Le corsie dell'ospedale erano silenziose e fiocamente illuminate da una tenue luce bluastra, che baluginava tremolante lasciando in una zona d'ombra le parti del corridoio che s'intervallavano tra una porta e l'altra. Aurelio vi lavorava ormai da dodici anni. Aveva trovato in questo luogo di sofferenza il conforto alle sue pene. Non era la guarigione dei pazienti che cercava, per quanto a quella finalità era deputata la sua missione lavorativa, ma il loro dolore. Era attratto dal dolore che gli ospiti portavano dall'esterno dentro quelle mura. L'ospedale era pregno di sofferenza, ma la sofferenza non nasceva lì dentro, si formava fuori e lì confluiva, in attesa che qualcuno, o qualcosa, riuscisse ad attenuarlo o a farlo sparire del tutto. E quando questo avveniva, quando il male si spegneva perché l'ospite che lo conteneva non ce la faceva e passava a miglior vita, il dolore si trasformava, usciva dal corpo del defunto per confluire in quello delle persone che erano accorse al suo capezzale. Perché il dolore non finiva mai, solo si trasferiva, da un corpo all'altro. Il dolore aveva bisogno di un'anima da consumare e come un virus, esaurito il suo compito, migrava in un'altra anima e ricominciava il suo lento lavorio di distruzione. Lui lo sapeva bene perché aveva vissuto nel dolore, era stato un suo fedele compagno di viaggio per tutta l'infanzia e poi ancora per gran parte dell'adolescenza. C'era stato addirittura un tempo in cui lui aveva creduto di essere il dolore, aveva pensato che per un qualche mistero divino era stato scelto per incarnare tutti i mali del mondo e si era convinto che gli altri non provassero la sofferenza che avvertiva lui. Per questo era finito a lavorare lì. Aveva bisogno di un luogo che gli dimostrasse che il dolore esisteva anche fuori di lui anzi, che gli facesse vedere che il dolore degli altri, a volte, poteva essere anche più grande del suo. Così, di notte, camminava rasente i muri, le orecchie tese, a carpire un rantolo, un lamento. Dove i suoni della sofferenza erano più forti, si fermava ad ascoltare, per nutrirsi. Non era insolito vederlo fermo dietro una di quelle porte che lo separava dal paziente che giaceva languido dall'altra parte. Porte. Tutte quelle porte gliene ricordavano una in particolare. Tutte quelle porte sancivano il confine tra lo stare male e lo stare bene. Suo papà se ne era andato quando lui aveva appena tre anni. Ne aveva un vago ricordo, legato più a una sensazione olfattiva che visiva. Riusciva a respirarne ancora l'aroma di dopobarba, ma difficilmente riusciva a ricostruirne il volto che il più delle volte si dissolveva poco prima che l'immagine si facesse chiara, disperdendosi nei labirintici corridoi del suo cervello. Suo padre li aveva abbandonati, lui e la mamma, ma non provava rancore per questo, poteva quasi comprenderlo perché la mamma era cattiva, molto cattiva e anche lui, se avesse potuto, sarebbe fuggito lontano da lei. Dopo il papà erano venuti tanti uomini, tutti diversi tra loro, ma tutti vogliosi di una cosa sola. “I miei fidanzati”, li chiamava la mamma, ma non erano fidanzati, erano amanti, erano compratori, acquistavano una merce che agli occhi di un bimbo di tre anni era ignota e incomprensibile. - Tu stai buono qui dentro che la mamma fa presto - , gli diceva sempre prima di chiuderlo nel ripostiglio. A volte faceva davvero in fretta, ma c'erano giorni che quei minuti chiuso lì al buio sembravano interminabili e gli pareva d'impazzire. Qualche volta la porta si riapriva quando i fidanzati di mamma erano ancora dentro casa. Alcuni cercavano di essere carini con lui, ma la maggior parte di loro nemmeno lo considerava. Qualcun altro era più cattivo; alcuni picchiavano la mamma e, a volte, picchiavano anche lui. Quella porta