Non e sufficiente una sola vita per compiere il proprio destino.
Demonte 1999 Caterina fu svegliata dalle grida dei suoi genitori. Stavano litigando. L'orologio segnava le otto. Si stirò e rimase in ascolto, poi, preso il cellulare si rannicchiò sotto le coperte. C'era un messaggio di Paco. Lo lesse con il cuore in gola e per poco non scaraventò il telefono nel muro. Ci mancava anche lui adesso! Che cretino... possibile che non arrivasse a capire che i suoi non le avevano dato il tempo di salutarlo e che neanche lei era a conoscenza del trasferimento? Caterina affondò il viso nel cuscino e cacciò un urlo. Dal piano di sotto non giungeva più nessun rumore. Forse i suoi se ne erano andati. Caterina si mise seduta e attese ancora un po' prima di scendere. Sbirciando dalla finestra, vide che l'auto non c'era. Tutto era avvolto nel silenzio. Nonostante fosse sicura che ormai i suoi erano usciti, si diresse in cucina in punta di piedi. Appena entrò in cucina vide un foglietto attaccato al frigo con scritto: “Cercano alla caffetteria. Ti conviene passarci subito dopo colazione.” Caterina sbuffò accartocciando il foglietto. Che palle! Sua madre le doveva sempre organizzare la vita, le aveva fatto venire l'angoscia già di primo mattino. Scelse dal cellulare una musica di sottofondo e con molta calma e poco entusiasmo si preparò la colazione. La cosa che le dava più fastidio erano proprio queste conversazioni lasciate appese, su dei foglietti. Da tempo non avevano un dialogo, sua madre si limitava a sputarle in faccia le sue sentenze. Quando oramai tutti i giochi erano chiusi. Il cielo era grigio come il suo umore e a giudicare dai vetri appannati della finestra, doveva fare freddo. Dunque, che cosa le avrebbe riservato il secondo giorno a Demonte? Una camminata al parco e poi sarebbe passata dalla caffetteria. Non aveva affatto voglia di sottostare alle trovate di sua madre, ma era anche vero che almeno si sarebbe tenuta occupata e magari chissà, avrebbe conosciuto qualcuno, finalmente... Addentò l'ultimo biscotto e corse a prepararsi. Arrivata alla panchina sotto al grande albero, Caterina si lasciò cullare dal rumore del vento che all'improvviso si era rinforzato. Chiuse fino in cima la cerniera del giubbotto rimanendo in ascolto della natura intorno a lei. Anche quella mattina aveva lasciato a casa le cuffie, ma lo aveva fatto di proposito. Ebbe l'impressione che ci fosse qualcuno dietro di lei e si voltò di scatto, spaventata, ma non c'era nessuno, solo dei rumori causati dal forte vento. Caterina restò perplessa a scrutare l'albero per qualche istante, poi prese le sue cose e camminò in direzione della caffetteria. “Prima mi levo il pensiero, meglio è.” Pensò. Entrando nella caffetteria, notò con sollievo che non c'erano clienti, solo una giovane donna dietro al bancone intenta ad asciugare una sfilza di bicchieri. “Buongiorno -salutò Caterina titubante- sono qui per l'annuncio...” La donna alzò lo sguardo, come se si fosse accorta solo allora che qualcuno era entrato, e mentre posava i bicchieri esclamò: “Ah sì, certo! Me ne occupo io. Mi ero dimenticata che Adele se ne va...” Uscì da dietro il bancone e si avvicinò a Caterina. “Prego, sediamoci qui.” Le disse indicando un tavolino con due sedie. “Allora -proseguì col fiatone come se avesse appena fatto una maratona- io sono Valeria, piacere, dalla prossima settimana abbiamo bisogno dal martedì alla domenica, il lunedì la caffetteria è chiusa, i turni vanno dalle nove di mattina alle due del pomeriggio e dalle due alle otto di sera, poi ci sono le ferie e i permessi, tutto in regola e retribuito.” Caterina faticava a starle dietro, parlava veloce e sembrava un po' nervosa. Valeria era una tipa rossiccia con i capelli mossi, le spalle piccole e curve, un po' in carne. Caterina provò subito simpatia per lei. “Per me va bene -le rispose Caterina- anche se non l'ho mai fatto prima. Non so se cercate qualcuno con