Palermo, 5 aprile 1943.
Camminare. Nulla di più semplice. Come respirare o mangiare. Impari quando compi un anno e non smetti più. Metti un piede davanti all'altro e vai. Il mondo è tuo. Camminando arrivi dove vuoi. Almeno, credo che per gli altri sia così. Per me è diverso. Per me è un'impresa, anche in pieno giorno, anche nelle strade asfaltate, persino in casa. Casa. Che cosa terribile mi è successa. Ma devo camminare. Devo fare attenzione a dove metto i piedi: potrei incappare in un ordigno inesploso o scivolare in una voragine. Basterebbe una piccola distrazione e salterei in aria. Confesso di avere le idee confuse, come se gli esplosivi mi avessero centrato la testa. Il sole non è ancora sorto e noi siamo già in cammino. Il mondo intorno a me è stato raso al suolo, ho perso ogni riferimento. Credevo di essere la tessera di un mosaico incastonata nella realtà, con la mia famiglia, il mio quartiere, la mia città. E invece no. Il buio intorno a me è fitto. Mia sorella piange. Io non posso, io non devo. Non ho tempo per piangere. I miei passi sono ancora più lenti e strascicati del solito, le mie gambe fanno ancora più male. Questa notte si è chiuso un intero capitolo, non solo per la famiglia Patania, ma per Palermo tutta. Avevo una casa bellissima, al terzo piano, con camere ampie e ariose, alle spalle della Chiesa del Carmine Maggiore, nell'antico quartiere dell'Albergheria, con il mercato di Ballarò. Non esiste più. Cancellata. Demolita. Polverizzata. Evaporata. Non capisco. Non voglio. Non doveva succedere. Non a noi. Non abbiamo fatto niente per meritarci una cosa simile. Non ho più nulla, nemmeno un paio di mutandine, a parte quelle impolverate che indosso. Nulla. Nemmeno la fotografia della prima comunione. O i miei orecchini. Cerco, nella mia mente, di ricostruire e riordinare le fasi degli ultimi avvenimenti, in ordine, senza confondermi, sistemando gli eventi sulla linea del tempo. Acciuffo ogni minuscolo dettaglio, ogni sfumatura, ogni voce, ogni colore, come se fosse una lezione da ripetere alla maestra per l'interrogazione, per non smarrire nulla. Devo archiviare tutto nella mia testa. Sono una testimone. Sono una vittima. Sono una bambina. E ho voglia di urlare.
La mia famiglia ha trascorso la giornata in casa, a parte papà, il quale, sfinito e zoppicante per via del mal di schiena che lo tormenta, è rientrato nel tardo pomeriggio. Quando gli americani hanno distrutto i binari del filobus, papà ha perso il suo lavoro di conducente. E così, per disperazione, pur di mantenere la famiglia, accetta lavoretti di fortuna che gli fruttano pochissimo: qualche pezzo di pane o di caciocavallo, un pugnetto di farina. Oggi il suo lavoro è consistito nell'aiutare i carabinieri a rimuovere le macerie nella zona del porto. In cambio ha ottenuto un pugnetto di farina e due arance. Per una famiglia di sei persone. Ancora una volta. Ormai succede da mesi. Io e i miei fratelli nuotiamo dentro i nostri vestiti. Siamo scheletri. I morsi della fame spesso ci impediscono di dormire. Sono la figlia più grande. Mi chiamo Cristina: ho dodici anni e talvolta penso a me stessa come a una donna. Mentre la mamma allatta Pinuccia, la mia sorellina più piccola, che ha appena quindici mesi, io impasto la farina con un po' d'acqua e cucino, con il poco carbone che è rimasto, una specie di focaccia senza lievito, pensando alle arance. Sono diventate una rarità, persino a Palermo che si trova al centro della Conca d'Oro. Io ne ricordo a malapena il sapore, che mi piace tanto. Prima della guerra, a volte, mi facevo una bella spremuta. Ora no. Mangiamo anche le bucce. Palermo