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Autore: Eleonora Davide
Il Fiore del Carso
Romanzo Storico
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Il Fiore del Carso
Una linea tra due mondi.

Davide era salito fin lassù per ammirare il panorama. Maria era rimasta ad osservarlo dal basso aspettando che scendesse. Era proprio un uomo affascinante, alto e dal profilo fiero, il suo fisico atletico la diceva lunga sulle imprese da speleologo che ne avevano fatto uno studioso rispettato nel suo ambiente e il suo accento triestino lo rendeva ancora più attraente. Ma quella ciocca bianca, che lambiva timida la tempia destra, sbucando dai folti capelli neri, rivelava la ferita ancora aperta nel profondo del suo cuore.
Era fermo nella stessa posizione da dieci minuti e sembrava fissare un punto lontano. Maria decise di raggiungerlo arrampicandosi come poteva sul costone di roccia che si alzava sul fianco del sentiero. - Amore, cosa stai guardando? Stai bene? - Davide si scosse e, voltandosi, le rivolse uno sguardo smarrito, come se lo avesse svegliato da un sogno. L'espressione che aveva preso forma sul suo bel viso commosse la fidanzata che lo raggiunse e lo strinse a sé. Come erano diversi. Lui alto e lei piccola e graziosa, la sua Cici. Lui l'avvolse tra le sue braccia. Quando Davide si perdeva nei suoi ricordi era ancora più affascinante e lei non poteva resistergli. Era stata subito colpita dalla sua serietà, anche se aveva osservato che, quando era dell'umore giusto, sapeva essere molto divertente. Aveva anche avuto modo di notare che, nelle manifestazioni d'affetto, Davide era molto riservato, ma lui l'amava, ne era certa.
- Maria, vedi com'è bello da quassù? - le disse coprendo con un ampio gesto del braccio tutto il panorama, ma per la giovane donna c'era solo lui. Maria non riusciva a vedere altro, men che meno la distesa del bosco, di un verde intenso, che costeggiava la valle pianeggiante che si apriva sotto di loro. Neanche l'alzarsi in volo di un'aquila maestosa, che costrinse Davide a ruotare su se stesso per seguirne l'ampio percorso, sembrò catturare l'attenzione di Maria. Era felice solo con lui, anche se non era riuscita ancora a capire cosa nascondevano quegli occhi pieni di malinconia. Insieme a Davide, si disse, avrebbe potuto affrontare qualsiasi avversità.
Erano giunti fino a lì trasportati dall'ardente desiderio di scoperta che muoveva Davide. Erano giorni che studiava carte topografiche per scoprire le tracce della storia di quella zona fantastica. La morfologia era di aiuto e, in effetti, gli suggerì qualcosa, così si affrettò a preparare la spedizione speleologica che avrebbe dato risposta alla sua ricerca. Vi avrebbe portato anche la sua Maria.
Ora era lì e tutto gli sembrò più chiaro. Sapeva dove andare. Il suo sguardò cambiò di colpo e i suoi gesti divennero più rapidi. Sorrise nel vedere la sua donna disorientata. Si abituerà a me? pensò preoccupato. In breve discesero l'erta da cui avevano dominato il paesaggio e, insieme ai compagni di spedizione, si avviarono in paese.
Il dottor Curzio, medico condotto e sindaco, era già in piazza ad aspettarli. Li accolse con grande soddisfazione, stringendo forte la mano di Davide. Poi li invitò a rifocillarsi al Bar Sport.
Davide giunse subito al dunque: - Dobbiamo vedere l'entrata della grotta prima che faccia buio, possiamo muoverci ora? - - Certo signor Giordano, abbiamo ripulito l'entrata. La caverna, nella sua parte più accessibile, è utilizzata dai pastori per ricoverare le pecore, non era in condizioni da essere visitata altrimenti. -
Si avviarono tutti sul posto.
La grotta si apriva a mezza costa a ridosso del paese, dominando la valle. Da quello che sapeva, si trattava certamente di un inghiottitoio, ma che ci faceva lassù? Di solito queste aperture, capaci di assorbire l'acqua di superficie e, talvolta, di catturare interi corsi d'acqua, si aprivano nel fondo di avvallamenti. Davide, ripercorrendo la storia di quel luogo, si era già fatto un'idea di come doveva essere molti secoli prima. Quell'ampia valle era un immenso acquitrino che durante le stagioni piovose si trasformava in un lago molto esteso: il Vallo di Diano.
Di colpo tutto gli fu chiaro mentre prendeva vita, nella sua immaginazione, lo svolgersi degli eventi che avevano dato forma a quel luogo. L'acqua arrivava dai versanti circostanti e si raccoglieva tutta lì, a ridosso delle alture, prima di essere filtrata da inghiottitoi con la funzione di crivelli naturali, capaci di far passare attraverso i detriti gran parte delle acque.
Quello che era successo dopo era storia. I Romani, nel costruire la via Popilia, avevano allargato la forra di Campestrino lasciando defluire le acque del lago, regimentandone i lagni e dando vita al corso del Fiume Tanagro. Ai tempi in cui il livello delle acque era alto, la Grotta di Polla aveva svolto certamente la funzione di scarico di troppo pieno del lago e ora rimaneva a testimoniare solo un'articolata e curiosa storia geologica.
Davide voleva a tutti i costi cercare conferme alla sua teoria e spiegò al dottor Curzio come si sarebbe mosso per dare inizio alla esplorazione e al rilievo completo della cavità nel più breve tempo possibile.