era il suo babau, quella porta era dolorosa, quella porta erano le mille e mille porte di quest'ospedale, dove ora lavorava e, come queste, era il passaggio che collegava un mondo normale a un mondo di segreti, paure e dolori. La notte era trascorsa relativamente tranquilla, ma ora avevano avvisato che era in arrivo un'ambulanza. Trasportava un ustionato gravissimo. Ottimo. Aveva fame. E la sofferenza delle bruciature è una di quelle più dolorose, una di quelle che sazia di più. Dopo non avrebbe avuto più fame per un bel po'. Per questo si affrettò a uscire nella notte fresca che stava già mutando in mattina. Silenzio. Nessun rumore. Morbida appagante solitudine in attesa del cibo. Fu per lui una grande delusione quando il retro dell'ambulanza si aprì svelandone un essere immobile. Non un grido si levava da quel corpo martoriato, non un gemito. Evidentemente l'uomo era in coma farmacologico. Le sue sofferenze erano da un'altra parte. Erano in lui, ma non le sentiva, come se momentaneamente qualcuno avesse sospeso quelle atroci scudisciate di dolore, concedendo un po' di riposo, in attesa che il male tornasse. Perché il male torna sempre. Una volta stabilizzati i parametri vitali, il paziente fu sottoposto agli esami di rito, elettrocardiogramma, ematochimico ed emogasanalisi. Fu subito trattato con antidolorifici e farmaci specifici, per prevenire le complicanze infettive e intubato. Gran parte del corpo era carbonizzata e i tessuti si erano fusi con la pelle. Gocciolava. Il danneggiamento interessava ampie porzioni d'ipoderma, ma nonostante questo i medici non disperavano di poterlo salvare, atteso che le parti più delicate erano anche quelle meno colpite. Aurelio era attratto da quel corpo irriconoscibile, da quella massa di pelle fusa, dove a stento si riusciva a scorgere un volto. Per questo prima di tornare a casa, alla fine del suo turno, lo andò a trovare. Solo il rumore delle macchine che lo tenevano in vita e un respiro roco, che raschiava sui tubicini infilati in gola e nel naso, producendo un sottile sibilo, simile a quello di una pentola a pressione. Ma proprio al momento di uscire l'uomo si mosse e pronunciò una sola singola parola prima di ricadere nel suo stato di catatonico dormiveglia: - Maya. - Dove aveva già sentito quel nome? Aurelio non ricordava, ma era sicuro di aver avuto a che fare di recente con una persona di nome Maya. Era troppo stanco ora per ricostruire le circostanze che avviluppavano quella presunzione di conoscenza, quindi uscì e tornò a casa. Nello stesso istante in cui l'uomo pronunciava quel nome, un altro uomo, a un centinaio di chilometri di distanza da lì, leggeva on-line la notizia riguardante un terribile incendio a un casale nei pressi di Montefiascone, sul lago di Bolsena, che aveva causato numerose vittime, tra le quali anche alcuni bambini e nel quale c'era stato un solo sopravvissuto. Bene, sorrise Giacomo, anche se a essere corretti, avrebbero dovuto scrivere che i sopravvissuti erano un uomo e un cane, rifletté ironico. In realtà, se si fosse soffermato più a lungo sull'articolo, avrebbe avuto modo di comprendere che, poiché non fisicamente presente nel casale al momento dell'incendio, non era lui quello che i giornalisti definirono l'uomo miracolosamente scampato al rogo. Ma non lo fece, e la sua vita virò verso un destino diverso rispetto a quello al quale era stata assegnata. Ora che aveva la (errata) certezza che nessuno tranne lui si era salvato, poteva dedicarsi al duro confronto con i periti dell'assicurazione. Il casale era assicurato contro gli incendi, ma un conto erano un fulmine o un corto circuito, un altro era un incendio causato da un camino lasciato acceso, che presupponeva una negligenza da parte dei padroni di casa. Ma avrebbe avuto modo e tempo di pensare a questo, ora voleva solo godersi la ritrovata libertà da persone che non avevano fatto altro che avvelenarlo, per tutta la vita. Era giunta l'ora di ricominciare.
