L'anima del vecchio baule
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Il segreto delle immagini misteriose.
Io Silvana Ritossa... Lascio con piacere la mia esperienza nelle pagine di questo libro che Orietta ha scritto, raccogliendo e unendo storie diverse per creare un romanzo bellissimo e fedele ai fatti storici narrati in esso. La regione giuliana, prima della seconda guerra mondiale, comprendeva Trieste, Istria e Fiume e faceva parte del territorio italiano, oggi invece queste città a parte Trieste appartengono alla Croazia. Ho vissuto a Fiume fino all'età di dodici anni. Io e la mia famiglia non siamo scappati come tanti nell'immediato dopoguerra. Mio padre, vista la situazione in cui viveva il popolo italiano, chiese successivamente al governo Jugoslavo l'opzione di espatrio in Italia, ma per anni gli venne regolarmente respinta, infatti troppi italiani avevano lasciato l'Istria, Fiume e la Dalmazia. In famiglia eravamo in sei: mamma, papà e quattro figli. Io ero la più grande e perciò soffrii molto più dei miei fratelli per quella situazione. Mio padre faceva dei lavori saltuari. Arrivare a Trieste per noi sarebbe stata una soluzione, in quanto c'era uno zio che aveva un negozio di abbigliamento già ben avviato e avrebbe trovato lavoro a tutti. Furono tempi difficili. Finalmente nel 1964 arrivò il permesso di espatrio, per me fu duro lasciare la città, la casa, la scuola, le amiche, ma vista la decisione definitiva della mia famiglia di andare via, non ebbi altra scelta... Nessuno sapeva che il peggio doveva ancora arrivare... Una volta giunti in Italia, a Trieste, ci fecero prendere un treno con destinazione “Campo profughi” di Cremona. A Bologna ci fecero scendere per prendere la coincidenza. Non conoscevamo il posto, quindi mio padre chiese informazioni a un ferroviere, lui ci guardò in un modo sgradevole, quasi con disprezzo e senza farci parlare ulteriormente. Sgarbatamente ci mostrò quale fosse il binario dove avremmo dovuto aspettare il treno per Cremona. Ricordo ancora lo sguardo spregevole di quell'uomo, quando ci squadrò dall'alto in basso, come fossimo pezzenti. Mi rimase impresso nella mente per molto tempo, per questo motivo, per anni, mi vergognai di essere una profuga. Non sapevamo ancora quello che era successo ad altri profughi giuliani in quella stazione, anni prima. Non voglio nemmeno parlarne, tanto fu crudele... mi farebbe vergognare di essere italiana! Il periodo passato al campo profughi di Cremona, in via Villa Glori n. 8 fu terribile. Era una caserma dismessa, un posto orribile. Ricordo che quando arrivammo ci misero tutti in una triste, squallida, grande stanza per sottoporci alla visita medica. Rammento che mi coprivo la faccia e piangevo, non riuscivo a smettere, anche se la mamma cercava di consolarmi. Avevamo lasciato tutto a Fiume e in quel momento eravamo dei prigionieri, non riuscivamo a capire cosa avevamo fatto di male, considerato il cattivo trattamento. I miei fratelli erano piccoli e forse non capivano cosa stesse accadendo, al contrario di me che ero un'adolescente e comprendevo di essere un'estranea, una straniera in quel posto, dove le compagne di scuola mi facevano sentire inferiore. Tutta la famiglia era ritenuta diversa, eppure eravamo italiani come loro. L'episodio che mi colpì di più, durante la mia permanenza lì, riguarda una signora, la quale, passando davanti a noi con il suo bimbo che non smetteva di piangere, gridando gli disse: - Se non smetti di piangere, ti darò ai profughi che ti mangeranno! - . In quella città dove gli inverni erano freddissimi e le estati caldissime frequentai la quinta elementare, nonostante a Fiume avessi già terminato la seconda media. Mi vergognavo tanto di essere una profuga, vivevo in un posto squallido, mentre le mie compagne di classe avevano una casa vera, come quella che avevo lasciato a Fiume. La mia adolescenza fu segnata da giornate