certa importanza che gli avevano affidato in Collaterale e ci teneva a svolgere il compito ricevuto con la massima serietà.
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2 SEVERINO - Padre Gabriele - pochi giorni al Natale del 1647 - Certosa di S. Giacomo, Capri
Il silenzio quasi assoluto che regnava nella biblioteca della Certosa fu interrotto da un leggero cigolio di cardini. Fino a quel momento solo il graffiare della sua penna sul foglio di pergamena poteva lasciar intendere che c'era qualcuno lì, nella penombra, a sfruttare gli ultimi fasci di luce che entravano dalle finestre. Fra poco avrebbe dovuto ricorrere alla tremula luce di un lume o di una candela. Chino su quella sua ultima fatica, Severino si ripromise di chiedere a Beniamino di avere la bontà di aggiungere qualche goccia d'olio a quei ferri arrugginiti. Mancava poco al vespro. Girò lentamente il capo e riconobbe subito la figura un po' pingue di padre Gabriele che veniva lentamente verso di lui col suo consueto claudicare, dopo aver riaccostato il battente. La sciatalgia ormai lo tormentava da tempo, ma lui non se ne lamentava. Se quello era il volere di Dio, era giusto così, diceva sempre. Sorrise al pensiero che però il vecchio monaco non rinunciava mai a qualche buon bicchiere di vino aromatizzato con le erbe del convento. Sembrava che fosse davvero un buon toccasana per lui! - Severino, ti devo parlare. - Bisbigliò. - Il Signore sia con te, Gabriele. Non serve parlare sottovoce, siamo soli. - - Non si può mai sapere se qualcuno ascolta. - L'altro tenne bassa la voce, mettendosi l'indice sulla bocca. - Passo il giorno e la notte a pregare, ma non riesco a liberarmi dei cattivi pensieri che il demonio ha insinuato nella mia mente. Con te posso parlare. - “Ci risiamo, ancora con la faccenda del tesoro.” Guardò con affetto il viso rugoso incorniciato dalla bianca barba del vecchio monaco che si guardava intorno sospettoso. Gli era grato per aver instaurato subito un buon rapporto con lui, fin da quando poco più che ragazzino aveva cominciato il noviziato. Era uno dei più anziani del convento e lo aveva sempre protetto dalle intemperanze dei confratelli, non sempre dediti a preghiere e meditazione. Quante volte in quegli anni, nonostante la vita solitaria e silenziosa che svolgevano per gran parte delle loro giornate, avevano avuto occasione di dialogare un po' tra di loro? Di San Bruno, di altri santi, ma anche della vita che scorreva fuori delle mura della Certosa, dei burrascosi rapporti col vescovo e con gli isolani e delle liti tra capresi e anacapresi. Entrambi uscivano spesso dalla Certosa per le loro varie incombenze e si scambiavano notizie e informazioni su ciò che avevano visto o sentito. - Cosa c'è di nuovo, padre Gabriele? - Chiese rassegnato. Da alcuni mesi aveva cominciato a insistere con quel racconto più o meno legato ai tumulti che avevano travagliato la capitale del Regno. - Fra poco c'è il vespro, ne possiamo parlare domani? Vorrei finire questa pagina. - Intinse la penna nell'inchiostro sperando che Gabriele lo assecondasse. - Lascia perdere la pagina. È importante. Devo parlartene ora, così questa notte potrai pregare per me. - Gabriele prese uno scranno e gli si sedette vicino, continuando a scrutare nel buio, come se ci potesse essere qualcuno sotto un tavolo o in mezzo ai libri. - Ricordi che ti ho parlato di essermi adoperato mesi fa per nascondere qui nella Certosa un forziere per conto di alcuni miei parenti che abitano in quel di Nido a Napoli? All'insaputa di priore e fratelli? - - Certo, come potrei dimenticarmene. - Cercò di celare il mezzo sorriso che gli era venuto spontaneo. Già, quante volte gli aveva