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Autore: Salvo Tosto
Tempo Instabile, si consiglia imprudenza
Narrativa Racconti
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Tempo Instabile, si consiglia imprudenza
“Nina ‘a pazza”
Racconto appartenente alla raccolta
“Tempo Instabile, si consiglia imprudenza”
di Salvo Tosto - ed. Leonida

Quello era un giorno di “sole nero”, ovvero di tempo uggioso, coperto, con poca luce, che gonfiava di malinconia il cuore di Nina. Lei abitava in un piccolo appartamento al primo piano di un vecchio e trascurato stabile che si affacciava sulla piazza del paese. Quella mattina aveva gli occhi gonfi di chi ha dormito poco e male e aveva bisogno di uscire per comprare almeno un po' di pane.
Con molta cautela si avvicinò alla finestra e scostò di qualche centimetro la tendina. Sbirciò con un misto di timore e speranza verso quell'angolo della piazza che si trovava proprio davanti a casa sua, ma si ritrasse subito delusa: erano ancora là.
Non erano andati via come lei aveva sperato. Urlavano tra loro sgarbati come se litigassero, ma in realtà, Nina lo sapeva bene, erano concordi nell'aspettare che lei uscisse per divertirsi a schernirla, per tormentarla, per canzonarla, intonando l'epiteto che da tempo le avevano affibbiato e che ormai in paese serviva per identificarla: “Nina 'a pazza”.

Non era stato sempre così.
Antonia, detta Nina, era stata una ragazza come tante altre, normalmente carina, buona di animo, volenterosa e molto brava a scuola.
I suoi genitori, andando contro corrente rispetto a quanto allora abitualmente previsto per una ragazza (si era verso la fine degli anni '50) e affrontando volentieri qualche sacrificio, l'avevano sostenuta nel suo desiderio di studiare. E lei non li aveva delusi.
Dopo il diploma si era iscritta alla facoltà di chimica ed era già a buon punto del suo percorso di studi quando improvvisamente accadde qualcosa di cui nessuno è mai riuscito a capire il perché, ammesso che ci sia stato un preciso perché.
In pratica, Nina era caduta in una pesante forma di depressione, che forse oggi sarebbe stata curabile, ma allora no, in quegli anni così lontani, in quel paesino così sperduto e in una famiglia così povera di mezzi.
Per prima cosa aveva lasciato gli studi. Non ce la faceva più a concentrarsi. Quindi aveva cominciato a isolarsi: si era allontanata gradualmente dalle poche amiche con cui le succedeva di uscire per fare qualche passeggiata e aveva smesso di frequentare il gruppo dell'Azione Cattolica a cui sin da quand'era piccola si ritrovava iscritta dai genitori in modo automatico, come da consuetudine e senza che lei l'avesse chiesto. Di “default”, si direbbe oggi.
Durante la festa del paese, invece di sciamare per le strade come i suoi coetanei che si incontravano e facevano mostra di sé, Nina aveva preferito starsene tutto il tempo rinchiusa in casa, ac- crescendo la già considerevole preoccupazione dei suoi genitori.

Giorno dopo giorno, intorno a lei tutto stava diventando sfocato e indistinto: ogni cosa, ogni azione, le appariva inutile e senza senso.
Lei stessa si sentiva vuota e inerte, con appena un filo di forze, e ben presto aveva cominciato a trascurare anche la cura della propria persona e del proprio abbigliamento.
Era come se all'improvviso, di notte, si fosse spenta la luce che fino a poco prima illuminava i suoi passi, lasciandola disorientata e senza riferimenti, sospesa nel nulla.
I sogni, le speranze, i desideri, i progetti: tutto si era frantumato e i cocci le rimbalzavano nella mente senza che lei riuscisse a fermarli per riconoscerli e ricomporli.
Mentre i contorni del passato diventavano sempre più confusi e quelli del presente sempre più penosi, il futuro nella sua mente era stato cancellato. Era nebbia, era buio.
La situazione peggiorò ulteriormente quando, a pochissima di- stanza l'uno dall'altra, i suoi genitori morirono lasciandola sola con una misera rendita.
Certe notti le sensazioni che provava diventavano così dolo- rose dentro di lei da non riuscire a trattenere un pianto convulso accompagnato a volte anche da urla.
Rompendo il silenzio notturno, i suoi singhiozzi e le sue grida riecheggiavano e rimbalzavano tra le mura del paese, svegliando chi aveva il sonno meno pesante e contribuendo al consolidarsi del suo epiteto, “Nina 'a pazza”.

