L'immagine della rievocazione
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Sabato 20 maggio 2017, notte.
Nuovo giorno, nuova doccia fredda. Quando il getto gli sferzava la nuca, seduto nel piatto doccia con le gambe raccolte nelle braccia, l'uomo dimenticava ogni cosa. Era non ricordando, infatti, che riusciva a vivere, ma quella notte l'abitudine avrebbe assunto un significato diverso. Si alzò a sedere, chiuse il rubinetto, spalancò il battente e si fermò sul tappeto in microfibra. Era lui a controllare la frequenza del suo respiro, adesso, non l'ansia. I muscoli non avrebbero soggiaciuto a nuovi, estenuanti momenti di abbandono: sarebbero stati determinati. Allungò la mano sul portasciugamani e si strofinò il panno contro ogni poro della pelle. Lo risistemò al suo posto e si piazzò di fronte lo specchio. Studiò la sua immagine nuda, impassibile, poi abbassò lo sguardo sul marmo del lavandino: scintillante sotto la luce della lampada dello specchio, la collana con il ciondolo d'argento che conservava come una reliquia. Mettendosela al collo, un'ondata di calore lo pervase. Era pronto a tutto. Determinato nel suo fine. Missionario per conto della sua volontà. Dalle grucce in legno dell'appendiabiti di fianco la porta, prese i vestiti che aveva lì predisposto: maglione elastico a collo lungo e pantaloni rinforzati. Più in basso, sotto la mensola: borsone, stivaletti e guanti in pelle. Tutto rigorosamente nero. Si vestì ottenendo di non fare rumore e dalla scollatura del maglione estrasse per l'ultima volta il ciondolo. Lo guardò per qualche istante, aggrottando le sopracciglia, poi lo rimise dentro e calò il passamontagna sulla testa. Appoggiata la cinghia del borsone sulla spalla, aprì la finestra e da lì si dileguò nel buio della notte, come una macchia nera nelle tenebre, come un'ombra nell'ombra.
Venerdì 19 maggio 2017, sera.
La leggenda dei termometri che scoppiano per il caldo, a Duskywood avrebbe potuto trovare un fondamento di verità. Joe DeVincenzi ricordava ancora quando, da bambino, il vetro del vecchio termometro a mercurio dei suoi nonni, cimelio dell'anteguerra tramandato di generazione in generazione, era andato in frantumi perché da loro dimenticato sotto il sole. La colpa non era da attribuirsi tutta al caldo, ovviamente; il vetro poteva essersi infragilito, il mercurio al suo interno avere pressato le pareti causandone la rottura prematura, ma la calura di quell'estate di tanti anni prima gli suggeriva che, con l'arrivo della bella stagione, sarebbe stato meglio modificare alcune abitudini. A partire da quel venerdì, pertanto, aveva posticipato la passeggiata con il cane per godere della frescura della sera. Buddy era un Rottweiler di tre anni e mezzo, del tipo indomabile che suole tirare il padrone per il guinzaglio. Quando gli era stato regalato dai genitori per il suo quattordicesimo compleanno, era delle dimensioni di un peluche. Il cane non aveva mai smesso di crescere, da allora; Joe aveva aumentato solo le diottrie, rimanendo sul metro e settanta con braccia e gambe – aveva concluso dopo mesi di palestra – esili per costituzione. Di ritorno a casa dopo il solito giro ai giardinetti del parco giochi, il Rottweiler trascinando il padrone, imboccarono una squallida stradina a senso unico delimitata da case a più piani vecchie e scolorite. Non c'era nessuno, in quel quartiere. Con gli schiamazzi dei ragazzini e il via vai di persone nei negozi, anche se rimaneva il sentore maleodorante delle pattumiere, di giorno era tutt'altra cosa. Con i finanziamenti destinati alla riqualificazione della Burning Avenue, strada statale che attraversava Duskywood dividendola a metà, poi, il problema dell'illuminazione dei quartieri di periferia non sarebbe stato neanche sollevato. Camminando sotto quei lampioni degli anni settanta, Joe avvertiva la pressione del silenzio e l'incombenza della sua stessa ombra. All'uscita solitaria con il cane avrebbe preferito andare per il centro con compagni di classe e amici, ma la cena con i parenti era durata più del previsto. Tutti i venerdì da almeno quindici anni, l'intera famiglia italoamericana si