tristi in cui il sorriso non disegnava mai il mio viso. La città era spesso immersa nella nebbia e così anche il mio cuore era come ricoperto da essa. Se avessi continuato a vivere in quel posto, sarei morta. I miei genitori mi videro spenta, triste, quindi decisero di mandarmi a Trieste, da mio zio. A tredici anni feci da sola il viaggio in pullman da Cremona a Trieste. Quando arrivai sulla costiera, vidi il mare e sullo sfondo Trieste, dall'emozione mi scesero le lacrime. Non volevo farmi vedere dagli altri passeggeri mentre piangevo, mi coprii il viso con la tendina ripara sole. Le mie lacrime erano di gioia, in quanto finalmente ero tornata a casa. Per fortuna il tempo passò e alla fine degli anni sessanta, a soli diciassette anni, incontrai un bel ragazzo biondo, anche lui profugo come me, di cui m'innamorai. Veniva da Buie d'Istria ed era in Italia dal 1954, quel ragazzo è ancora oggi mio marito. Ora viviamo nella periferia di Trieste Sono contenta di raccontare la mia storia ad Orietta, perché come lei sono una donna sensibile e al contempo determinata, forse perché condividiamo lo stesso dolore: entrambe abbiamo perso un figlio. La gente della mia terra ha sofferto tanto, ma nella sofferenza è diventata forte e non ha mai perso gli ideali,i principi e il valore della libertà che i tanti morti per essa ci hanno insegnato a non dimenticare mai e poi... chi non ha il diritto di riempire la propria valigia con il sogno di una vita migliore? Silvana Ritossa CAPITOLO 1 Un giorno di primavera, passeggiando con mio marito all'interno di un mercatino dell'usato, osservavo tutto con attenzione cercando qualcosa di antico, diciamo pure di vecchio, che potesse contenere le cose che non usavo più. C'erano tantissimi oggetti ammassati qua e là, nel completo disordine. Mi colpì un vecchio baule che se ne stava solo in un angolo. Mi dissero che era destinato al macero; chiesi se potessi aprirlo e mi risposero di sì. Aprendo il grosso e pesante coperchio, mi accorsi che c'erano incise le mie iniziali e quelle di mio marito: B.O. e C.D. Chiesi uno straccio per pulire la superficie e il proprietario, ridendo, me lo diede non capendo perché fossi tanto interessata a quel baule che non valeva niente. Pulendolo bene, notai anche una data: 1848. Mio marito si accorse che in mezzo alle iniziali c'era un disegno, sembrava un velo da sposa. Mi piaceva, pertanto chiesi al proprietario quanto costasse, lui rispose che gli avremmo fatto un favore se lo avessimo portato via, per lui era un ingombro senza valore. Ci disse che la carta che rivestiva il suo interno era molto rovinata e che se avessimo voluto, lo avrebbe pulito lui. Mio marito constatò che effettivamente non era recuperabile tanto era sbiadita, stracciata e vecchia, ma al suo occhio attento non sfuggì un particolare disegnato su di essa. Inforcò gli occhiali e si accorse che su quella carta con lo stemma fiorentino, c'erano dei disegni molto sbiaditi, quindi riferì all'uomo che l'avremmo ripulito noi. Provammo a sollevarlo, era davvero pesante, non sapevamo proprio come portarlo a casa. Il proprietario ci chiese incuriosito come pensavamo di recuperare quegli schizzi sbiaditi. Daniele, mio marito, gli rispose che aveva una grossa lente di ingrandimento; la usava, di solito, quando riparava le vecchie fisarmoniche. Il venditore ci confessò di amare moltissimo le fisarmoniche e si offrì di portarcelo lui stesso a casa con il suo piccolo motocarro, a patto che Daniele, mio marito gli facesse sentire le vecchie canzoni triestine con la sua fisarmonica. Accettammo, così qualche giorno dopo venne a casa nostra, a portarci il baule. Gli chiesi se sapesse da dove provenisse, lui rispose che era nel suo magazzino da anni; gli era stato portato assieme ad altri mobili antichi da una squadra di ragazzi che svuotavano le case da demolire o da ristrutturare. Pensava che provenisse dalle parti di