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Autore: Elena Caserni
Tracce Dal Passato
Giallo
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Tracce Dal Passato
La Prima Indagine dei Giornalisti Investigativi Antonio e Veronica.

Anno 1975 (Nord Italia)

Avevo poco più di dodici anni quando accadde il fatto.
Il rumore assordante della ruspa mi costrinse a coprire le orecchie usando le mani.
L'enorme “bocca “dentata si scaraventò nella terra ricolma di ciottoli di ogni genere, sassi, legni marciti, pietre, ripetutamente, ammassando montagne di terra, scavando sempre più profondamente.
Tutto aveva un ritmo sostenuto, meccanico, quasi travolgente ma poi la dentatura della bocca scricchiolò, fino a toccare una superficie così dura da provocare un pericoloso frastuono.
La micidiale macchina si arrestò improvvisamente.
Cosa stava accadendo?
L'uomo che indossava la divisa scese dal suo posto di guida, si avventurò in prossimità della voragine, poi con un salto prodigioso raggiunse la bocca dentata.
Toccò con mano togliendo la terra da quella superficie per niente scalfita, poi urlò.
“Accidenti è marmo!”
Il gruppo di suore che presenziavano ai lavori restarono attonite, impaurite, quasi scioccate.
Lo stupore delle sorelle ricoprì i loro volti increduli.
Avevano tanto desiderato ampliare il convento e costruire una nuova ala che ospitasse la chiesetta, ed ora non erano assolutamente preparate a questo inconveniente.
Noi ragazzi avevamo avuto il permesso di assistere all'inizio dei lavori, solo i collegiali interni avrebbero potuto farlo, e per noi era stato un grande onore.
Vidi una enorme gru sollevare quella lastra di marmo bianco dalla profonda voragine, poi la osservai sospesa a mezz'aria, e ciò che quell'immagine restituì, fu un'atmosfera inquietante, minacciosa, angosciante.
Ad un tratto, a causa del suo enorme peso, cominciò a oscillare pericolosamente, e quello che la mia mente partorì si fece parola
“Sembra una enorme lapide” mormorai, ma quel pensiero non fu solo mio, tutti i presenti ebbero la stessa identica sensazione.
Ci fu sbigottimento, preoccupazione, paura.
Se quella era una lapide, era molto probabile che in quella fossa appena scoperta, esistessero anche delle tombe nascoste, che mai nessuno avrebbe dovuto scoprire!
Le suore ci fecero rientrare, dai loro volti si poté intuire lo spavento e la criticità di quella inattesa scoperta.
L'enorme voragine fu ricoperta da cataste di legno, quindi venne lasciata solo una piccola apertura da un lato, per permettere agli “addetti ai lavori” di entrare successivamente.
Avrebbero visitato l'interno probabilmente il giorno successivo.
Quella sera sentimmo bisbigli ovunque, frasi spezzate e pronunciate a bassa voce, notammo gruppi di suore ammassate nei corridoi, che si dileguavano all'udire di un qualunque passo estraneo al loro ordine.
Cosa stava succedendo?

La mia fantasia prese il sopravvento.
Quello che sognai nel mio letto, duro e scomodo, non fu altro che frutto della mia età, così difficile da vivere, così complicata, ma sostenuta dalla speranza, un giorno, di diventare adulto.
Vidi cadaveri sospesi nell'aria, sommersi di vermi viscidi e appiccicosi, tombe ricolme di piccoli corpi putrefatti e il volto cadaverico di un fantasma che mi sussurrava strani versi.
Quell'entità incorporea e impalpabile mi fece cenno di seguirla ed io lo feci.
All'improvviso si dissolse, al suo posto strane tracce presero corpo sul pavimento di terriccio, mi parvero orme, orme di animale.
Le seguii con il fiato sospeso, poi nel buio minaccioso e profondo due occhi rosso fuoco apparvero tutto d'un tratto e mi fissarono furiosi.
Un verso agghiacciante, spaventoso, e orripilante mi colse all'improvviso, paralizzandomi le membra.
Non potevo muovere nessun muscolo, ero completamente immobilizzato.
Fu in quello stesso istante che vidi dirigersi verso di me una specie di animale, forse era un demone uscito dagli inferi.
Il respiro mi mancò, le ginocchia cedettero, quindi caddi ai suoi piedi senza difese, pronto a soccombere alla sua furia.
Quell'essere spaventoso aprì l'enorme bocca e mi mostrò gli affilatissimi denti, poi li affondò nelle mie carni procurandomi dolori lancinanti.
Le sentii staccarsi, lacerarsi, e le mie urla spezzarono per l'ultima volta tutto quel profondo e sinistro silenzio.
“Svegliati! Svegliati!” udii in lontananza, poi aprii gli occhi.