fatto quel racconto, senza mai riuscire a capire quanto ci fosse di vero su quel tesoro. Né gli aveva mai detto dove lo avesse nascosto, quello scrigno! - Non ti ho detto che pochi giorni fa è venuto qualcuno a chiedermi di restituirglielo? - - Chi è venuto? Quando? - Lasciò la punta della penna sospesa su una “T” e si girò. Stavolta lo aveva incuriosito. - Il secondo martedì di questo mese. Era già buio e stavo sistemando un po' gli scaffali nella farmacia. Un giovane, tutto intabarrato nel suo mantello mi si è parato davanti accompagnato da un paio di brutti ceffi. Ci siamo spostati nel viale, o meglio mi hanno tirato fuori a forza perché quello aveva timore che qualcuno lo vedesse. E credo che sotto i mantelli fossero tutti e tre armati. Mi disse che veniva da Napoli, per quel deposito fatto dai suoi parenti e amici e che doveva ritirare tutto per conto degli altri, ma non aveva nessuna lettera con sé! - - Che lettera? Non ne avevi mai parlato. - Posò delicatamente la penna nel piccolo vassoio di legno sul tavolo e guardò Gabriele con più attenzione. - Ovvio che no. Ti ho detto anche troppo al riguardo, Dio mi perdoni. Non dovevo proprio coinvolgerti. - Si guardò ancora in giro e gli fece segno di stare zitto. - In verità non avrei mai dovuto accettare di nascondere qui tutti quei valori, violando la sacralità di questo posto e mettendo in pericolo l'incolumità sia fisica che spirituale di tutti noi. - Si fece il segno della croce. - Ma con quello che stava accadendo per le strade di Napoli, non me l'ero sentita di negarmi. Ho promesso però la massima segretezza, anche se con te ho condiviso qualche pensiero che con le preghiere alla Beata Vergine e a San Bruno mi hanno aiutato a sopportare un tale peso. - - E quindi che è successo? - Lo incalzò, rinunciando oramai a trascrivere il salmo. - Mi disse che lui faceva parte di una di quelle tre famiglie che avevano messo insieme il deposito. Che dopo tutti quei mesi di sommosse e violenze, visto come si erano messe le cose per gli Spagnoli e con la proclamazione della Repubblica Napoletana, la situazione sembrava essersi calmata ed era necessario che i suoi rientrassero in possesso di quei denari. Gli affari andavano male e non c'era tempo da perdere. Così mi raccontò, ma io insistetti con la necessità che mi esibisse la lettera, quella che lo autorizzasse, come era stato convenuto, e lui cominciò allora a imprecare e a scuotermi prendendomi per la cocolla. Ho temuto che mi volesse picchiare. - - Hai chiamato aiuto? Non c'era nessuno in giro? - Appoggiò una mano sul braccio del povero vecchio, nel cui volto vide il riflesso della paura che doveva aver provato. - Non ce n'è stato bisogno. Dalla chiesa arrivarono dei rumori di sedie spostate, come se qualcuno si stesse avvicinando, e i tre, allarmati, si allontanarono in fretta, bestemmiando, ma senza dimenticarsi di minacciarmi. L'avrebbero fatta pagare a me e tutto il convento. - - Quindi grazie a Dio non ti hanno fatto del male? - I rintocchi della campana annunciarono il vespro. - Gabriele, adesso dobbiamo andare. - - Aspetta, non sono le violenze e le minacce che mi preoccupano! - Stavolta fu lui ad afferrarlo per il saio per trattenerlo. - Cos'altro c'è? - - Ieri sera sono andato a vedere nel posto dove avevamo nascosto lo scrigno. Non so, mi era venuta una strana frenesia. - Si tirò su il cappuccio, quasi a voler attutire ancor più il suono delle sue parole. - E allora? - - Severino, non c'era più niente! Scomparso, ti dico. Senza alcuna traccia. Di sicuro è opera del demonio! E io adesso non so cosa fare e cosa potrà accadere! - Questa volta furono tre le croci che il pover'uomo si segnò tra capo e petto.