Trieste, ma non era assolutamente in grado di dirmi il posto esatto, in quanto i ragazzi, una volta svuotati gli immobili, mescolavano gli oggetti nel loro camion e andavano da lui solo quando era carico. Lui comprava gli oggetti che poteva recuperare e vendere, il resto andava in discarica. Dopo aver cantato al suono della fisarmonica e bevuto del buon vino ci disse che non voleva soldi, ci avrebbe regalato quel baule ingombrante, secondo lui non valeva più di una sana cantata in compagnia al suono della fisarmonica e un bicchiere di buon vino del Collio Goriziano. Appena andò via, Daniele aprì il baule e pian piano cercò di staccare la carta che ricopriva l'interno. Tolse con le pinzette le puntine arrugginite che la tenevano fissata al legno e la posò sul tavolo. Effettivamente c'erano dei disegni ma non si vedevano molto. Mi confessò che la curiosità era troppo grande e mi promise che li avrebbe recuperati con pazienza. Io ero invece incuriosita dalla sua provenienza. Daniele mi disse che c'era un disegno raffigurante una mappa, una cartina. Non capiva di quale stato fosse, ma alcuni giorni dopo mi comunicò di aver compreso tutto... In base alla cartina, recuperata all'interno del baule, sembrava che la provenienza iniziale di esso fosse l'Istria, la data riportata sopra in alto era 1848, quindi le mie ricerche iniziarono da lì. Del 1848 rimanevano pochi documenti, ma la storia dice che in quel periodo l'Istria dipendeva da Trieste ed era parte dell'impero Asburgico. Iniziai le ricerche storiche per curiosità. Mi intrigava troppo scoprire il luogo d'origine del baule e, di conseguenza, del popolo che vi viveva. Documentandomi, scoprii che durante il Risorgimento le battaglie avevano coinvolto anche quel territorio. Nel frattempo Daniele mi disse di aver recuperato diversi disegni. Purtroppo, pur osservando tutto attentamente, non riuscimmo subito a comprendere da quale disegno partire. Decisi di prendere spunto dal velo della sposa, disegnato tra le iniziali incise all'interno del coperchio, forse dovevo partire proprio da lì... da una sposa Istriana del 1848. Feci diverse indagini sul periodo, studiai a lungo la storia, ritenni che fosse l'unico modo per capire qualcosa. Mentre approfondivo le mie ricerche, mi chiesi perché si volesse illustrare una storia per poi nasconderla in un baule. Scoprii presto che, in quel periodo, chiunque avesse idee diverse da quelle che l'impero asburgico imponeva, veniva punito; quindi per sfuggire alla censura austriaca ed essere sicuri che la storia rimanesse ai posteri, cosa c'era di meglio che mimetizzarla dentro un cassone? Gli Austriaci, durante i trent'anni che seguirono la Restaurazione nelle terre adriatiche, per consolidare il loro dominio, non si stancarono di battagliare in Istria, contro le idee liberali, inviandovi truppe e impiegati stranieri, germanizzando scuole ed uffici e opponendosi, con ogni mezzo, alla penetrazione e diffusione delle dottrine politiche avverse all'assolutismo. Ma con queste misure, a lungo andare, si arrivò al punto di rendere ostile ai governanti austriaci, non solo il ceto nobiliare che, conservatore per istinto e per interesse, aveva accolto con favore prima l'avvento e poi la Restaurazione dell'Austria nell'Istria ex-Veneta, ma anche la popolazione slava dell'lstria anticamente austriaca , cioè di quella parte dell'lstria interna e liburnica, che dal 1374 in poi era appartenuta senza interruzione agli Asburgo e non era stata pertanto mai soggetta al dominio della Serenissima. La ribellione agli Asburgo in quegli anni era totale, quindi sicuramente anche lo sposo raffigurato nella cassapanca era un uomo che combatteva contro quella repressione austriaca che nessuno accettava più. Pian piano la storia racchiusa nel baule cominciò a prendere vita. Gli avvenimenti del 1848 e soprattutto la rivoluzione veneziana, avevano destato speranze e entusiasmi in quel