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Autore: Marco Giuli
Di nuovo insieme
Drammatico
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Di nuovo insieme
Questa che state per leggere è una storia di amicizia e di musica. Ma, soprattutto, è una storia che racconta la vita di quattro amici, diventati poi cinque. I protagonisti, ormai adulti, condividono insieme la stessa passione, quella della musica, e non hanno mai smesso di inseguire il loro sogno. Simone, o meglio “La Chance” come veniva chiamato tanto tempo fa dai suoi amici, se ne stava seduto sulla sua poltrona preferita all'angolo di un salotto arredato in stile retrò. La poltrona, di una morbida pelle marrone chiaro, cominciava a far vedere i primi segni degli anni. Per carità, molti anni di onorato servizio, ma Simone non si era ancora rassegnato a cambiarla. Fissava il vinile di Buddy Holly dal titolo That'll Be The Day. L'uomo a volte si affeziona alle cose più strane, oggetti che risulterebbero insignificanti a qualsiasi altra persona, ma non a chi ne riesce a imprigionare un ricordo. Un fermacarte regalato da una persona cara che non c'è più, un orologio donato dagli amici di infanzia prima che ognuno si perda per la propria strada, un cd musicale ricevuto dalla propria moglie, oppure, come in quel caso, un vinile che aveva propiziato la nascita della loro prima e unica band musicale. Già, la “loro” vecchia band, quella con gli amici di una vita: i Penny Boys. Sembrava ieri, e invece, da quella sera del '87, sono passate ben trentacinque primavere. Allora Simone aveva trentadue anni ed era sposato da appena due con Angela. Lei, piuttosto esile di corporatura, specialmente quando era accanto a Simone, era di una bellezza da togliere il fiato. Sotto quel velo color avorio e il sole che le illuminava parte del viso, Simone le giurò amore eterno in una piccola cappella del ‘400. Gli invitati erano circa un centinaio. La maggior parte erano parenti di lei. Simone, dalla sua, invitò i suoi genitori, uno zio scapolo che non vedeva da tanto tempo, ma al quale era sempre rimasto affezionato, e una piccola cerchia di amici che da soli facevano più casino e più allegria del resto degli invitati. Gli amici in questione erano gli stessi pazzi scatenati che Simone imparò a conoscere ai tempi delle superiori, e dai quali pensò di non dividersi mai più. Le amicizie più belle sono quelle che porti dall'infanzia. C'era Luca Ricci, che con la sua cresta da moicano era il ribelle del gruppo. Michele Romano, da tutti chiamato Mickey, era il tipico “bello e dannato” che faceva voltare le teste della maggior parte delle ragazze sul corridoio della scuola, quando passava. Circolavano molte storie sul suo conto: verso la fine del quarto anno di scuola superiore, per esempio, si sparse rapidamente la voce che Mickey era riuscito a portarsi due ragazze dell'ultimo anno dentro lo spogliatoio maschile della palestra. Lui non smentì mai questa storia, e Simone non gli credette mai fino in fondo. Ma probabilmente era solo invidia, la sua. Poi c'era Brian Serra. Brian era un ragazzo asiatico patito per i The Who e un genere musicale rock-punk appena fiorito oltreoceano e che negli anni a venire avrebbe dominato le scene musicali di tutto il mondo. Brian, quando non stava con gli altri, lo potevi trovare sempre dentro qualche locale e la maggior parte delle volte era al bancone a parlare di musica con qualche tizio ubriaco dei The Who in particolare, e di nuovi generi musicali che aveva sentito negli Stati Uniti soltanto l'anno prima.
‹‹Datemi retta, il Rock ‘n' Roll un giorno di questi morirà, ragazzi.›› Amava ripetere quasi in modo ossessivo ‹‹Sarà il punk il genere musicale del secolo.›› Simone non lo constatò mai, ma se avesse avuto un soldo in tasca in quel momento, avrebbe giurato che quelle erano le esatte parole con cui iniziava le conversazioni con tutti gli sconosciuti che gli capitava a tiro nei bar o negli Irish Pub. Fu proprio Brian ad avere l'idea di formare un gruppo musicale. I Penny Boys. Fu sempre lui a convincere Luca, Micky e Simone a farne parte. Era una forza della natura e aveva un innato dono della persuasione che mancava agli altri tre. Dono che un giorno si sarebbe trasformato nella sua condanna, ma questo non poteva ancora saperlo. Prima di arrivare alla formazione della band, però, è bene che vi racconti come si sono conosciuti Brian, Michele, Luca e Simone. E come quest'ultimo divenne per tutti Simone La Chance.