sprofonda nella fame e nella miseria. I contadini che non sono al fronte devono vigilare in continuazione, con le lupare, per cercare inutilmente di impedire il furto di agrumi e ortaggi; al tempo del raccolto sono costretti a dormire nei campi, armati fino ai denti. Con quei miseri bocconi di focaccia tutti restiamo affamati, anche dopo che papà affetta le due arance. Ma non c'è tempo di lamentarsi: la nostra misera cena viene improvvisamente turbata dall'odioso suono della sirena dell'allarme antiaereo. - Veloci, presto! Carmela, dai la mano a Cristina! Tu, Giovanni, scendi con papà! - Lasciamo la tavola apparecchiata con la mia tovaglia preferita, a quadri bianchi e rossi, e ci precipitiamo per le scale. Ma questa volta l'allarme è scattato in ritardo. Forse le sentinelle si sono distratte. Prima di trovare riparo nel rifugio, udiamo in modo chiaro e distinto l'orribile fragore dei cacciabombardieri angloamericani e il boato delle esplosioni. - Mamma, mamma! Le bombe cascano qui! - piagnucolo, trascinando penosamente le mie povere gambe malate. Carmela, che di anni ne ha cinque, si aggrappa ai miei capelli, aggiungendo dolore a dolore. Il rifugio è già stracolmo. Percorriamo il corridoio. Qualcuno ha portato un lume a petrolio, perché per motivi di sicurezza la rete elettrica, dopo il suono della sirena, smette di funzionare. - Nunzia, cerchiamo un posto lontano da malati e pidocchiosi. - È il nostro incubo. Nelle case l'acqua scarseggia perché i tubi sono danneggiati a causa delle bombe e la gente non si lava più. Molti sono malati di tubercolosi e appestano l'aria con la loro tosse. Alcuni bambini hanno la rosolia o il morbillo, o altre malattie contagiose. E noi di malattie ne abbiamo avute fin troppe. Papà si addentra nel rifugio, fino alla parete di fondo, dove trova un piccolo spazio tra i sedili di pietra. Mamma si siede con Pinuccia. - Se colpiscono l'entrata siamo fottuti! - dice lo zio Gino, il fratello di papà. Abita sopra il rifugio e ogni volta che suona la sirena arriva per primo, con tutta la sua numerosa famiglia. Ho tanta paura. Circa un mese fa, il bombardamento del porto ha sollevato un'enorme ondata che aveva sommerso il rifugio antiaereo del porto. Gli sfortunati operai, in cerca di scampo lì, hanno fatto una fine orrenda. Da allora tutti temiamo di fare la fine del sorcio come loro. Le bombe cadono, fitte come la pioggia. Ogni boato indica la morte di qualcuno e la distruzione di qualcosa: case, chiese, monumenti, stazioni, scuole, ospedali. A chi tocca oggi la mala sorte? Il rifugio trema. - Murìu Palermu! Finìu u munnu! - urla la zia Mommina. È vecchia, ha sepolto due mariti, non ha figli, e prima della guerra credeva di poter vivere in santa pace i suoi ultimi giorni di vita. Lamenti, tremori, bambini in braccio a genitori e fratelli che piagnucolano, cattivi odori di piedi e di ascelle, qualcuno che vomita: il rifugio è tutto questo e anche di più. In genere dura poco, un paio d'ore al massimo. Poi il cessato allarme rincuora tutti e a poco a poco si mette il naso fuori, si guardano i danni e si rientra a casa. Si torna alla normalità, se si può. Il 3 febbraio i bombardieri americani, oltre al porto, hanno centrato piazza Magione e corso dei Mille. Quanta gente è morta? Non lo so, non lo saprò mai. Le autorità imbrogliano: la radio dice sempre che muoiono pochissimi italiani e tantissimi nemici. Ma tutti in città sanno che quella volta i feriti hanno riempito gli ospedali e che i morti erano almeno un centinaio. Tutti sappiamo che la guerra per Mussolini si sta rivelando un disastro. Sta stritolando tutti noi. Ma non dovevamo vincere?