Si svegliò dal suo sonno profondo con un ricordo vivido. Maya era la ragazzina del cane, quella cui lui aveva messo cinque punti. E ora non c'era più. Ora c'era solo il padre, steso su quel letto a lottare una battaglia che forse non voleva neanche più vincere. Nei giorni a seguire Aurelio si appassionò alla storia di Alessandro. Aveva ramificazioni interessanti e tutte portavano dentro oscuri mondi di dolore. Divenne suo amico nelle lunghe e sofferte giornate di terapia, quando Alessandro reclamava per sé una morte veloce invece di una lenta vita di sevizie corporali, che prevedevano trattamenti chirurgici e innesti di pelle. E ne assecondò l'istinto di vendetta, portandolo lentamente lì dove a lui faceva più comodo. Tutto questo dolore, fisico e mentale, doveva essere incanalato, confluire su un sentiero che non poteva essere di perdono, ma di rivincita. - Conosco un posto - gli disse un giorno, quando ormai aveva la certezza che l'unico motivo che teneva ancora in vita Alessandro era l'intenzione di punire il colpevole che lo aveva sfigurato e aveva provocato la morte delle persone a lui più care. - Fidati di me, ti aiuterò a vendicare Maya, tua moglie e tutti i tuoi amici, lasciati condurre. Poi potrai fare ciò che vuoi, anche morire, se ritieni insostenibile portare in giro per il mondo una faccia ridotta in queste condizioni. - E così Alessandro si affidò ad Aurelio, che conosceva i sentieri che tutti conducono alla sofferenza e da essa ci affrancano. Non fu difficile per Aurelio scoprire l'indirizzo mail di Giacomo. A distanza di tre mesi dai fatti di Montefiascone iniziò a scrivergli lettere da un account anonimo. Mail prive di testo, ma con un oggetto inquietante e a suo modo esplicativo nella citazione di quel vecchio film horror: so cosa hai fatto. Allegate alle mail c'erano le notizie dell'incendio, articoli di cronaca, locale e nazionale, le foto dei notiziari che riportavano il resoconto del rogo. Cosa vuoi? Scrisse così Giacomo, in risposta a una di quelle mail, aspettandosi un ricatto in denaro. Vediamoci, rispose lo sconosciuto e gli mandò le istruzioni sul luogo dell'abboccamento. Vieni solo e porta i soldi. Giacomo fu tentato di coinvolgere la polizia, ma temeva che così facendo avrebbe riaperto l'indagine sull'incendio, indagine che, invece, era ormai chiusa, e non aveva alcuna intenzione di ravvivare i sospetti sul suo conto. Oltretutto la somma che lo sconosciuto chiedeva era alla sua portata e notevolmente esigua rispetto a quella che si sarebbe aspettato, quindi pensò che fosse un balordo di poco conto e che una volta consegnato il denaro se ne sarebbe liberato per sempre. Così, un pomeriggio all'imbrunire, si ritrovò con in mano uno zainetto pieno di contanti a percorrere una stradina sterrata che partiva dal capolinea dell'autobus e s'inoltrava all'interno di un groviglio di piante spinose a costeggiare un accampamento rom. Sudò freddo temendo che il suo interlocutore non fosse un singolo individuo, ma un intero clan di zingari. Passata la baraccopoli avrebbe dovuto camminare per un altro chilometro e mezzo, così c'era scritto nell'ultimo messaggio ricevuto. - Signore hai monete? - Non li aveva sentiti. Tre ragazzini sudici lo circondarono all'improvviso, strattonandolo per i calzoni. Se avessero messo le mani sullo zaino, sarebbe stata la fine. - Non ho soldi, andatevene - , rispose con voce malferma. I ragazzini insistettero e dovette correre per distanziarli. Arrivò all'albero cavo, dove doveva incontrarsi con il suo ricattatore, con il fiatone. Lui era già lì, seduto a fumarsi una