Ero grondante di sudore, la testa era dalla parte opposta rispetto al cuscino, e il mio pigiama era appiccicato alla pelle, tanto era bagnato.
Mi toccai il corpo, sentivo ancora il battito furioso del cuore nella tempia, simile ad un tamburo a percussione.
Non avevo mai avuto un incubo così!
“Stai bene?” mi chiese Giorgio, il mio “vicino” di letto.
Lui era a due metri da me, mi aveva sentito urlare e si era svegliato.
“Ho fatto un sogno orribile” dissi, sedendomi sul letto liberando le gambe da un lato.
Giorgio mi osservò sbigottito.
“Hai una faccia... cos'hai sognato?” chiese un po' smarrito, scossi la testa senza rispondere, poi lo pregai di ritornare a letto e di non fare chiasso.
Io avrei fatto lo stesso.
Il vecchio convento che ospitava gli studenti “interni” del collegio esisteva da più di quattro secoli.
Le sue mura, così massicce ed imponenti, lo avevano sorretto per molto tempo, ma ora avrebbe necessitato di una ristrutturazione molto ampia.
L'impresa, che si occupava del lavoro, era anche stata incaricata di abbattere un ammasso di “muraglia” interna, che era in piedi probabilmente dall'inizio del 1900, in modo da scavare le fondamenta di quella nuova, che era in previsione già da qualche anno.
Questa nuova pertinenza dell'edificio avrebbe ospitato la nuova chiesa delle suore, le quali erano costrette a pregare in una vecchia cripta gelida e poco illuminata.
Dopo anni di carte e permessi finalmente avevano avuto il permesso per iniziare i lavori, ma quell'inatteso problema sorto durante gli scavi, avrebbe inevitabilmente bloccato la prosecuzione degli stessi.

Era il mese di marzo dell'anno 1975.
I miei ormoni cominciavano a farsi sentire.
La primavera risvegliava in me desideri di conoscere le cose nuove ed anche i misteri, ero grande per la mia età ed avevo una fervida immaginazione da lasciare perplesso chiunque.
Ogni lunedì, quando rientravo in collegio dopo il fine settimana passato in famiglia, immaginavo di essere imprigionato in un castello maledetto.
Vedevo, nelle gelide mattine invernali, appena percettibile la sagoma del convento immersa nella fitta nebbia, gli strati bassi erano più chiari e in brevi tratti lasciavano intravedere pezzi della possente muraglia rugosa.
Le piante circostanti così spoglie e nodose, dal colore quasi nero bruciato, s'innalzavano come guardie temerarie, bagnate fradice dall'umidità che nella mia zona era, come dire, “di casa”.
A volte mi pareva d'inghiottire la coltre nebbiosa, le narici gelavano riempiendosi di quell'aria pesante dal sapore vagamente di muschio e terra.
Metro dopo metro, mentre la macchina si avvicinava, il convento assumeva la sua forma reale, non era più una fortezza inespugnabile ed io... non ero più un prigioniero che veniva condotto nel castello
Il mio sogno ad occhi aperti era terminato, eppure nessuno avrebbe potuto togliermi l'immaginazione, io ci convivevo, e la mia mente era sempre in fermento.
Quella lapide enorme di marmo bianco che giaceva all'esterno, sembrava mi chiamasse, quasi che mi attirasse come un potente magnete, chissà quale tremendo e orribile segreto avrebbe potuto celarsi dentro quel buco oscuro, ancora inesplorato dagli operai.