riuniva per celebrare la cucina mediterranea anche oltreoceano. Con quello che preparavano sua madre Cristina e le nonne Elena ed Egidia, poi, c'era da mangiare fino all'alba. Joe si sentiva ancora inebriato dal sapore delle lasagne e del pollo al forno, quando intravide l'incrocio. Adesso fu lui a tirare il Rottweiler verso sinistra, fino sull'altro marciapiede. Proseguirono per pochi altri metri e svoltarono in Acorn Street, strada lo stesso male illuminata ma già più familiare. Dalle finestre aperte proveniva il ronzio dei televisori sintonizzati sulla partita dei Red Sox. Sulla sinistra, poco più avanti, dove si sarebbe aspettato musica e luci colorate, buio pesto. Inusuale per la villa dei Mitchell, considerò. Quando nei fine settimana i due coniugi andavano a stare nel loro cottage in montagna, il loro primogenito, Bryan, ne approfittava per dare grandi feste in piscina, tra fiumi di birra e spinelli fumanti. Era un soggetto libertino e sconsiderato, e sbandierare di continuo la ricchezza della propria famiglia lo rendeva insopportabile ai più. Parzialmente nascosti alla vista dalle auto parcheggiate, Rottweiler e padrone raggiunsero la casa dei Davenport e all'incrocio proseguirono a destra, in Chestnut Alley, il vicolo nel quale era cresciuto Joe. Stretto e a senso unico, faceva parte del quartiere dei Veterani, così denominato per la considerevole presenza di anziani. Non tutte le abitazioni, come quella dei DeVincenzi, erano prefabbricati con il giardino; molti anziani abitavano condomini perché bisognosi di poco spazio con il compromesso di costi di affitto accessibili. Con lo sguardo abbassato sulle mani, frenetiche nella ricerca delle chiavi di casa, Joe continuò a camminare. Non prima di immaginare possibile dover scavalcare per entrare – entrambi i suoi genitori dormivano – le trovò nella tasca posteriore dei jeans, prese tra le mani la più piccola e la infilò nella serratura a cilindro del cancello. Il Rottweiler, che fino a quel momento non aveva fatto che precederlo, se ne stava fermo a guardare la strada appena percorsa. Joe provò a tirarlo dentro, ma lui non ne voleva sapere di entrare. - Ma quello è Wesley... - sussurrò, seguendo lo sguardo di Buddy. - L'hai riconosciuto! - Wesley era figlio del signore e della signora Tanner, genitori cattolici che avevano imparato ad accettarlo per quello che era: un ragazzo alto e dinoccolato, per niente timido, con voti scolastici poco più che sufficienti e una certa dimestichezza con le ragazze. Oltre che compagni di corsi alla Hillview High School, lui e Joe erano ottimi amici. Non appena lo vide, Wesley affrettò il passo, esibendo il sorriso di chi sembra avere qualcosa da raccontare. Quando gli arrivò vicino, si scambiarono un'entusiastica stretta di mano. - Che si dice? - Wesley ridacchiò, compiaciuto. - Niente di importante, ero a fare i compiti da Joanne... - Joanne era la sorella di Bryan, figlia dei Mitchell della villa con la piscina in Acorn Street. Ecco perché le luci della casa erano spente, pensò Joe: per mantenere segreto quell'incontro. - Senza zaino? - chiese, stando al gioco. Poi gli voltò le spalle con l'intenzione di legare il cane vicino la cuccia. - Avevo già tutto il necessario. Sarei uscito con Ricky e gli altri, in verità, ma viene prima il dovere e poi il piacere, no? - I genitori di Ricky erano i Davenport della casa all'angolo di Acorn Street. Anche lui diciassettenne, completava con Wesley e Joe il triangolo di un'amicizia che durava da più di quattro anni. - Prima il dovere poi il piacere, certo... com'è stato studiare? - Wesley lo guardava con i pugni chiusi sulle sbarre del cancello e la faccia nel mezzo. - Mai divertito tanto con biologia del corpo umano. - Distolta l'attenzione dal Rottweiler, Joe lo guardò negli occhi. Scoppiarono a ridere simultaneamente. - Se non esistessi bisognerebbe inventarti, Wes. - Si salutarono augurandosi la buonanotte. Joe legò il cane al picchetto piantato a terra ed entrò in casa. Sbadigliando, salì le scale per la sua cameretta ignaro di aver appena commesso l'ultimo, grande errore della serata.
Sabato 20 maggio 2017, mattina.
