Jacopo Fanfani. L'ultimo nipote
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Storie, fatti e personaggi di cinquant'anni di Repubblica, il caso del Circeo e altri misteri
Quando vado a pregare sulla tomba di mio figlio passo davanti al sepolcro di un uomo a cui la famiglia ha dedicato la frase di un anonimo: “Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta”. Ai nostri giorni i cimiteri sono diventati luoghi della memoria scarni e solitari. Non erano così. Quando ero piccola, in occasione delle ricorrenze, mia madre ci portava non solo a onorare i nostri defunti, ma anche a mettere un fiore a uno sconosciuto. Ricostruivamo le genealogie, indovinavamo i gradi di parentela e mamma citava quel passo dei “Sepolcri” in cui Ugo Foscolo spiega che, in un mondo in continuo divenire, solo la “celeste corrispondenza di amorosi sensi” assicura l'immortalità. Per questo il linguaggio trascendente mi è famigliare. Ma quel mattino mi sembrò che il ritratto dell'uomo sopra la lapide volesse significare qualcosa. Il dolore di perdere un figlio giovanissimo comporta anche lo strazio di doverlo lasciare in un luogo antico, separato, popolato per lo più di anime di anziani. Il portiere del cimitero di Prima Porta, non so se per darmi un aiuto disperato, mi disse: “Da quando è morto suo figlio non sa quanti giovani arrivano qui, all'ultimo viaggio”. I tempi si sono fatti duri e crudeli, non c'è una guerra, ma troppi ragazzi perdono la vita. Andando alla cappella, dove lo abbiamo tumulato, faccio quello che farei entrando nella sua camera: metto ordine, pulisco, profumo, poi prego e resto un po' a parlare con lui, che pare scrutarmi dall'immagine ingrandita come un quadro e scattata poco prima della sua dipartita, una mattina a Campo de' Fiori. Prima di uscire, prima di chiudere la grande porta di ferro, gli sussurro: “Vieni Jacopo, esci con me...”. Perché il buon Dio avrebbe dovuto far morire per sempre un ragazzo così giovane, bello, buono, generoso, nel pieno dei suoi splendenti diciassette anni? Io non ci credo alla morte, credo alla vita! E di fatti per trovare una risposta a questa sciagura immensa e insopportabile da cattolica romana mi sono avvicinata all'ortodossia romena. Gli ortodossi romeni hanno un culto dei defunti così vivo che ripetono nelle orazioni “Gesù è venuto a calpestare la morte con la morte” e a scadenze stabilite celebrano servizi commemorativi con particolari preghiere e benedizioni, i “parastase”, che culminano nella distribuzione della “Koliva”, un cibo rituale a base di grano bollito. E nelle tradizioni contadine vi è anche l'usanza di offrire un ricco pranzo preparato con ogni cura. Non solo per questo ho fatto un passo così importante, ma mi sorregge il pensiero che a ogni mese e a ogni ricorrenza si possa celebrare lo spirito di Jacopo in un coro di preghiere, tra profumi di incenso, canti e lodi, infine di scambiare abbracci condividendo pane e vino. La frase anonima scolpita sulla pietra ebbe l'esito di rimandare la mia memoria a due momenti precisi. Il primo, quando Jacopo tornando fiero da scuola - frequentava già il liceo alla St George's British International School - mi mostrò la poesia “Kamikaze” di Annamaria Ferramosca , in quel passo che recita “solo le parole deflagrano/abbattano muri, in cascata/crollano altri muri, avanzano/nuove ere/al passo di mille e una fiaba”. “Ecco, mamma, questo verso è per te, che cerchi sempre la verità”, spiegò aggiungendo che aveva parlato con l'insegnante della mia professione. E l'altro indimenticabile ricordo, che mi scava l'anima, risale all'ultima volta che l'ho visto. Lo ricordo nitidamente col sorriso languido, la bocca disegnata a bacino: “Ciao, ma'. Torno presto. Sono stato bene con te, a parlare di tutto. Ascoltarti è bellissimo”. Era venuto a passare a Velletri, dove mi ero trasferita da Roma, il lunedì dell'Angelo di quel particolare aprile 2010. Sette giorni dopo, alle prime ore di domenica 11 aprile, sarebbe morto. Avevamo effettivamente parlato tantissimo, spaziando dalla fisica all'attualità, e lui aveva appoggiato la testa sulle mie gambe e si era lasciato accarezzare i capelli e la nuca come un bambino, come dovessimo respirare quei momenti per sempre. Così è stato. “Torno presto”, mi aveva promesso. E, in modo del tutto speciale, è tornato davvero. Debbo raccontarlo, perché è anche un miracolo per le madri che perdono i figli. Il padre spirituale vedendomi così piena di sofferenza e angoscia mi esortò all'improvviso: “Chieda a Gesù, Lui può tutto!”