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Zappettava distratto intorno alle piccole insalate che spuntavano incerte nel suo orto e non riusciva a togliersi dalla mente il viso stravolto di padre Gabriele mentre si allontanava dalla biblioteca un paio di giorni prima. Usciti uno dietro l'altro per il vespro non lo aveva più incontrato in quei giorni se non nelle funzioni comuni e non era più riuscito ad avvicinarlo da solo. Chissà dove andava la sera prima quando lo aveva visto entrare di corsa in sagrestia dal chiostro piccolo, col cappuccio ben calato sulla testa e le mani incrociate davanti. - Padre Severino! Padre Severino! - Le grida di Landuino e Andrea che gli correvano incontro lungo il porticato del chiostro lo fecero voltare di scatto. - Fratelli, cosa vi fa rompere il silenzio di queste mura? - - Presto, vieni! Ga-Gabriele, nella sua cella, n-non parla! È disteso sul letto. S-sta male! - Le braccia al cielo di Landuino cercavano di amplificare le sue parole. - Gabriele? Sta male? Signore Iddio! - Si grattò dietro l'orecchio destro. - N-n-non lo avevo visto alla messa conventuale, c-c-così ho chiamato Andrea e siamo a-andati nella sua cella a vedere se-se avesse bisogno di qualcosa. - Si avviò subito verso le celle. Afferrò la tonaca per tirarla su e un insolito vigore lo spinse a precedere di corsa i due monaci, fino alla porta di quella del vecchio amico. Appena lo vide, sdraiato a pancia in su sul letto, un braccio disteso verso terra e l'altro aggrappato all'orlo del cilicio, la testa piegata all'indietro, gli occhi sbarrati, non ebbe dubbi. Gabriele, il suo vecchio amico Gabriele, colui che non gli aveva mai risparmiato un consiglio o una parola buona non era più lì con loro. Fece due passi verso di lui, fissò a lungo il caro volto nella speranza di cogliere un cenno di vita, poi cadde in ginocchio in mezzo alla cella e serrate le mani, cominciò a pregare. - Réquiem aetérnam dona ei, Dómine, et lux perpétua lúceat ei. Requiéscat in pace. - - Deve essersi sentito male stanotte. - Mormorò fratello Andrea. Si inginocchiò a sua volta vicino a lui e continuarono a pregare insieme. Landuino invece era già corso via ad avvertire gli altri. Mentre recitava meccanicamente un rosario per l'anima del defunto, la sua attenzione si spostò sulla candela, spenta, riversa sul piccolo mobiletto di fianco al letto che era messo di traverso e leggermente spostato dal muro. Poi sul cuscino di crini riverso per terra, stranamente piegato contro il muro della cella, fra il letto e il comodino. E infine sul viso del povero monaco. La bocca era esageratamente aperta, spalancata in un ultimo spasimo. Cuore e mente gli dissero, come un fulmine nelle tenebre, che ciò non fosse per far uscire l'ultimo respiro, ma per conquistarne uno. Gabriele non si era sentito male, Gabriele era stato ucciso, soffocato nel suo letto, con il suo stesso cuscino scaraventato poi a terra dall'assassino. Non ebbe alcun dubbio. A quel pensiero si piegò in due, prostrato a terra sotto il peso del segreto che l'amico gli aveva rivelato e soprattutto sotto la pena crescente di non aver saputo dare il giusto credito ai suoi timori, di averlo lasciato solo col suo tormento e, ahimè, col suo carnefice.