Nel paesino del Sud Italia dove aveva conosciuto suo marito, ricordò Cristina, la sveglia era il canto del gallo alle sei del mattino. Non le costava niente svegliare Joe, a patto che raggiungesse scuola in orario, ma quel giorno non c'erano lezioni. In piedi di fianco il letto, prese a scuoterlo con entrambe le mani. - Che c'è? - il ragazzo parlava con la faccia nel cuscino. - Buddy è scappato. - Joe si voltò di scatto, fissandola stralunato. - Cosa? - - Non è più in giardino... il picchetto è stato tirato via. - Il ragazzo scostò le coperte, scese dal letto, inforcò gli occhiali e senza calzare le ciabatte si avvicinò alla finestra. Dal primo piano si aveva un ottimo angolo di visione sia del giardino che della strada. Vicino la cuccia a ridosso della siepe, osservarono entrambi, invece che il picchetto c'era una buca con della terra sparsa tutta intorno. - Non è possibile - disse Joe, continuando a guardare fuori della finestra. - Sono scioccata anch'io... - - No, intendo dire che non è possibile che sia scappato: i picchetti sono fatti per evitarlo. - Guardò sua madre, vestaglia celeste, capelli biondi arruffati. - Qualcuno lo ha portato via. - Cristina avvicinò le mani alla bocca. - Tu credi? - - Per forza. Papà lo sa? - - È lui che ha dato l'allarme, prima di andarsene per l'escursione. - Duskywood, come posta al centro di una conca, era circondata da montagne non troppo alte, del tipo appiattito che guardandole si direbbero colline. Con la scusa dell'esercizio fisico, Eddie DeVincenzi come molti altri concittadini si riunivano nelle aree pic-nic per mangiare panini e bere birra stando a contatto con la natura. - Accompagnami in polizia. - Cristina controllò la sveglia digitale di fianco il letto. - A quest'ora? - chiese. - Alle sette e quarantasei, Buddy potrebbe già essere arrivato in Messico. - Il giardino era grande quanto necessario a un Rottweiler per non incorrere in attacchi di claustrofobia, e il guinzaglio legato al picchetto, utilizzato solo di notte, abbastanza lungo da prevenirli. Con tre aranci, un limone, siepi tutto intorno e tanti fiori colorati, i proprietari si sarebbero detti facoltosi: i DeVincenzi non lo erano. Eddie lavorava nel settore delle costruzioni come coordinatore per l'esecuzione dei lavori nella ditta di un amico; Cristina preparava su richiesta torte di compleanno con particolari decorazioni in pasta di zucchero. Nonostante l'amichevole sconto sui materiali li avesse aiutati, per dirsi proprietari avrebbero dovuto continuare a pagare il mutuo per altri sette anni. Vestiti a tempo di record, Joe e sua madre uscirono in giardino e si avvicinarono alla cuccia. Il ragazzo indossava indumenti casual e un berretto dei Red Sox per coprire i capelli scompigliati, sua madre una vestaglia dalle fantasie floreali. Joe si accovacciò per osservare che non vi fossero anomalie dentro la cuccia o tra i fili d'erba, poi acconsentì a raggiungere l'auto. L'utilitaria di Cristina, grigia come la giornata che si prospettava, era parcheggiata sull'altro lato della strada. Joe non poteva ancora guidarla. Stando alle regole dello Stato del Massachusetts, come molti suoi coetanei avevano già fatto, avrebbe potuto prendere la patente compiuti i sedici anni; ma la cittadina era piccola, la scuola e il centro facilmente raggiungibili a piedi o con la bici. Si sarebbe impegnato per ottenerla terminato l'anno scolastico corrente, l'ultimo prima del college. Allacciate le cinture, una volta dentro, Cristina avviò l'auto e al primo incrocio svoltò a destra. Favoriti dalla quasi totale assenza di traffico, proseguirono indisturbati in quella direzione. Per la prima volta quella giornata, Joe ebbe modo di pensare a tutte le vicissitudini antecedenti la sparizione del cane. Non trovo le chiavi, impreco, le trovo, apro il cancello, il cane non ne vuole sapere di entrare, seguo il suo sguardo e c'è Wesley dall'altra parte della strada. Bene. Lo saluto, poi entro per legare il cane al picchetto e rido delle sue battute e del suo viso tra le sbarre del... Rimase come paralizzato, gli occhi verdi spalancati. - Il cancello - sussurrò, non abbastanza piano da non essere udito. - Come? - - Il cancello. Ho dimenticato di chiuderlo. - Parlava come se fosse schiacciato dal peso del mondo intero. Cristina corrugò il volto, guardando ora suo figlio ora la strada. - Sono sicura di averlo chiuso io, tranquillo. - Gli occhi di Joe cominciarono a inumidirsi. - Mamma, mi riferisco a ieri sera. Parlavo con il figlio dei Tanner e... e me ne sono dimenticato. - Come a non volersi far vedere dalla madre in quello stato, afferrò il berretto e lo calò fino sul naso. - Sta' tranquillo, ci aiuteranno - lo rassicurò. - Risistemati il cappello sulla testa: siamo quasi arrivati. - Nella parte ovest della città, lungo la Burning Avenue, c'era una piccola stazione di polizia quasi interamente nascosta dal viale alberato. Preceduta da una Chevrolet d'epoca rosso fiammante, Cristina entrò nello spiazzo riservato e fermò l'auto di fronte l'ingresso della centrale. Era un edificio a due piani, non troppo grande ma fresco di ristrutturazione. Joe guardò l'auto d'epoca, parcheggiata due posti a sinistra. Ne uscì una donna alta e magra sulla quarantina, con capelli biondi a caschetto e un vestito in tinta con la carrozzeria della Chevrolet, che si piegò a prendere qualcosa dal cruscotto e s'incamminò verso l'ingresso. Non può essere, pensò Joe. Quello che vide, lo ridestò dallo stato di insofferenza che l'aveva sconfortato nei precedenti cinque minuti. Scese di corsa dalla macchina e la chiamò sbracciandosi.
Francesco Sciarra
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