. E per farmi capire che non era un modo di dire, mi mostrò un passo della sua “Bibbia” in cui lessi distintamente “mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” . “Vede, Gesù ha tutti i poteri, a chi altro vuole rivolgersi?”, mi interrogò il preot, coi suoi occhi sempre limpidi, a tratti perfino turchesi, chiudendo il sacro testo. Lo presi alla lettera. Per due anni si può dire che non abbia fatto altro che pregare e studiare, piangere e implorare: “Tu, Signore, che hai resuscitato Lazzaro...”. Cosa pensate che abbia chiesto? L'assurdo? Resuscitare Jacopo come un santo o come l'amico di Cristo? Ma era quello che volevo veramente: rimetterlo al centro dei dolori, delle contraddizioni, delle incomprensioni? Una madre non può che volere “la vita” per un figlio, sempre. E pensavo a Maria Madre, a Lei mi sono aggrappata, a Colei che ha sofferto più di tutte nei secoli dei secoli, e se la Madonna aveva avuto tanta composta fiducia dovevo averne anche io. Perché Dio c'è, osserva e dona. Anni prima avevo letto in quel capolavoro del premio Nobel per la Letteratura Gabriel Garcia Marquez, “L'amore ai tempi del colera” , questa frase: “E' la vita, più che la morte, a non avere limiti”. E che sia una straordinaria intuizione lo ha confermato anche papa Francesco in un discorso rivolto alle autorità colombiane citando il “tenace vantaggio della vita sulla morte”. Non la morte, è tutta vita, pensavo in quei giorni di crescente dolore. Convinta che per chi oltrepassa la fatale linea in grazia di Dio ci sia ancora vita, altra vita, la vera vita. Questo è il filo che ho tenuto in questi anni, tra il ricordo, la memoria e l'al di là. Non posso non andarvi nelle mie incursioni notturne o sulle ali dei generosi angeli, perché una madre dice sempre: “Eccomi figlio, sono qui, ci sono”. E poi attende la risposta, attende segni e segnali. Non da ultima quella frase del “vicino di tomba”, a cui mi piaceva pensare che Jacopo potesse aver detto sfogandosi nelle lunghe ore di solitudine: “Mia madre si è dimenticata che è una giornalista e che deve parlare di me!”. Il nostro dialogo non si è mai interrotto. Lo penso all'estero, in fondo se fosse andato a fare l'università negli Stati Uniti, a Yale nel Connecticut, come aveva già iniziato a inviare richieste, e poi a lavorare fuori dall'Italia, sarebbe stato lontano. Poi, però, i mesi diventano troppo lunghi, allora mi capita di sognarlo e nel sogno gli chiedo “un abbraccio...ho voglia di sentirti” e mi sveglio con la sensazione della sua pelle. Una mamma sa che odore ha, che colore ha, sa tutto di un figlio che ha tenuto in grembo. Riconosco la sua ironia. So che non ha perso la sua sagacia. Era già un uomo, ma che dico, è sempre stato così. Fin da piccolissimo sembrava sceso dal cielo. Mio cognato diceva: “Ma dove viene questo bambino così buono e che non piange mai?”. Scrivo questa memoria per far vivere Jacopo nei cuori di chi lo ha conosciuto, amato e anche per chi non lo conosceva. Scrivo per i suoi fulgidi ed immortali diciassette anni, per i suoi occhi verdi limpidi e fieri. Scrivo perché lui lo merita, lo merita moltissimo, per le sue doti umane, per il suo intelletto e per il suo spirito. E soprattutto per come lui ha amato noi: i suoi genitori, la sua famiglia, i suoi amici, chiunque. Scrivo per dargli verità, me lo impone il mestiere, in quanto la sua tragica fine, avvenuta nelle prime ore di domenica 11 aprile 2010, non è mai stata raccontata. Sui giornali e sui media sono stati riportati nell'imminenza dei fatti succinti elementi di cronaca relativi a un incidente automobilistico senza apparenti cause, senza frenate e senza coinvolgimento di altre auto. Tanti hanno saputo che Jacopo è deceduto in un fatale ribaltamento alla guida della sua minicar. Ma non è esatto. Il fascicolo relativo alla sua morte, iscritto alla Procura di Roma nell'immediatezza dell'evento, è stato oggetto di indagini con questa dicitura: per il reato di cui all' art 589 c.p.. Cioè: "omicidio colposo". E non solo in relazione all'incidente. Da una parte l'incidente, dall'altra l'omicidio colposo. Sono certa che nessuno abbia mai letto questa notizia. Dove? Su quale giornale? In quale trasmissione? Alcuni ignorano perfino che Jacopo sia morto! Un collega giornalista, incontrandomi, mi ha chiesto allegro: “Jacopo che fa, come sta?”