Avevo sentito l'operatore della ruspa esclamare che l'altezza della buca era più di due metri, e che l'avrebbe esplorata il giorno successivo.
Poi l'operaio che lo aveva aiutato aveva posizionato una scala a pioli abbastanza lunga e l'aveva segnalata con due assi di legno appoggiati sull'apertura.
Dopo quell'incubo non riuscii più a riprendere sonno, quelle immagini avevano scatenato in me una sorta di eccitazione, quasi un'euforia che non ero più in grado di controllare.
Quella buca mi chiamava, e in me cresceva il desiderio improvviso di alzarmi e di andare a esplorare l'interno di quella spaccatura.
Era una pazzia!
Svegliai di nuovo Giorgio, compagno di tante avventure, e lo pregai di accompagnarmi.
“Ho paura non vengo” confessò tremante, “Tu resterai fuori, entrerò solo io, prestami la tua torcia elettrica” ordinai perentorio.
Giorgio non disse nulla, ma era contrariato. Non solo non voleva avvallare la mia idea, ma addirittura non se ne parlava di prendere “in prestito” la torcia che gli aveva comprato suo padre.
Sapevo che era una follia, ma volevo provarci comunque!
Naturalmente riuscii a convincerlo e tramite la cantina arrivammo all'apertura. Passammo da una finestra che aveva la grata malconcia, e in meno di pochi minuti fummo fuori.
L'aria sapeva di terra bagnata, era buio, e il silenzio sinistro ci sembrò così assordante da obbligarci ad emettere dei colpi di tosse, per essere sicuri di essere vicini.
Seguimmo la strada battuta dalla ruspa, sporcandoci le scarpe di fango e quando fummo in prossimità della buca, l'enorme lastra bianca adagiata sul terreno si mostrò in tutta la sua avvenenza.

Illuminammo con la torcia quella superficie, e la stessa sembrò riflettere strane forme in quel buio profondo e nero, deglutii all'istante e ne ebbi paura.
Giorgio si fermò, io proseguii sino all'apertura.
Vidi i primi due pioli della scala, così gli ordinai di allungarmi la torcia, poiché volevo calarmi all'interno.
Ero terrorizzato ma allo stesso tempo attirato da quel vuoto sotto di me.
Iniziai a scendere, senza pensare a nulla, con la mente avvolta nella fitta nebbia mattutina, che occupava la parte del mio cervello più misteriosa, quella che usavo per estraniarmi da tutto e da tutti, il mio ‘universo personale e fantastico', la mia realtà virtuale.
Sentii la pelle tremare, avvertii un cedimento alle gambe, come se fossero rammollite, ma continuai a calarmi fino a quando toccai il terreno.
Sentii dapprima un odore penetrante di muffa, in seguito si fece più forte, quasi pungente.
Stranamente non faceva freddo ed ebbi l'impressione di trovarmi in un grande atrio.
Illuminai il percorso di fronte a me e vidi una parete di pietra liscia sezionata a quadri.
Mi assalì un brivido intenso, e nonostante indossassi il pesante giaccone, la mia pelle divenne di ghiaccio, il respiro si fece affannoso ed il cuore si trasformò in un tamburo a percussione.
All'improvviso udii la voce ovattata di Giorgio, che dall'esterno mi chiamava ripetutamente.
Dissi che andava tutto bene e presi la direzione verso quel muro.
Camminando quasi in punta di piedi inciampai in qualcosa, saltai come una molla.

Chissà quale orribile “resto” giaceva vicino ai miei piedi!
Illuminai rapidamente il terreno, per tramutare in realtà ciò che la mia mente aveva invece elaborato, e quello che vidi mi lasciò stupito.
Era un libro impolverato.
Lo raccolsi e sentii tra le mie dita la superficie dura, sembrava una strana pelle, era nera e liscia al tatto.
Lo sfogliai velocemente, le pagine erano riempite da una scrittura a mano ordinata e lineare, con numeri ad ogni capitolo, probabilmente erano date.
Così a prima vista, sembrò un diario.
Lo riposi furtivamente nella tasca del mio giaccone, tenendo a bada la curiosità, che mi cercava di spingermi a sfogliarlo ulteriormente.
Non era certo il luogo adatto, quindi ritornai sui miei passi e sentii Giorgio che mi chiamava disperatamente, avvertendomi che la Madre Superiora, stava imboccando il sentiero che portava all'ingresso della buca.
Mi agitai, raggiunsi la scala a pioli e cominciai a salire come un disperato in fuga.
Le gambe molli e prive quasi della forza necessaria per salire, mi tradirono, incespicai, persi il mio già precario equilibrio e ruzzolai di nuovo sul terreno.
Picchiai la schiena, la spalla destra ed il fianco, ma ciò che mi preoccupò di più fu la caviglia.
Mi doleva a tal punto da non potermi più muovere, ormai il danno era fatto.
Non solo venni punito drasticamente per la mia bravata, ma ricevetti una pesantissima nota di condotta per aver messo in serio pericolo la mia salute e quella di Giorgio.
Consegnai alla Madre Superiora ciò che avevo trovato in quell' angusto buco orrido, alla luce quel diario mi fece rabbrividire.
Avevo a malapena intravisto lo stemma riportato sulla copertina, pareva un metallo prezioso, forse oro, ma probabilmente era solo patacca.

Elena Caserni

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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