esperienza...” Valeria sembrava pensare ad altro, aveva lo sguardo perso nel vuoto, poi all'improvviso tornò alla realtà e con uno scossone disse: “Per quello non ti preoccupare, non sarai mai da sola, di solito siamo in tre o in quattro a servire. Considera che per l'ora di pranzo prepariamo anche dei piatti veloci, c'è un bel po' di gente anche in settimana, ma comunque.” E s'interruppe, lasciando lì la frase. “Ho capito, grazie.” Rispose Caterina sorridendo. Valeria guardava in continuazione fuori dalla vetrata e non accennava a proseguire la conversazione, Caterina prese la parola: “Allora ti lascio il mio numero e mi fai sapere?” Valeria la guardò intontita, poi con voce squillante esclamò: “Certo certo! Dammelo subito!” E corse dietro al bancone a cercare un blocchetto su cui scrivere. Mentre Caterina glielo dettava, Valeria lo trascrisse con una calligrafia frettolosa e scomposta. Si salutarono e prima che Caterina uscisse le gridò: “Sei la prima a cui faccio il colloquio. E penso tu sia anche l'ultima!” Caterina sorrise, sperando fosse davvero così. Prima di tornare a casa passeggiò a lungo, per i vicoli del paese e poi di nuovo nel parco. Quando passava vicino al grande albero avvertiva una sorta di mormorio, ma non c'era nessuno, solo il vento. A un certo punto si fermò in piedi lì davanti e restò a fissarlo. Non sapeva neanche che tipo di pianta fosse... un olmo? Una quercia? Un tiglio? Per lei non faceva differenza. Si sedette sulla panchina e ripensò alla tipa della caffetteria. L'idea d'iniziare a lavorare la stimolava, anche se non era sicura che l'avrebbero presa, potevano presentarsi altre ragazze più in gamba di lei, ma era comunque una ventata piacevole in tutto quel trambusto. I rami dell'albero ondeggiarono con più violenza e un vento gelido le portò via il berretto. Caterina si alzò d'istinto per cercare di recuperarlo e inciampò nelle radici, ma qualcosa la trattenne. Pensò che le fosse rimasto impigliato il giubbotto e di averlo strappato, ma quando controllò vide con stupore che era tutto a posto. Il berretto, intanto, si era appoggiato proprio ai suoi piedi. Nel raccoglierlo avvertì ancora quella sensazione di essere osservata. Si guardò intorno spaventata, ma non c'era nessuno. Come era successo il giorno precedente le era trasalita una strana sensazione e questa volta si fece largo il bisogno di toccare l'albero. Ma non lo fece. Restò ancora per qualche istante a scrutare il tronco e la grande chioma, poi riprese la strada di casa. “Sei stata alla caffetteria?” Chiese Anna senza salutare appena mise piede in casa. Caterina ,distratta annuì con la testa mentre sfogliava una rivista di fumetti. “Sei stata tutto il giorno chiusa in casa? Non hai conosciuto nessuno? Guarda che pure qua ce ne sono di ragazzi della tua età eh.” Anna era partita in quinta come al solito. Caterina la fulminò con lo sguardo e se ne andò in camera sbattendo la porta. Anna rimase sola con i suoi pensieri, seduta sul divano a sorseggiare un bicchiere di vino. Luca rientrò tardi e la trovò così, addormentata, con la testa affondata tra i guanciali morbidi, una gamba distesa e l'altra penzolante che sfiorava il tappeto. Senza far rumore si versò dell'acqua e salì in camera. “Ma che ci fai in quel parco tutti i giorni? Non ti viene a noia?” Le aveva chiesto Martina dall'altro capo del telefono. Caterina non aveva risposto subito, voleva cercare le parole migliori per trasmettere all'amica quello che sentiva, così dopo un po' disse: “Mi piace. Si respira una gran pace lì... non so come spiegartelo ma... è come se dovessi stare in quel un posto. “Allora vedi che hai trovato subito una cosa positiva lì nel paesello sperduto!” Le rispose gongolante Martina. Caterina sorrise, e infatti non vedeva l'ora di tornarci. C'era un'energia particolare in quel parco... salutò l'amica e si addormentò con l'intenzione di svegliarsi presto per tornare alla panchina col grande albero.