. Come quelle giovani voci che a distanza di un anno mi telefonarono chiedendo: “Signora scusi, Jacopo è lì da lei?”. Questo spiega le scarse notizie diffuse, il silenzio calato su questo atroce evento, nessuna condoglianza, nessuna telefonata, un funerale monco, senza omelia, poi tutti trincerati dietro il riserbo. Nemmeno una messa di suffragio alla tomba, mai una commemorazione. Sia che fosse un tragico incidente o un agguato o una rissa o una vendetta già questi particolari sono un indizio del clima di insabbiamento. Le indagini non sono state aperte e subito archiviate, come forse avrà messo in giro qualcuno. Si sono protratte per circa un anno. E sono finite? Il Pubblico Ministero a cui toccò ascoltarmi, una donna per fortuna, fu delicatissima. Non si capiva se ero più sconvolta io o lei, perché al termine, salutandomi, mi fece capire che andava collegata “un'inchiesta all'altra”. Mi si piegarono le gambe. Lei se ne rese conto e chiese al verbalizzante: “Prenda una sedia, la porti qui”. Un conto è pensarle le cose, altro è avere le conferme. Jacopo apparteneva a una famiglia da parte di padre molto nota, i Fanfani, la famiglia dell'insigne democristiano Amintore Fanfani. Jacopo era dunque anche Jacopo Fanfani ed era l'ultimo nipote. Io sono una giornalista conosciuta. Ma in particolare in quei giorni gravava sulle nostre vite una vicenda clamorosa, che aveva messo me - e di conseguenza lui - al centro di roventi polemiche. Una vicenda tutt'altro che datata e che viene riproposta regolarmente, ma che sin qui ha sempre e solo poggiato su una versione. Alla fine di questa lettura mi chiedo se gli stessi potranno dire che per la giustizia, per la verità, per il bene si poteva fare a meno di queste informazioni. Si può non sapere tutto? E si può continuare a parlarne ignorando ogni elemento? Il mio racconto, la mia versione dei fatti è quella di una donna e di una giornalista che da circa quarant'anni si occupa di femminile, di politica e di cronaca e dunque su questi argomenti ho messo insieme una vasta conoscenza. Per questo la morte di Jacopo meritava subito immediate e caparbie indagini con la doppia lente investigativa e soprattutto con il contributo di tutti. E meritava una presa di posizione chiara e netta, non le assurde ipotesi fatte gravare sul suo decoro. La morte improvvisa di mio figlio, a quell'ora insolita, alla quale lui mai aveva fatto ritorno a casa, dove però nessuno ha visto e nessun'auto o passante risulta interessato e presente su una strada ad alto scorrimento anche notturno, potrebbe essere stata un'abile messa in scena. Infatti nonostante i referti e le ricostruzioni restano zone buie e a mio parere sussistono svariati elementi per pensare che possa essere andata diversamente. Sono certa che mio figlio sia nel cuore di tanti, ma piuttosto come un nome scomodo. Per questo scrivo, per parlare di lui e guardare tutta l'esistenza, i fatti, il presente, il passato, vicende note e aspetti privati, pezzi di storia e ritratti di famiglia, dentro il suo spirito. Scrivo per dare pace e luce alla sua anima e per fare la storia di una vita forse breve ma intensa, che ha intrecciato tante altre vite e quella parte della storia italiana con ancora molti misteri. Scrivo anche perché mi sono accorta che molti giovani non conoscono i particolari storico-politici degli anni cruciali da cui veniamo, quei racconti che a mio figlio spalancavano orizzonti di stupore e che, a mio parere, abbiamo il dovere di spiegare ai nostri giovani. Non solo in un senso o da una sola parte, ma nel complesso di un affresco corale sulla nostra gioventù, sulle nostre battaglie e sui nostri ideali. Scrivo dunque per miei nipoti, sperando abbiano la pazienza di leggere e l'umiltà di domandare. Scrivo per Pietro, Cristi ed Elena, i “tre piccoli fratelli”, che non hanno mai mancato di portare sulla tomba di Jacopo la loro garrula gioia, le risate innocenti miste alle preghierine coi musetti tristi, le candeline accese e i bacini nell'aria: “Ciao Jacopo, ti vogliamo bene”. Già, ma loro sono ortodossi e Pietro, Cristi ed Elena sono ortodossi speciali, come capirete. La ragione ultima per cui scrivo è per “chiedere scusa”, poiché a questi fatti che narrerò è conseguita una dissacrazione e una colpevolizzazione eclatante. Come dice l'anonimo “chiedere scusa è serietà, forza, coraggio”. Viene prima di tutto, ma anche dare forma ai fatti e narrarli è un dovere.
Donatella Papi
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