Capitolo 1

- Lo sbruffone che ci aveva superato con la sua Porsche nuova fiammante aveva avuto ciò che si meritava. Per carità, il motore della fuoriserie aveva rombato, eccome, mentre superava la nostra Cinquecento giardinetta, ma quella strada richiedeva perizia e il buon Genny, un vero asso alla guida, qualche tornante dopo aveva dato filo da torcere al malcapitato pilota, grazie anche al rombo di quella marmitta rotta e al polverone che avevamo sollevato. -
I due bambini ascoltavano il nonno con la bocca aperta. Era sempre così: la meraviglia per le storie che raccontava li teneva incollati al divano, mentre Davide continuava a infiorare di descrizioni le avventure vissute in gioventù e la nonna chiamava tutti a tavola.
Fin da quando erano piccolini, il nonno intratteneva Flavio e Danilo con le sue storie e, anche una volta cresciuti, i nipoti amavano riascoltare le sue rocambolesche avventure che ogni volta si arricchivano di nuovi particolari. Gli chiedevano sempre nuove storie, così Davide li accontentava, scavando nel suo passato. Quel giorno cominciò proprio da quell'avventura siciliana, facendo qualche passo indietro nel racconto.

1956, Napoli
Davide era solito frequentare il bar Motta, in via Roma, al centro di Napoli, dove si era trasferito l'anno prima; un bar molto frequentato in cui si potevano fare dei buoni incontri. Si stava guardando intorno, perché di andare in giro per mezza Italia a vendere prodotti per fornelli e altri elettrodomestici si era stancato. Serviva per vivere, ma non era per quello che aveva lasciato la sua città. Voleva di più e di meglio.
Proprio lì aveva conosciuto, o meglio, gli avevano presentato, il Commendatore. Era convinto di avergli fatto una buona impressione e così sperava di poter ricevere una buona proposta di lavoro. Il commendatore Vitulano commerciava in materiali per l'edilizia e gli serviva un rappresentante per allargare la sua attività.
Durante un giro in Sicilia, Davide e Genny rimasero appiedati, perché quella infame della Fiat li aveva traditi in prossimità di un paese, roccaforte di un noto boss. I due giovani non erano di là e quindi non ne sapevano nulla. Un gruppetto di uomini chiacchierava vicino a un portone, si avvicinarono per chiedere informazioni. A rispondere fu un uomo con il viso segnato da profonde rughe, non era vecchio ma il troppo sole aveva scavato solchi che in parte nascondevano la cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra. L'uomo, squadrando per bene i due “stranieri”, si offrì di chiamare il meccanico e li invitò a seguirlo. Ma poi, fermandosi di colpo, si rivolse a un giovane del gruppo come continuando un discorso: “e, mentre ero alla curva della Spaccata, mi affianca un bolide. Non sono riuscito a vederlo tanta era la polvere che aveva alzato. Non ti dico il rumore, un rombo che ha coperto perfino quello della mia Porsche. Chissà chi era quel minchione che mi ha sorpassato.” Si toccava la testa, ancora incredulo di ciò che gli era capitato. “Salvo, si può dire che ti hanno fatto mangiare la polvere, no?” rispose il giovane ridendo di gusto, per interrompersi subito all'occhiataccia dell'amico.