Oltre alle persone, gli americani distruggono le cose. Eccome se distruggono. Il 22 marzo, nel primo pomeriggio, le bombe hanno colpito la nave Alessandro Volta ancorata in porto. La nave era carica di munizioni. L'esplosione ha scosso terra e uomini fino alle viscere, come un terremoto; i cani, che ormai sopravvivono raspando tra le macerie, ululavano, come le Parche. Conosco le Parche perché il parroco mi ha regalato un libro illustrato di mitologia. La colonna di fumo che si è sprigionata svettava, nell'aria, per quattro chilometri e mezzo d'altezza. L'ancora della nave è precipitata sul tetto della Banca d'Italia, in via Cavour, a quasi un chilometro dal mare. Due altre navi che si trovavano in porto sono state sollevate da un'onda di maremoto che le ha scaraventate sulla banchina. I morti sono stati tanti e la città ne era e ne è sconvolta. Si può dire che in ogni caseggiato ci sia una vittima. Alcuni maledicono gli americani, altri sputano di nascosto sui ritratti di Mussolini. Ma io non sono arrabbiata con gli americani. Mi sono simpatici. Dicono che radio Londra si è rivolta direttamente al popolo di Palermo, e che dopo il lancio delle bombe gli alleati si sono dichiarati dispiaciuti per essere costretti a compiere azioni simili. Hanno anche precisato che gli equipaggi dei bombardieri hanno avvertito il contraccolpo delle esplosioni. Non che a noi importi. Chi se ne frega. Loro sono soldati. Noi no. Vorremmo solo vivere, mangiare, avere una casa dove tornare. A me inglesi e americani sono simpatici, ripeto, anche se a scuola ci insegnano che sono nostri nemici e nei manifesti e sui giornali si parla dell'Inghilterra come “La perfida Albione”, un'espressione che proprio non comprendo. Com'è possibile che gli americani siano cattivi, se hanno come simbolo la Statua della Libertà? Se siamo in guerra, la colpa è di quei porci dei fascisti. Mio padre, a voce bassa, lo dice sempre. I fascisti ne combinano di tutti i colori. Io e le mie compagne ne parliamo sempre, di nascosto, negli angoli più reconditi. I miei genitori ci dicono sempre di non parlare male dei fascisti con gli estranei perché è pericoloso. Ma io ne parlo lo stesso. Le voci girano. Sappiamo tante cose. Qualcuno sparisce, qualcuno viene picchiato, a qualcun altro viene somministrato con la forza l'olio di ricino. Qualcuno non scrive dal fronte, qualcun altro perde il lavoro. La mia amica Carmela, quando parliamo di queste cose, si fa sempre il segno della croce. I fascisti per giunta sono alleati con i tedeschi, che hanno certe idee senza Dio che solo a pensarci mettono i brividi. Da quando è iniziata la guerra, tutto, intorno a me, è crollato. Dal balcone del salotto, la mia famiglia, che di cognome fa Patania, gode di un fantastico panorama sui tetti delle abitazioni, magnifici palazzi nobiliari e monumenti secolari. Oltre al Carmine, si scorgono la Torre di San Nicolò, la chiesa dell'Origlione, il Santissimo Salvatore, addirittura la Cattedrale. Ormai, negli ultimi tempi, aprire le imposte, dopo ogni bombardamento, è diventata un'operazione dolorosa. Papà, mamma e noi figli ci avviciniamo con timore alla persiana, tutti insieme, chiedendoci cosa ci sia ancora lì fuori. Io faccio mentalmente l'appello pregando che nulla e nessuno manchi. Ma quel panorama diventa ogni giorno più spettrale ed estraneo.
Maria Enea
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