sigaretta. - Chi sei? - - La domanda non è chi sono io, ma chi è lui? - Non ebbe il tempo di comprendere il reale significato di quella battuta che fu aggredito dal pungente odore di una qualche sostanza che gli riempì le narici. Cloroformio. Non si era accorto dell'uomo alle sue spalle e così, colto alla sprovvista e già in debito d'ossigeno per la corsa, si lasciò cadere a terra su gambe ormai diventate malferme e perse conoscenza. Fu l'ultima volta che il corpo di Giacomo si trovò in posizione verticale. Si risvegliò un'ora dopo, sdraiato e legato a una panca di legno. In orizzontale sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. Aveva alle braccia due aghi. Fleboclisi. Ma ancora nessuna sostanza stava penetrando nel suo corpo. Nell'aria c'era odore di fiori marci misto a vino rancido. La sua mente ancora confusa gli consegnò la strana immagine di mazzi di ciclamini appassiti. Il posto era buio, doveva essere già sera ormai e non distingueva bene le ombre che si accavallavano. Alessandro lo sorprese a tremare di paura quando accese la lampadina posta sopra il tavolaccio su cui era disteso. - Chi sei? Dove siamo? Liberami ti prego, ho soldi, tanti soldi - , dimenticandosi che l'ultima volta che era cosciente stava stringendo uno zaino carico di banconote e, chissà, forse era già nelle mani del suo carceriere. - Rilassati, non ti agitare, va tutto bene, non mi riconosci? Ammetto di essere un po' diverso rispetto all'ultima volta che mi hai visto, ma per questo l'unico responsabile sei tu. - Giacomo si ritrovò a guardare dentro gli occhi di un mostro senza volto e all'improvviso capì. Capì tutto. Era Alessandro l'unico superstite di cui avevano parlato i giornali, non lui, che sciocco che era stato. - Ale, Ale ti prego liberami, è stato un incidente, io non c'entro, è stato solo un terribile incidente. - - Un incidente causato da te. Tu sei la classica persona che preferisce morire nel torto piuttosto che ammettere che gli altri hanno ragione, vero? Tutto questo per cosa? Tutte queste morti, questa devastazione per cosa? - - Cosa c'è nelle flebo, cosa stai facendo? - - Antigelo. Facciamo una bella trasfusione di liquido antigelo per automobili, sai cosa vuol dire questo? Sai come reagiranno le tue vene a tutto ciò? Sentirai bruciare, un bruciore interno al tuo corpo, ingestibile non curabile, non lenibile, che arriverà sino al cuore, trasformandolo in un camino ardente. Ma sarà solo l'inizio. È giusto che tu paghi per i tuoi crimini. - Fu allora che Giacomo iniziò a piangere come un bambino. Aurelio, che sedeva nascosto a pochi metri da lui, si mosse inquieto sulla sedia. Non erano i lamenti di paura che voleva, lui desiderava sentire le grida di dolore. Ma sarebbero arrivate. A breve la paura avrebbe lasciato il campo al dolore e allora, allora lui si sarebbe saziato. E il dolore arrivò, improvviso, forte, ma non ancora letale, solo un assaggio di quello che sarebbe piombato sul suo corpo ormai in balia dei sequestratori. Giacomo gridò, ma la baracca di lamiera era isolata da tutto, infossata in un tunnel di terra e ricoperta da un rivestimento di foglie che ne escludeva la vista a chicchessia. Nessuno avrebbe raccolto le grida del povero Giacomo, neppure dal campo rom si sarebbe mosso qualcuno per aiutarlo. La trasfusione era solo l'inizio. La scala d'intensità del dolore era destinata a crescere. Lo scopo era tenerlo in vita il più possibile, prima dell'inevitabile conclusione. - Hai sete amico mio? Eccoti qualcosa per sciacquarti il gargarozzo, mezzo litro d'olio d'oliva di alta qualità. - Alessandro inserì un imbuto nella bocca della sua vittima e cominciò a versare, fino all'ultima goccia. Giacomo, che andò molto vicino al soffocamento durante la brutale operazione, tossì per mezz'ora