A quel punto Davide aveva fatto cenno al collega di tacere. Poi, grattandosi la nuca e rivolgendosi all'uomo, aveva tentato: - Non le procuriamo troppo disturbo? Se ci indica il meccanico, ci andiamo da soli - . - Non sia mai detto! - aveva concluso l'uomo e non ci fu modo di controbattere perché già si era avviato facendo segno di seguirlo.
Si ritrovarono, di lì a poco, in un antico palazzo al centro del paese, si scambiarono uno sguardo d'intesa e ringraziarono, accettando l'ospitalità. Fu così che furono condotti al cospetto di don Calogero Santoli che, appena li vide, aprì un largo sorriso mettendo in vista i suoi denti marci e minacciosi, poi offrì loro dell'acqua fresca.
La calura siciliana si faceva sentire, ma la casa era ventilata sapientemente grazie a un antico espediente: c'erano delle bacinelle di ghiaccio proprio davanti alle finestre, dalle quali una corrente d'aria, indotta dal riscontro con qualche apertura sull'altro lato della casa, soffiava leggera e, in questo modo, rinfrescava gli ambienti.
Mentre l'ospite s'informava della provenienza dei due giovanotti, furono serviti dei sorbetti.
La giornata sta diventando interessante, pensò Davide.
La granita di limone siciliana, retaggio fortunato della dominazione araba in quella stupefacente isola, offrì loro un'esperienza sublime e inattesa. L'intensità del sapore dell'agrume, unita alla dolcezza e alla cremosità del gelato, produsse in loro una sensazione di vero piacere che li mise di buonumore. Così si intrattennero con il loro ospite in vari racconti che lui sembrava gradire. Pensarono che l'uomo non facesse vita di società e tale ipotesi sembrava convincentemente suffragata dal fatto che in paese non avevano visto anima viva. Genny allora si sperticò nella narrazione di imprese, in effetti mai compiute, sfoggiando il suo lessico partenopeo, ricco di poesia, di invocazioni sacre e di imprecazioni, cui Davide ormai si era abituato, lasciando don Calogero a bocca aperta. Il triestino, invece, gli raccontò delle bellezze naturali che aveva visto durante le numerose esplorazioni sotterranee. E poi lo condusse in un viaggio fantastico, narrandogli come, da speleologo, aveva penetrato le viscere della terra prima sul Carso, considerato il Sancta Sanctorum degli esploratori ipogei, e poi in Campania, dove aveva scoperto un nuovo amore: i Monti Alburni.
L'arrivo dell'attendente del boss interruppe i loro racconti. Era appena tornato dal meccanico: la macchina richiedeva una nuova marmitta che, però, doveva essere consegnata da un paese vicino e ciò non sarebbe stato possibile prima dell'indomani mattina. Calarono la testa preoccupati. Non avevano ancora venduto nulla in quella settimana di viaggio e i loro risparmi erano agli sgoccioli. - Fai preparare la cena per gli ospiti, Salvo, stanotte ci faranno l'onore di restare con noi questi due simpatici picciotti! - Rialzarono la testa rincuorati, ma tentarono di declinare il gentile invito, in verità solo per educazione. La fermezza dello sguardo di don Calogero risolse, però, il loro imbarazzo.
Fu al secondo bicchiere di un irrinunciabile Frappato rosso rubino che Genny dette il meglio di sé raccontando avventure rocambolesche e fantomatiche, compiute, a suo dire, negli anni precedenti, quando faceva parte di una banda di malviventi. Don Calogero rise di gusto, anche lui scaldato dal nettare di Bacco. Non aveva creduto a una sola parola del ciarliero ospite, ma si stava divertendo.