L'estate del 1968 fu un'estate particolarmente torrida. Avvennero numerosi fatti di cronaca più o meno importanti ma alcuni, come la guerra in Vietnam, l'assassinio di Martin Luther King o quello di Bob Kennedy oppure l'accesa rivalità tra gli Stati Uniti d'America e la Russia che si contendevano la conquista dello spazio a colpi di Apollo e Soyuz, sarebbero passati alla storia. Ma questo Simone Leoni non poteva saperlo. Dall'alto dei suoi tredici anni quel periodo significava principalmente due cose: scuole chiuse per tre mesi, e un mare di divertimento davanti a sé.
Quell'estate venne un anziano signore a vivere sopra la casa di Simone e di sua madre Paola. Ricordo come fosse ieri quando bussò per la prima volta alla loro porta. Simone corse ad aprire e gli si presentò davanti un uomo alto e dalla stazza imponente. Rivedendo qualche sua foto, anni più avanti, dovette ammettere che non era poi così grande. Era Simone che era ancora piccolo e tutto gli sembrava più gigantesco. Oppure, pensò Simone, sono i ricordi che hanno questo strano vizio di far apparire il passato più grande di quello che in realtà è stato.
- Ciao Piccolo, sono Finn, il tuo nuovo vicino. E tu come ti chiami? - Aveva un sorriso ipnotico e una dentatura che probabilmente era finta, per quanto perfetta e lucida. Doveva avere circa centoventi anni, a giudicare dalle rughe che aveva in volto e dalla postura curva e goffa. Simone lo fissò per qualche secondo, non sapendo cosa dire, poi mentre stava per rispondergli sentì la voce di sua madre che lo rimproverava.
- Quante volte ti ho detto, Simone, di chiedere chi è prima di aprire la porta? Un giorno di questi arriverà qualcuno e ti porterà via per sempre. - La madre di Simone sbucò dalla cucina asciugandosi le mani con un canavaccio rosso. Chiamava suo figlio Sim, diminutivo del suo vero nome, e solo sua madre poteva chiamarlo in quel modo. Qualche compagno di classe aveva provato a chiamarlo Sim, ma lui ogni volta ripeteva che odiava quel nomignolo. A meno che non fosse sua madre a chiamarlo in quel modo. Lei poteva. Alla vista del signore fermo sull'uscio della porta quasi si spaventò.
- Sono Finn Doyle, signora, mi dispiace avervi disturbato, non era mia intenzione. - Pronunciò quelle ultime parole facendo un mezzo inchino e portandosi il copricapo davanti a sé con la mano destra. - Sono il nuovo vicino. In realtà abiterò esattamente al piano sopra il vostro. Mi sembrava cortese presentarmi prima che lo facesse il rumore del mio passo pesante dovuto, ahimè, alla vecchiaia. - Fece una leggera smorfia e abbassò lo sguardo. Simone fece un passo indietro, ormai la questione riguardava i grandi e non più lui.
- Ben arrivato signor Doyle. È gentile da parte sua. Lui è Simone, nostro figlio. - Simone fece un timido cenno con la mano per salutare il nuovo vicino e si incamminò verso la sua cameretta. Chiuse la porta ma poté ascoltare lo stesso il vociare di sua madre e di quel bizzarro signore per almeno un altro paio di minuti. Poi sua madre si mise a ridere. Quel bizzarro signore doveva aver fatto una battuta molto divertente, pensò Simone. Dopo qualche secondo, udì il rumore della porta che si chiudeva. Si affacciò alla finestra e un torrido sole emanava raggi di luce cocenti sull'asfalto e sulle lamiere delle macchine che passavano lente. Simone vide il suo riflesso sul vetro e si sorprese a contare le auto che passavano davanti casa sua. Non era una zona tanto trafficata, e infatti il gioco lo stufò quasi subito. Si girò verso la porta e quasi trasalì dalla paura quando vide sua madre, con le mani sui fianchi che lo stava guardando con aria di rimprovero. Ecco che partiva il cazziatone.
- Simone io... - Quando lo chiamava con il nome per intero, di solito, erano guai.
- Sì, lo so mamma, ho capito. Dovevo chiedere chi fosse, prima di aprire la porta. La prossima volta me ne ricorderò, promesso. - Fece anche il simbolo del giuramento degli scout, con le due dita, indice e medio, unite e rivolte verso la testa.
- No, non è per questo che sono venuta a parlarti. Anche se apprezzo che tu abbia riconosciuto lo sbaglio - ammise sua madre.
- E allora cos'altro ho fatto? - chiese Simone.
- Ecco... gradirei che, per qualsiasi motivo, tu stessi lontano da quell'uomo. -
- Perché mamma? Mi è sembrata una brava persona, lo hai detto anche tu che è stato carino da parte sua che si è presentato. -
- Semplicemente non mi fido delle persone che danno ancora del Lei. -
- Ma mamma... -
- Non si discute. Ho deciso che è così, e avrò i miei validi motivi. Ci siamo capiti? -
- Sì, mamma. - Non lo disse con molta convinzione. Decise comunque di assecondarla per evitare ulteriori problemi.

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