Contemporaneamente crescevano intorno a lei l'isolamento, la diffidenza e il timore. Crescevano in modo assolutamente immotivato, perché in realtà il fatto che lei soffrisse non significava che fosse diventata cattiva o aggressiva.
Se qualcuno si fosse soffermato a considerarla almeno per un attimo senza pregiudizi, si sarebbe accorto che lei nella sua es- senza era rimasta quella di prima: una delle persone più miti, buone e gentili del paese.
Anzi, adesso era divenuta semmai più fragile e delicata, non certo malvagia o pericolosa.
Forse un po' di comprensione, un pizzico di solidarietà, un sor- riso, una parola, avrebbero potuto almeno in parte lenire la sua sofferenza. Invece, con poche eccezioni, succedeva il contrario, mentre lei si sentiva sempre peggio.
La mattina avrebbe voluto non alzarsi mai dal letto. Il nuovo giorno le sembrava un gigante mostruoso, troppo forte per poterlo sfidare. La sola idea di uscire di casa per affrontare la gente e compiere semplici azioni come comprare il pane, le metteva paura e la annichiliva.
Persino il pensiero di doversi lavare e vestire le appariva come una montagna faticosissima da scalare.
Quando per necessità era costretta a lasciare il suo rifugio, si presentava con un aspetto sciatto e non curato alla vista dei com- paesani, che non potevano vedere la sua pulizia morale, la sua in- capacità di fare del male.
Scorgevano soltanto l'espressione stralunata del viso e l'abbigliamento trascurato, non sporco, quello no, ma ormai datato, un po' liso e abbinato in modo casuale.

C'erano, però, due cose in grado di lenire parzialmente il suo malessere: l'amore per gli animali e quello per le piante. I gatti randagi e affamati del quartiere sapevano sempre dove andare per trovare un po' di cibo: sotto casa sua. E sul suo balcone fiorivano nelle stagioni giuste i fiori più belli che si potessero ammirare in tutto il paese.
Purtroppo, invece, alcune ossessioni contribuivano a renderle complicata la vita e prestavano il fianco alle derisioni.
Una di tali manie consisteva nel dover ripetere alcune parole o dei gesti.
Quando usciva di casa chiudeva la porta, poi riapriva e di nuovo richiudeva prima di andare via. E, nonostante ciò, le rimaneva il dubbio se avesse chiuso bene o no. Facile per i suoi tormentatori seguirla continuando a ripeterle: - Nina, guarda che hai dimenticato la porta di casa aperta. È tutta spalancata, stai più attenta. -
Un altro problema che manifestava era la paura eccessiva dello sporco e il timore esagerato di contrarre infezioni. Anche in questo caso i suoi molestatori avevano terreno facile, continuando ad avvertirla: - Attenta Nina, quel sacchetto che stai portando è tutto sporco, è pieno di germi, che schifo, è pericolosissimo. Stai più attenta. Di questo passo ti beccherai qualche infezione. -
Nina soffriva veramente. La sua condizione, i suoi disturbi, le sue ossessioni la facevano stare realmente male. Ma tutto ciò era niente rispetto a quello che le stava facendo provare l'ostilità sociale che sentiva intorno a sé, a cominciare dal fatto di essere oggetto di scherno da parte di un gruppo di ragazzi che anche in quel momento erano fermi davanti casa sua.