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3 LORENZO - Dalla Marina alla Certosa - venerdì 14 agosto 1648, ora VI - Capri
Prima ancora di giungere alla Porta della città, Severino gli aveva raccontato tutto delle confidenze di padre Gabriele sul tesoro e della sua tragica fine. Nonostante il caldo e il sole alto nel cielo, non gli sembrava vero di poter ripercorrere quella viuzza che aveva utilizzato mille volte per scendere alla marina o per salirne. Nei tratti assolati affrettavano entrambi il passo, per poi rallentare all'ombra di una pergola o un albero. Ogni tanto gli sembrava di riconoscere una vigna o un vecchio muro sui quali si arrampicavano da ragazzi per cogliere un gelso, un fico o qualche grappolo d'uva. Avevano incontrato un paio di pescatori che salivano in città che a stento però li avevano salutati. Luigino, il ragazzo che si era fatto carico del suo bagaglio, li seguiva saltellando di qua e di là. - Insomma non hai detto a nessuno dei tuoi sospetti? - - Sospetti? Sono certo, Lorenzo! Non mi sbaglio. Il suo sguardo e la bocca spalancata non erano di chi muore da solo nel suo letto, per quanto male potesse stare. - - Dai, forse stai facendo troppi digiuni. - Provò a fargli lo sgambetto come ai bei tempi, per alleggerire la tensione che gli leggeva in viso. - Ti sarai lasciato suggestionare dalle sue storie. Del resto aveva i suoi anni. - Severino fece un salto di lato per evitare di inciampare e scosse la testa. - No, no, assolutamente no. Il problema è che mi sono tenuto tutto dentro, non ho detto niente a nessuno! - - Neanche a padre Vincenzo? - - Meno che mai a lui! Finirebbe sicuramente con l'informare vescovo e governatore con i quali la Certosa ha già diversi problemi. Senza considerare che se è vero tutto quello che mi ha raccontato Gabriele e che è coinvolta gente venuta da Napoli, la cosa finirebbe di sicuro all'attenzione di qualcuno in Arcivescovado o in Vicarìa. Se non c'è già finita! - Alzò le mani al cielo. - Ma io non ho alcuna prova di ciò che dico! Non so dove possa essere stato messo questo scrigno e in tutti questi mesi non sono riuscito a trovarne traccia. Non sapevo più neanche se fosse vero che sia venuto davvero qualcuno a reclamarlo. Ho chiesto anche a Bernardo, il famiglio che aiutava Gabriele, ma lui ha negato ogni cosa, dicendo di non sapere nulla di tesori e visitatori. Ma so che ha mentito! - Avevano passato il ponte di legno di accesso alla Porta e si fermarono al fresco del supportico. - Come fai a dire che ha mentito? - Severino rimase in silenzio e riprese il passo. Sbucarono nella piazza del mercato che a quell'ora era quasi deserta. Lorenzo si fermò un attimo a guardandosi intorno. C'era poca gente nel piccolo spiazzo. Una donna con un cesto in equilibrio sulla testa li scansò affrettando il passo verso il supportico di via Longano. Gli arrivò all'orecchio il vociare animato di tre uomini, di cui uno sicuramente un pescatore, con il suo tipico berretto rosso e una spasella di pesce in mano, che discutevano gesticolando davanti alla casa del vescovo. Un paio di ragazzini, scalzi, con delle camiciole e delle brache alle ginocchia, giocavano a morra sul piccolo sagrato di S. Stefano. Il campanile della chiesa di S. Sofia dominava con il suo profilo lo spiazzo. Solo i volti delle persone erano nuovi. Per quanto si sforzasse non riconosceva nessuno. Scrutò nel buio dei supportici che davano sulla piazza, veri sfiatatoi di quel calderone assolato, aspettandosi di vedere sbucare sua madre che veniva al mercato o la piccola Maria che correva a chiamarlo per andare a mangiare. Severino lo guardò, forse intuiva i suoi pensieri. - Certo, oramai sarai abituato alla vita di città. Qui invece sembra che il tempo non passi mai. - - Già! Invece è passato! - Si scosse, mise la mano nella borsa e ne tirò fuori il sacchetto delle monete. - Luigino! Vieni qua. Dammi il borsone, adesso devi fare una cosa più importante. - - Ditemi, eccellenza! - - Eh, si, eccellenza! Sai dove abita il sindaco Catuognolo? - Tirò fuori una moneta da due grana. - Don Gennaro? Certo che si. - Spalancò