popolo, anche se non ne seguì alcuna rivolta. L'Austria aveva rafforzato le sue difese in Istria e uccideva senza processo chi si ribellava. Questa repressione militare fece sparire le idee indipendentistiche di alcuni e nessuno osò avere speranze di aggregazione della penisola all'Italia che ambiva a diventare uno stato unito. Gli italiani dell'Istria iniziarono a interrogarsi sulla propria collocazione rispetto alla nazione italiana e anche sul loro rapporto con lo slavismo, che dal 1848 iniziò a diffondersi lentamente nella penisola. Lo stato Asburgico prese il sopravvento proprio fra il 1848 e il 1849, con l'aiuto del clero. Una storia incredibile che amai molto leggere. Ciò che rimane di questo vissuto sono le immagini, attraverso le quali iniziai a provare emozioni ed entrai con tutta me stessa nella storia contenuta in questa grande valigia di legno. Una valigia può contenere: niente, un tesoro o una storia fantastica come quella che vi racconto, una storia lontana, sbiadita... ma troverò i colori per illuminarla, grazie anche alle testimonianze che ho raccolto da diversi profughi istriani che, entusiasti del mio libro, mi hanno raccontato le loro esperienza e così attraverso di esse, accostandole e mescolandole, ho costruito questo romanzo, per non dimenticare, per sapere come hanno vissuto e di conseguenza per ringraziarli per quello che oggi abbiamo grazie alle loro sofferenze. Dobbiamo stare attenti a non perdere quel coraggio e quella dignità, per far in modo che non siano morti inutilmente. Un grande aiuto a ricostruire la storia me lo diede Francesco De Grassi, il quale da editore storico mi permise di consultare diversi libri della Venezia Giulia, pubblicati dalla sua casa editrice: documentazioni su vicende realmente accadute in quel periodo. Ne lessi moltissimi, tanto da arrivare a decifrare quelle immagini, che mi permisero di viaggiare nel tempo con la mente: esse mi stavano raccontando una bellissima novella, prendendomi per mano e trascinandomi nelle loro avventure... non ero più in grado di scappare, ero lì con loro e dovevo raccontarle. La mia fantasia esplose e mi diede fortissime scariche positive di adrenalina, tanto da illuminarmi la mente, che divenne pronta a mettere su carta quello che avevo scoperto. Avevo in mano tutto il materiale che serviva, quindi fui pronta a partire verso questa nuova avventura, che iniziò nel 1848 in terra d'Istria. Viaggiare con la fantasia nella Mitteleuropa mi sollecitò, mi incitò, mi spronò moltissimo. Nonostante non sia una vera viaggiatrice, il viaggio fantastico è sempre stato per me affascinante. Ora mi permetteva di vivere una vita alternativa, proprio risvegliando l'anima contenuta nel baule. Rivedevo le carrozze di quei tempi, non sempre in buono stato, sorridevo e mi venivano i brividi, quando immaginavo gli incidenti causati dal pessimo stato delle strade, ulteriormente aggravato dalla pioggia, dalla neve o dal fango. La gente scendendo sprofondava nella poltiglia. Doveva essere tremendo, se pensiamo che per raggiungere le stazioni occorrevano due ore di tragitto. Non avrei voluto vivere in quegli anni in cui le donne non potevano essere se stesse. La storia mi stava invadendo ed entrai in essa, come se stessi vivendo queste avventure nel loro tempo. Osservavo la mano esperta di Daniele che faceva rivivere quelle figure rovinate dal tempo e quando furono ripristinate, nella mente fu tutto chiaro. Come un lampo immaginai di trovarmi nel passato e compresi che fu proprio quella sposa che iniziò per prima a disegnare nel baule, gli altri continuarono negli anni successivi. Era proprio lei che con le sue immagini mi stava raccontando un tempo lontano che non si dovrebbe dimenticare, soprattutto per apprezzare il nostro presente. Chiudendo gli occhi riuscivo perfino a vederla, mentre si preparava sorridendo e sognando il giorno più bello della sua vita: stava coronando