urlando con furia tutto il suo dolore. Perse il controllo del proprio corpo e in preda a brividi e spasmi rilasciò urina e feci per poi svenire, con la gola martoriata da tutta quella densa sostanza. Quando si riebbe, era un ossesso. Cercò di divincolarsi e di allentare le prese che aveva ai polsi, ma l'unico effetto che ebbe, fu quello di mandare in estasi Aurelio che continuava a guardarlo, nascosto ai suoi occhi da una tenda. Alessandro invece non gioiva, non riusciva a godere della sua vendetta, ma più andava avanti più si arrabbiava con la sua vittima, innervosendosi per le sue lamentele. - Bruciaaaa! - gridava Giacomo e questo lui non poteva tollerarlo. - Non usare termini impropri, tu non sai cosa vuol dire “bruciare”, tu non hai idea di cosa sia andare letteralmente a fuoco, non cercare di impietosirmi con il tuo dolore; finché non proverai quello che ho provato io, non hai diritto di piangere. - A quel punto gli versò una goccia di acido nell'occhio destro. La pupilla implose con un “plop” disgustoso e il suo volto produsse uno sfrigolio come di patatine fritte in padella. Fu il dolore più intenso e atroce che Giacomo ebbe mai a provare e per quel giorno fu l'ultima sevizia. Una fitta tenebra avvolse il suo mondo confuso e prima di cadere in uno stato di sonnolenta incoscienza si ritrovò a pregare di morire in fretta. Si risvegliò in piena notte. Paradossalmente il primo pensiero lo dedicò al suo cane, solo in casa, privato della sua passeggiata e della sua razione di cibo, probabilmente stava abbagliando, svegliando il vicinato. Forse il cane poteva essere la sua salvezza, i suoi lamenti potevano essere l'allarme che avrebbe fatto partire le ricerche. Da fuori non giungeva alcun rumore, forse era rimasto solo, forse anche Alessandro se ne era andato, forse, se faceva in fretta, poteva cercare di liberarsi prima che tornasse. Fu così che, intento a forzare le corde, non si avvide della scure che calò sulla sua mano sinistra. Quattro dita furono spazzate via e la mano iniziò a sanguinare copiosamente. Ma venne cauterizzata in fretta, con un accendino. Il dolore fu straziante. Dopo la pausa Aurelio si era seduto nuovamente a tavola e aveva ripreso il suo banchetto. Il menù prevedeva dolore, piatti carichi di puro dolore umano. Alle prime luci dell'alba qualcuno gli sfilò le scarpe e con delle tronchesi gli fece saltare entrambi gli alluci. Di nuovo la fiamma a cauterizzare. Giacomo pregò, come non aveva mai fatto in vita sua. Ogni sei ore un pezzo del suo corpo veniva segato, staccato, messo in un frullatore e dato alle piante come concime. Il secondo giorno un elicottero sorvolò la zona ripetutamente e lui riprese a sperare. Doveva pure esserci stata qualche telecamera che lo aveva ripreso mentre si dirigeva alla baracca. Con un po' di fortuna lo avrebbero trovato. Ma l'elicottero andò via e le ricerche si fermarono a poco meno di due chilometri dal posto dove era tenuto prigioniero. Si fermarono al campo rom, dove due carabinieri perquisirono le roulotte e fecero qualche domanda che rimase inevitabilmente senza risposta. Il terzo giorno nostro Signore decise di esaudire le sue richieste e Giacomo morì. Non per le lesioni, anche se all'atto del suo spirare erano in pratica rimasti solo la testa e il tronco; morì per il dolore e Aurelio fece la più grande indigestione della sua vita. Si saziò talmente tanto delle sue grida da essere a posto, pensò lui, per l'eternità. Hai visto? Si rivolse al bambino che era stato tanti anni fa. Hai visto che il tuo, a confronto, non era dolore? Sei stato bravo, hai resistito e ora sei stato ricompensato. Alessandro invece no, non era sazio, né soddisfatto, era solo molto, molto stanco.
Giuseppe Pensieroso
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