Erano ragazzi non giovanissimi, diversi frequentavano l'orato- rio, l'unico luogo del paese dove c'era un campetto di calcio dignitoso, qualcuno era anche iscritto all'Azione Cattolica. Nel- l'attesa che Nina uscisse di casa disputavano di calcio e di automobili, ogni tanto anche di donne. Le loro voci erano volutamente sguaiate. Le parole e le espressioni erano rigorosamente grossolane e volgari, avendo cura di evitare ogni eventuale involontario accenno di gentilezza o di strutturazione grammaticalmente corretta del linguaggio.
Le posture tenute dai loro corpi erano ostentatamente sbilen- che e asimmetriche. Guai a distrarsi un attimo per ritrovarsi senza volerlo composti e dritti sulle gambe: l'importante era apparire sgraziati.
I gesti risultavano intenzionalmente rozzi, forzatamente vigo- rosi, con studiate traiettorie spigolose e disarmoniche.
Tutto questo per la paura, anzi per il terrore, di poter altrimenti sembrare poco maschi, se non addirittura (orrore) effeminati.
Quei ragazzi in quel momento erano i persecutori di Nina, ma non si accorgevano di essere a loro volta ridicoli prigionieri dello stesso angusto spazio sociale e mentale dentro il quale credevano di dominare e di muoversi liberamente.
A proposito di angusto spazio: effettivamente il paese non offriva loro alcuna distrazione e si ritrovavano costantemente a fare i conti con la noia.
In questo senso, Nina diventava per loro una provvidenziale risorsa: trovavano veramente molto divertente infastidirla e deriderla, specialmente se lei esasperata reagiva.

Era una cosa, inoltre, che poi potevano raccontare anche ad al- tri amici per vantarsi e prolungare il divertimento.
Nina da parte sua all'inizio, quando cominciò ad essere presa di mira, provava solo un senso di disagio e di fastidio.
“Si stancheranno” pensava “e la smetteranno.”
Invece la canea appesantiva ogni giorno di più la sua persecuzione e lei veniva sistematicamente messa in ridicolo, fatta og getto di scherzi feroci, accerchiata e canzonata: - Nina 'a pazza, Nina 'a pazza. -
Ormai anche quando era sola e non c'era nessuno attorno a lei, sentiva nella propria testa i loro cori di derisione.

Una precisazione: quando prima raccontavo che veniva fatta og- getto di “scherzi feroci” non era tanto per utilizzare un'espressione colorita e ad effetto.
Ad esempio, Nina, che certamente era molto più sensibile di quel gruppo di ragazzi, non sopportava la crudeltà gratuita eser- citata sugli animali.
Riteneva che fosse deprecabile elargire spietatezze inutili an- che contro le bestie da cui occorreva difendersi.
Ebbene, una sera quella “simpatica” compagnia di “bravi” ra- gazzi, dopo aver usato non so quale stratagemma per indurre Nina ad affacciarsi, liberò da una gabbietta un topolino dandogli contemporaneamente fuoco.
L'animaletto prese a correre lungo la piazza avvolto dalle fiamme. Emetteva squittii simili a disperate urla di dolore miste a richieste di aiuto, mentre i suoi carnefici, sghignazzando euforici, gli sbarravano la strada disposti a cerchio in modo da impedirgli di uscire dallo slargo e dalla vista di Nina.
Questa assistette inorridita, sconcertata e senza alcuna possibilità di intervenire se non urlando a sua volta, con grande divertimento degli organizzatori dell'evento.
Un'altra volta gli stessi “mattacchioni” avevano sistemato bene in vista, davanti all'ingresso di casa di Nina, un gattino che avevano trovato già morto, orrendamente squartato da un'auto di passaggio. Anche in questo caso il loro divertimento consisteva nel suscitare in lei raccapriccio e dolore.
Spesso la sera, quando non faceva troppo freddo, si sofferma- vano fino a tardi sulle panchine della piazza, ovviamente sedendosi sullo schienale e poggiando le scarpe sporche dove le altre