il suo sogno ed era felice. Nel giorno del matrimonio tutte le spose sono particolarmente belle. La loro bellezza non dipende certo dal trucco, dalla pettinatura o dall'abito scelto. È la luce negli occhi che le rende raggianti e splendide. Ogni sposa ha una sua storia, ma nel giorno più bello della loro vita sono tutte uguali, hanno gli stessi pensieri e le stesse delicate incertezze. L'abito da sposa, in qualunque epoca, è il capo più importante nella vita di una donna. L'ottocento è tuttavia il secolo più importante per questo capo d'abbigliamento, così come per tante tradizioni legate al giorno delle nozze. La nostra sposa era di origini borghesi, si capisce dall'abbigliamento delle donne che la vestivano, che forse appartenevano ad una famiglia della borghesia asburgica benestante, ma non ricca. Probabilmente non avrebbe potuto permettersi quel vestito, sicuramente le era stato donato dalla famiglia dello sposo, figlio di ricchi mercanti di origini fiorentine, ciò è confermato dalle fattezze della carta che rivestiva il baule. Immaginavo poco gradevole la famiglia dello sposo, ma sicuramente il ragazzo era diverso, altrimenti la sposa non sarebbe stata così felice. Il suo corredo però doveva essere ben fornito, visto le grandi dimensioni del baule. Mille domande bombardavano la mia mente: decisi che lo sposo fosse figlio di un ricco mercante di origine italiana, un italiano come tanti che all'epoca si opponevano agli Asburgo. La sposa però era felice e questo bastava, non importava da quale parte stesse il suo uomo, l'importante era che tra poco sarebbe stato solo suo. Le spose sono sempre belle. Me la immaginavo mentre indossava il suo abito e le sue damigelle aggiungevano pizzi e nastri. Il velo era grandissimo e le avrebbe coperto il viso, finché il suo sposo non lo avesse scoperto per baciarla. L'abito bianco da sempre considerato simbolo di purezza, non ha ancora oggi perso il suo significato. Dal 1840 in poi si sa, le tinte vivaci che si usavano per le spose furono abbandonate, fino ad arrivare a identificare il vestito da sposa col bianco, che ancora oggi è il colore preferito. Quella sposa vestita di bianco era bellissima e stava per vivere il suo sogno più bello. Me la immaginavo, come se fossi lì con lei, come se fossi una sua damigella che ornava di pizzi il suo bellissimo abito. Le emozioni delle spose sono di certo tantissime, si può piangere e ridere contemporaneamente. Lei, con il suo sorriso a metà, emozionava anche me, fino a farmi venire i brividi. Ma i brividi più grandi si provano quando la sposa fa l'ingresso in chiesa. La vedevo trepidante mentre raggiungeva l'altare, emozionatissima. Il suo cuore batteva a mille, lei sapeva che quel percorso sarebbe rimasto impresso nella sua memoria per sempre. La gente seduta la osservava e ad alcuni scese qualche lacrima. I banchi erano ricoperti di fiori, ma lei era talmente emozionata che non li vedeva nemmeno. Al suo ingresso l'organo iniziò a suonare, qualcuno la prese sotto braccio per accompagnarla all'altare dove l'avrebbe consegnata al suo uomo e ad una vita nuova e felice. Le gambe tremavano, non era sicura di arrivare fino in fondo, il tratto era breve ma a lei sembrava lunghissimo, non sapeva se ridere o piangere, respirava profondamente e continuava il suo cammino, quel braccio amico che la sorreggeva le permetteva di non cadere e arrivare fino allo sposo. Il galateo vuole che la sposa assuma un portamento quasi regale, perciò il suo sguardo doveva essere rivolto sempre in alto, verso l'altare, mai abbassato a fissare i piedi o il pavimento. Il passo doveva essere lento ma deciso al tempo stesso, in modo da lasciarsi ammirare da amici e parenti in tutta la propria bellezza. Ma questa sposa non ci riusciva, teneva la testa bassa, alzarla poteva significare cadere, in quanto le vertigini erano tantissime, non sopportava gli sguardi, era troppo emozionata. Osservava