gli occhi sulla moneta che gli agitava sotto il naso. - Bravo. Allora vallo ad avvisare che Lorenzo Guerra, l'incaricato della Cancelleria del Consiglio Collaterale... ti ricordi? - Tirò indietro la moneta. - Sua eccellenza Lorenzo... della cancell... leria consigliare... - provò a memoria il ragazzo. - Vabbè, più o meno hai capito, tanto lui già lo sa. Digli che se gli aggrada ci vediamo davanti a Santo Stefano poco dopo l'ora nona. Capito? - - Sissignore, ho capito tutto, non vi preoccupate! - Mollò la sacca a terra, afferrò la moneta, se la guardò e con un cenno di intesa scattò via di corsa sgambettando a tutta forza. - Volo! - Il tempo di raccogliere il bagaglio e vide la sua testa ricciuta scomparire verso le Case Grandi. - Affrettiamoci, Lorenzo. Ho saltato già le preghiere dell'ora sesta. E tu avrai fame. C'è una fresca stanzetta che ti aspetta in foresteria. - - Non dovevi preoccuparti. Avrei trovato una sistemazione. - - Ripeto. - Il monaco ignorò le sue obiezioni e si avviò giù per la stradina che menava alla Certosa. - Il Signore perdoni la mia presunzione, ma sono sicuro che Bernardo non abbia detto tutto quello che sa. - - Come fai a dirlo? - Dovette alzare un po' la voce, perché il frastuono delle cicale tutto intorno sovrastava le loro voci. Non c'era più abituato. - Perché non ti ho ancora raccontato tutto. - Si fece uscire Severino con un filo di voce. Incrociò in silenzio il suo sguardo ed ebbe quasi l'impressione che implorasse pietà. Lo spostò di lato con il braccio per fargli scansare alcune palle di sterco di mulo sparpagliate sul selciato. - Qualche settimana fa, il giorno di S. Anna, è arrivato in Certosa un gruppo di persone. Ero nella mia cella e ho sentito delle grida provenire dalla Sagrestia. Sono uscito nel Chiostro e ho visto alcuni tipi vestiti di fino accompagnati da un paio di quelli che mi sono sembrati fossero loro servitori, che discutevano con il priore. Uno di loro diceva di essere parente di Gabriele. Volevano perquisire la sua cella, ma il priore si opponeva. Gli ho sentito dire che a causa dei tumulti dell'anno scorso gli avevano affidato uno scrigno con monete e preziosi per alcune migliaia di ducati e adesso lo pretendevano indietro. Insomma quello che mi aveva detto Gabriele. - - E il priore? - - Mi è sembrato un po' intimorito dalla loro animosità, ma comunque gli ha impedito di entrare nella cella. Con calma disse loro di non saperne nulla, che il povero Gabriele era morto senza dire nulla a nessuno e che non aveva mai fatto cenno di scrigni, che se tutto ciò che loro affermavano fosse vero comunque non sapeva dove poteva averlo nascosto. - - Quindi in sostanza era tutto vero il racconto di Gabriele? - Erano ormai quasi all'inizio del viale che portava alla Certosa e Severino rallentò il passo. Voleva finire quella chiacchierata prima che altri potessero udirli. - Esatto. Anche la lettera. Infatti tutti e tre agitavano un plico che secondo loro li legittimava ad agire ognuno per la rispettiva famiglia. - - E quel Bernardo che c'entra, perché pensi che sappia qualcosa? - - Perché dicevano che quando hanno consegnato lo scrigno a Gabriele c'era un laico con lui, un famiglio e non poteva che essere Bernardo! Gabriele di lui si serviva, solo e soltanto di lui si sarebbe fidato. Non per niente usava il plurale quando mi parlava di aver nascosto lo scrigno. - - Hai chiesto qualcosa a Bernardo? - - Ho provato, ma mi evita. Dice che ha da fare e sono due giorni che non viene in Certosa. - - Aspetta. - Fermò l'amico tenendolo per un braccio. - Di tutto questo, se ho ben capito, non hai fatto parola con nessuno. Allora perché ne hai scritto a me e mi stai raccontando tutto? - Severino si grattò dietro l'orecchio, esitando. - Non so se il priore ne ha già parlato in Congregazione o se il vescovo ne sa qualcosa di questa visita, non ho il coraggio di chiederglielo. Ma i tre dell'altro giorno hanno minacciato di tornare e di mettere a soqquadro tutto il convento se non escono danaro e preziosi. - - E io che c'entro? Che posso fare? Mica sto in convento, io! - Congiunse le mani e a piccoli