persone di giorno si sedevano. Quando esaurivano il loro reper- torio di vanterie e di calunnie, rimaneva loro un'ultima divertente risorsa: lanciare verso la finestra di Nina sassolini o, quando c'erano, le arance amare degli alberelli che adornavano la graziosa storica piazza.
Il nobile scopo di una tale iniziativa era ovviamente quello di disturbare il già precario sonno di Nina e impaurirla.
Una variante prevedeva di indirizzare i lanci verso il balconcino, nel tentativo di danneggiare i fiori che si affacciavano, innocui e indifesi come la loro padroncina.
Ogni tanto poi un'improvvisa ispirazione artistica si impossessava di qualcuno di loro e si esprimeva con la realizzazione di qualche disegno osceno.
Il competente contributo del gruppo provvedeva poi a corre- dare il disegno di frasi scurrili, avvilenti, lesive della dignità della destinataria.
Il lavoro ultimato veniva infine inserito nella cassetta delle lettere di Nina e il divertimento consisteva nell'immaginare la rea zione che avrebbe avuto l'indomani leggendolo.

Ma la cosa strana e di non facile comprensione era che per quei ragazzi ciò che facevano a Nina era assolutamente normale. Non si sentivano cattivi, non si sentivano vigliacchi nell'accanirsi in gruppo contro una donna sola.
Per loro non c'era niente di riprovevole nel deridere una per- sona allorché questa era “anomala” e “diversa” dai canoni riconosciuti come regolari.
Anche alcuni paesani (non la maggior parte, per fortuna) la pensavano così: quei picciotti non erano né bulli né teppisti. Erano dei bravi ragazzi appartenenti a famiglie perbene e i loro comportamenti persecutori erano solo innocui passatempi a di- scapito di un individuo “strano” e “diverso”, quindi naturalmente e inevitabilmente oggetto di derisione.
Nina avvertiva bene l'assurdo senso di normalità che da molti veniva attribuito alle molestie di cui era oggetto. E percepiva la conseguente complicità di tutto un blocco sociale che, sia pure con diverse eccezioni, la isolava e la emarginava con naturale e spontanea, verrebbe da dire quasi ingenua, terribile crudeltà.
Era malata, ma intelligente e consapevole. Ed era una consapevolezza che la faceva stare ancora più male.
Capiva che l'evoluzione culturale dell'uomo, rispetto a comportamenti istintivi primitivi e animaleschi, era ancora lontana dal completarsi.
Capiva anche di essere ormai vicina alla propria distruzione psicologica, mentre crescevano in lei ansia, depressione, ossessioni, disturbi fisici e del sonno.
E purtroppo cominciavano a comparire anche impulsi auto-aggressivi che lei faceva sempre più fatica a tenere a freno.

Una mattina i vicini segnalarono che non la vedevano e non la sentivano da alcuni giorni.
Vennero avvertiti i carabinieri che, dopo averla chiamata senza ottenere risposta, forzarono la serratura ed entrarono in casa sua. La trovarono senza vita nella vasca da bagno, in un lago di sangue, con i polsi tagliati.
Chi la vide riferì che, stranamente, aveva un'espressione se- rena. Forse prima di andarsene aveva pensato che finalmente si sarebbe liberata delle sue sofferenze.
Si dice anche che i suoi persecutori abbiano successivamente parlato tra loro di questa storia con pareri molto discordanti. Per alcuni era stata solo lei l'unica responsabile della propria fine. Al- tri invece avanzarono il dubbio che la derisione sistematica poteva avere avuto un ruolo nello spingerla verso il suicidio. Tra questi ultimi addirittura qualcuno dichiarò apertamente di sentirsi moralmente responsabile. Il loro gruppo, comunque, ben presto si sciolse. Non riuscivano più a ritrovarsi insieme come prima. Non si divertivano più. Quelle rare volte in cui si incontravano scendeva in mezzo a loro un'ombra di cupa tristezza e nessuno aveva più voglia di scherzare e neanche di parlare di Nina 'a pazza.
Nina fu seppellita nel cimitero del paese, accanto ai suoi genitori. Per molti anni, in quel luogo si riscontrò un fatto strano: sulla tomba di Nina c'erano sempre dei fiori freschi e nessuno è mai riuscito a capire chi glieli portasse, visto che non aveva parenti né amici.
Erano sempre fiori colti da poco, scelti fra i più belli della stagione, come quelli che piacevano a lei e che teneva sul suo balcone quando era in vita.

Salvo Tosto

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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