solo le damigelle che la precedevano, sistemate in fila per due, una delle quali reggeva il cuscino delle fedi. La sposa stava molto attenta a mantenere le distanze, osservando loro non vedeva mai l'altare, quello sarebbe stato l'ultimo sguardo, l'ultimo passo verso la felicità. Il suo velo era abbassato e lo avrebbe tenuto fino alla fine, così chi la osservava non si sarebbe accorto della sua espressione: quel velo copriva le emozioni e la proteggeva. La mano sinistra teneva il bouquet di fiori bianchi, lo stingeva con fatica, tanto le tremava la mano! Più si avvicinava all'altare, più tutto il suo corpo tremava. Quando alzando finalmente lo sguardo, vide il sacerdote e i suoi testimoni che l'attendevano, si accorse che anche loro avevano la testa bassa. Lo sposo non era ancora arrivato, tutti la osservavano e in religioso silenzio cominciarono a preoccuparsi. La musica si arrestò. Una carrozza si fermò davanti alla chiesa, entrarono due uomini e a passo veloce si diressero verso il parroco e i testimoni, ignorandola completamente. I presenti, senza parole, osservavano gli stranieri entrati in chiesa e si chiedevano cosa fosse accaduto. Finalmente uno dei due signori si avvicinò alla sposa e le comunicò che lo sposo non sarebbe venuto. Le consegnarono una lettera. La sposa la aprì e comprese che il suo amato era morto per i suoi ideali di libertà, sicuramente una giusta causa, ma non sarebbe più tornato da lei. Il suo sogno era finito, la sua vita era finita, tutto era scoppiato come una bolla di sapone per sempre. Da quel momento in poi niente sarebbe stato più come prima. Povera sposa, anche io piango con lei immaginandola in tale stato davanti all'altare. Il dolore era fortissimo, le vertigini aumentarono, il respiro mancò quando la gente, confusa, si accalcò per abbracciare quella sposa, che sposa non sarebbe stata mai più. Il vuoto riempiva la sua mente. Il suo sguardo era perso tra le lacrime. Nessuno avrebbe potuto colmare quel vuoto. Le parole degli altri non contavano nulla, così come la sua vita, senza il suo grande amore. Improvvisamente... il buio! La sposa, sopraffatta dalla situazione, dal dolore, dai sussurri della gente, svenne. Ma forse era proprio lì che voleva rimanere, in quel buio che l'aveva allontanata da tutti e avvicinata di più a lui. Si riprese sul suo letto, quello della casa dei suoi genitori, dove viveva prima e dove avrebbe dovuto continuare a vivere. Quella sposa non poteva morire, doveva per forza respirare profondamente e continuare il suo cammino, lei sapeva perché... Doveva essere forte, molto forte in quanto costretta ad affrontare quello che sicuramente era il momento più difficile: la sepoltura del suo uomo. La famiglia di lui organizzò tutto, lei venne tagliata fuori, non era sua moglie, non era nessuno, probabilmente non era mai stata accettata dalla famiglia di lui, figuriamoci adesso... Le venne concesso comunque di partecipare al funerale e solo a quel punto consegnò ai genitori del suo fidanzato, ormai defunto, una lettera, che aveva ricevuto dai quei signori arrivati in chiesa in carrozza. Loro la lessero attentamente. C'era scritto che se non fosse tornato vivo dalla missione, avrebbero dovuto comunicarlo subito alla sua donna, la quale nonostante tutto avrebbe dovuto essere accettata dalla sua famiglia con rispetto e un giorno, quando anche lei avrebbe lasciato questo mondo, avrebbe dovuto essere sepolta accanto a lui, in questo modo si sarebbero ritrovati in un mondo diverso e avrebbero vissuto per sempre in pace. La famiglia non accettò le volontà del figlio e non accolse la sposa, che noi chiameremo Beatrice, come parte della famiglia. Non faceva parte del loro ceto sociale, era benestante, ma non ricca, in quanto di umili origini. Acconsentirono solo al fatto che un giorno fosse sepolta accanto a lui....
Orietta Bosch
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