passi trotterellò intorno all'amico ridendo e mimando un monaco in preghiera. Forse, era meglio metterla sullo scherzo, perché davvero non capiva perché l'amico lo volesse coinvolgere e cosa lui potesse fare. Severino sbuffò, chiaramente infastidito dal suo atteggiamento canzonatorio. - Non mi prendi mai sul serio. Come al solito. - Lo afferrò per un braccio, fermando il suo girotondo, sicuramente un po' ridicolo. - Lorenzo, io ero al corrente di tutto, più o meno. Non ho dato peso alla parole di Gabriele come tu stai facendo ora con me. - Avvertì un rimprovero nelle ultime parole ed ebbe la sensazione che venisse da lontano. - È tutta opera di qualche malfattore che ha approfittato di Gabriele e lo ha ucciso. Altrimenti può essere solo opera del demonio. - Severino alzò gli occhi al cielo, si segnò. - Nel primo caso ci sarà un inchiesta ecclesiastica e forse civile, nella quale potrebbe essere coinvolta la Certosa e tutti i confratelli, me compreso, che forse sono il più responsabile proprio perché sapevo. Nel secondo, sono certo che la Santa Inquisizione finirà col metterci il naso e con loro c'è poco da scherzare. - Fece una pausa, guardandolo dritto negli occhi. - In entrambi i casi, Lorenzo, io questa volta rischio di pagare cara la mia riservatezza. Sia fatta la volontà di Dio, certo, ma credo che se riesco a saperne di più è decisamente meglio e solo tu mi puoi dare una mano a scoprire qualcosa. - Accolse come uno schiaffo la sua determinazione. Beh, come certosino, Severino sapeva perorare bene le sue cause! Restò in silenzio per alcuni istanti. - Mah, secondo me quelli di Napoli non si faranno più vedere. - Scrollò le spalle e guardò l'amico. - E farai bene a dimenticartene anche tu. Se è tutto vero quello che hai sentito, non è che col ritorno degli spagnoli per quelli le cose siano cambiate molto. Se avevano qualcosa da nascondere prima, non credo che faranno troppo rumore adesso. C'è gente che ha perso tutto, alcuni anche la vita e ci sono molti conti che, credo, il nuovo viceré vorrà regolare prima o poi. Quindi staranno ben attenti. - Sapeva di dare un dispiacere all'amico, ma questa per lui era la realtà. - E inoltre non sono un chierico e nemmeno un capitano di spada, non ho alcuna autorità per indagare e dall'Inquisizione è sempre meglio tenersene alla larga. - Tutta quella faccenda cominciava a metterlo a disagio. Lui i guai li sentiva da lontano e aveva imparato che se poteva era sempre meglio evitarli. - Invece puoi fare molto. - Insistette Severino. Gli si pose davanti e gli appoggiò l'indice sul torace. - Primo, perché in questo momento qui per gli isolani, a parte il capitano, rappresenti l'autorità di governo e se fai qualche domanda in giro nessuno ti dice niente. Secondo. - Il dito cominciò a tentare di bucarlo. - Perché a Napoli, anche grazie a tuo padre, puoi venire a sapere se in Vicarìa e all'Arcivescovado si muove qualcosa. - Il dito colpì di nuovo. - Terzo... - il dito fu inesorabile, - perché sei l'unico amico sul quale posso contare! - Sentì le spalle appesantirsi come quando da studente aiutava a scaricare le balle di fieno alla cavallerizza del Mercatello in cambio di qualche cavalcata. Non sapeva più cosa replicare. - D'accordo. - Alla fine tirò fuori con un sospiro. - Vedrò quello che posso fare. Ma ti ripeto: per me sono tutte sciocchezze. Se ti vai a fare un tuffo a mare giù a Mulo vedrai che ti passa tutto. Come ai bei tempi. - Con un sorriso e una pacca sulla spalla confermò la sua disponibilità. Il viso di Severino si rasserenò un po'. Il suo vecchio, paziente sorriso finalmente gli si disegnò sul volto. Gli afferrò la mano e gliela strinse. - Ti ringrazio Lorenzo, non sai il sollievo che provo. A rimuginare tutto da solo, mi sembrava di impazzire. - - Non farti illusioni, però. Non ti prometto nulla. - Si lisciò i baffi e fece il volto più serio che poteva. - D'accordo. Ora andiamo che i fratelli si chiederanno che fine ho fatto. - E per la prima volta nella sua vita Lorenzo Guerra mise piede in un monastero
Giovanni Nocella
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