Demonte 1253 Caterina aveva perso il senso del tempo, non sapeva più che giorno fosse, però di una cosa era certa: il tredici novembre si stava avvicinando. Finì di bere l'intruglio di erbe e si avviò verso la rocca dove sapeva che erano tenute prigioniere sua madre e Alice. Aveva in mente un piano e sperava che avrebbe funzionato. Tirò su il cappuccio per non essere riconosciuta al suo passaggio, e così, come un'ombra sottile camminò decisa nella neve. Sotto il mantello celava il suo arco, mentre la faretra, colma di frecce pronte a fare giustizia, era collocata sul fianco sinistro, ben nascosta. Nello stivale destro, invece, aveva posizionato un pugnale. A poco a poco la strada divenne salita e rallentò il suo passo, verso il borgo di Demonte. Si strinse ancora di più nel mantello e quando alzò gli occhi vide l'imponente prigione con le inferriate alle finestre, che si stagliava al di sopra delle case. Era quasi arrivata. Sul trattamento riservato ai carcerati correvano numerose voci. Si diceva, per esempio, che nevicasse dentro alle celle e che a malapena fosse data loro una coperta con cui coprirsi, in molti dormivano sul pavimento e il cibo veniva dato ogni due o tre giorni, una ciotola con un pezzo di pane e acqua. Inoltre, venivano inflitte numerose torture, ma alle streghe toccava la peggior sorte. Caterina rabbrividì al suono della voce dentro alla sua testa che la stava mettendo in guardia, le diceva di scappare lontano. Ma aveva un compito da portare a termine, era decisa a salvare sua madre e sua sorella, non le avrebbe abbandonate. Mentre percorreva la strada in salita si era addentrata in viuzze scure e fatiscenti, popolate di derelitti sdraiati in terra; forse qualcuno era anche morto, ma nessuno se ne curava. “Questi sono gli uomini di Dio” -pensò in preda ad una rabbia crescente- “Piuttosto che portare aiuto ed una parola di conforto, pagano per procurarsi nomi di possibili eretici”. Sapeva perfettamente che la fame spingeva le persone a fare nomi anche senza uno straccio di prova. Ad accoglierla un'enorme portone di legno scuro, arricchito da intarsi di metallo. Di guardia c'erano due uomini armati di spada e alabarda. Il loro sguardo torvo scrutava chiunque si avvicinasse all'ingresso. Caterina si abbassò il cappuccio e disse soltanto: “Sono Caterina. So che mi state cercando”. Una delle guardie la condusse poco gentilmente all'interno di quella struttura in un labirinto fatto di corridoi freddi e poco illuminati. Caterina lanciava occhiate ovunque per cercare tracce di Alice e della madre, ma non riusciva a intravedere niente. C'era nell'aria un odore malsano, nauseante, a cui si aggiungevano grida soffocate in lontananza. “Pentiti!” Sentì gridare da una cella alla sua destra, seguito da un lamento che sembrava essere quasi un ultimo respiro. La guardia, notando l'apprensione con cui Caterina si guardava intorno, disse beffarda: “È inutile che le cerchi. Sono in isolamento.” Caterina voleva scoccare le frecce che teneva sotto al mantello, ma subito ritrasse la mano. Se avesse ucciso la guardia sarebbe morta prima di rivedere sua madre e sua sorella. Doveva scoprire dove le tenevano. La guardia la condusse in una stanza e iniziò a perquisirla, quando trovò l'arco e le frecce le accennò un sorriso come a volerle dire: “a me non la fai, puttana” . “Aspetta qui.” Le disse poco dopo spingendola bruscamente dentro a una cella e chiudendo subito a chiave la porta. “Devo parlare con gli inquisitori!” Gridò Caterina lanciandosi contro le sbarre. La guardia schivò il suo sguardo grigio e restando di spalle rispose: “Non avere fretta. Adesso hanno da fare.” Poi rise. L'uomo si allontanò, ma rimase di guardia per non perdere d'occhio la porta della cella, sapeva che quella donna era pericolosa, si raccontava che avesse strani poteri e che fosse meglio non guardarla mai negli occhi perché avrebbe potuto sortire qualche maleficio. Sputò in terra e si dette una grattata tra le gambe, il tessuto della divisa lo punzecchiava terribilmente. Caterina non poté fare a meno di pensare alle sue visioni, si facevano sempre più frequenti e sapeva bene che stava lottando contro un epilogo certo, ma sapeva anche che il destino non può essere tutto scritto o almeno ci sperava. La domanda a cui non trovava risposta e pace era: “perché sta succedendo tutto questo a me?” Prima la sorella violata da quell'uomo rozzo e grasso e poi tutto questo, il male inferto ad alice e a sua madre solo perché un neonato era morto. Bastava poco per essere additata come strega a volte era sufficiente essere una donna. Proprio come lei.
Pierferrè
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