A portare a tavola le pietanze fu una anziana donna vestita di nero che, però, non sedette con loro a tavola, dove c'erano solo uomini, vecchi e ragazzini ma nessuna donna.
I piatti della migliore tradizione siciliana si susseguirono fino a che i due, sebbene giovani e vigorosi, non si dichiararono sazi. A quel punto tentarono di respingere gentilmente le ulteriori offerte di cibo ma furono prontamente dissuasi dal farlo da Salvo, il quale consigliò loro, con un certo cipiglio, di mangiare tutto: capirono che don Calogero non avrebbe apprezzato il loro rifiuto. Così si sacrificarono per portare a termine la cena. Stavano cominciando a capire con chi avevano a che fare dall'atteggiamento che i membri della numerosa famiglia, e anche gli altri presenti, mostravano nei confronti del padrone di casa, ma ebbero conferma ai loro dubbi la mattina seguente, quando fu il momento di lasciare quella casa.
Don Calogero li aveva fatti chiamare, li aspettava fuori di casa vicino alla macchina. L'autista aprì la portiera e li invitò a sedersi sul sedile posteriore. Provarono a chiedere dove fossero diretti ma, non ricevendo risposta, pensarono di non riproporre la domanda. Giunsero in un cantiere, dove c'erano tre uomini piuttosto malconci con le mani legate dietro la schiena. I loro visi presentavano segni evidenti di percosse. Davide s'irrigidì e Genny iniziò a sudare, snocciolando tra i denti una serie infinita di invocazioni alla Santa Vergine del Carmelo. La macchina si fermò e ne scese solo don Calogero che, rivolgendosi ai due uomini armati che tenevano sotto tiro i malcapitati, urlò due o tre parole in dialetto, il cui significato sfuggì sia a Davide che a Genny. Si guardarono preoccupati. Mentre i tre prigionieri venivano allontanati dagli uomini del boss, don Calogero tornò alla macchina e, avvicinandosi al finestrino, sorrise in modo ostentato. - Vi siete spaventati? Quei tre erano solo degli schifosi. Voi siete bravi picciotti e perciò Salvo non saprà che siete stati voi a fargli mangiare la polvere ieri. - Poi rise sguaiatamente mostrando ancora i suoi denti marci. - Ci siamo capiti, vero? - L'uomo aveva mostrato chi fosse in realtà ed era stato capace di metterli a tacere con una battuta che aveva lasciato i due uomini senza parole. Non fiatarono per tutto il tragitto di ritorno alla casa del boss, dove la loro Fiat li attendeva finalmente riparata.
Salvo li salutò con la mano mentre si allontanavano di corsa ridendo di quel cavolo di posto e dei suo strani abitanti.
- Dai, Genny - , disse Davide all'amico con la voglia di gettarsi alle spalle quell'avventura, - questa domenica ti porto allo stadio a vedere la tua squadra del cuore. Italo Bianchi, il terzino del Napoli, è una vecchia conoscenza e mi ha regalato due biglietti per la partita, ma io di calcio non capisco niente. -

Negli anni Cinquanta il nonno aveva vissuto una vita avventurosa, ma non parlava mai di quello che era successo quando era bambino e, soprattutto, della sua gioventù a Trieste.

Eleonora Davide

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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