Al museo egizio - Il Cairo, 4 gennaio 2017.
L'Alfa Romeo Spider decapottabile d'altri tempi sfrecciava a tutta velocità lungo la Nile Corniche. La lucida carrozzeria rossa risplendeva, nonostante la polvere, sotto il disco fiammeggiante nel cielo e il motore rombava quasi fosse sul punto di esplodere. La sportiva sfiorò i tavolini del dehors di un caffè-ristorante dove alcuni turisti facevano colazione. Lo spostamento d'aria investì il cameriere che teneva in equilibrio un vassoio carico di tazze e bicchieri da servire a un gruppetto di tedeschi. Il malcapitato fece una giravolta. Un bicchiere di succo al limone gli volò a bordo strada, del karkadè bollente innaffiò i capelli grigi di una cliente, mentre una tazza di sahlab rovinò sul marito macchiandogli i pantaloni di lino. Il cameriere alzò il braccio libero ma ancora tremante e inveì in arabo mentre l'auto saettava all'impazzata fra altri mezzi e pedoni. Poi abbassò gli occhi sull'uniforme macchiata. - Cazzo crede, quel coglione? Di stare alla Dakar-Cairo? - Aveva lo sguardo inferocito quando si ricordò dei clienti lordati e ancora ammutoliti. Si scusò e, con una smorfia di rabbia stampata in faccia, osservò l'Alfa Romeo sparire dietro la coltre di polvere e fumo che sollevava al suo passaggio. - Accidenti a 'sti stranieri! Sarà qualche diplomatico che si crede il padrone del Cairo - suppose quando avvistò la lunga capigliatura grigiastra. Di certo non era un autoctono. I tedeschi mugugnarono tra loro qualcosa che non comprese, al che ebbe il dubbio che conoscessero l'arabo e che non avessero apprezzato la sua vena xenofoba, ma se ne infischiò. Alla guida, un uomo più attempato della spider italiana continuava a tenere premuto l'acceleratore al massimo. La chioma brizzolata e abbastanza lunga da coprire il collo svolazzava come un velo chiaro in balia del vento. All'incrocio successivo, un vecchio ambulante spingeva stanco il suo carretto di legno e ottone carico di tappeti persiani e altre mercanzie. Aveva sentito il rombo avvicinarsi e aveva avuto appena il tempo di voltarsi a osservare la scena del cameriere che per poco non veniva investito. Il veicolo giungeva spedito verso di lui come una mina vagante. La piccola rossa gli passò a mezzo metro sfiorandogli i piedi e facendogli svolazzare la tunica sgualcita. Grazie alla stretta fasciatura, non gli volò via il lungo copricapo color indaco di una tagelmust tuareg. La spider curvò su due ruote come se partecipasse al rally della Dakar-Cairo. Di sbieco l'anziano la vide fare il giro attorno al museo contromano e finire la sua folle corsa a pochi metri dall'entrata. Dopo essersi inventato un parcheggio più che abusivo, il guidatore si guardò nello specchietto interno. Scosse la testa per risistemare i ciuffi grigi scompigliati che poggiavano alle spalle e li aggiustò con le dita. Co-me nulla fosse scese dall'automobile e si stiracchiò gambe e braccia, troppo lunghe per la piccola e bassa decapottabile. Con una passata energica delle mani si scrollò la sabbia del Sahara dalla giacca di velluto beige. Poi si abbassò a chiudere lo sportello e si avviò verso il museo con un incedere deciso. L'ambulante si velò il viso rugoso con il copricapo e, spingendo il carretto, si accostò alla facciata del palazzo dietro di sé, così da non avere nessuno alle spalle. Si aggiustò meglio il turbante affinché non gli ostacolasse la vista e scrutò ovunque. Oltre a qualche passante locale, c'erano più che altro turisti venuti per ammirare le antichità egizie all'interno del museo. Lasciò passare davanti a sé una coppia che deambulava distratta parlando un inglese dall'accento americano e si accosciò al riparo del suo carro. Infilò le mani tra le pieghe delle vesti che gli arrivavano ai piedi e tirò fuori con aria guardinga uno smartphone di ultima generazione. Compose a memoria un numero che non era salvato fra i contatti della rubrica. - Lo sciacallo è tornato - comunicò l'ambulante in un dialetto nomade.
Due ore dopo, coperto dalla testa ai piedi come un beduino, era ancora là. Chino dietro il suo carretto, vide lo straniero uscire. Come nelle occasioni degli ultimi giorni, lo straniero si rimise alla guida dell'Alfa Romeo e si allontanò sparendo oltre il ponte che attraversava il grande fiume. Il vecchio sbuffò carezzando l'angolo liso di un arazzo che sbucava da sotto tutti gli altri, quello a lui più caro e prezioso. Non dal lato commerciale, non per la sua fattura o per la qualità della materia prima – logora com'era – ma per il valore intrinseco e l'unicità del disegno intessuto. Era differente da tutti gli altri, tanto da rendere unico quell'intreccio antico che per la sua stirpe rappresentava una simbologia occulta tramandata da secoli. Un cimelio di famiglia, non meno importante delle antichità esposte nei vicini musei geologico ed egizio. Per questo lo portava sempre con sé, con una gelosia che non dimostrava neppure per la moglie e le figlie. Smise di carezzare il tessuto non appena una luminescenza s'insinuò da sotto la catasta di tappeti, sul fondo del carretto. Areoporto del Cairo - Tre giorni prima
Era il primo dell'anno e i passeggeri del volo EgyptAir proveniente da Atene erano appena atterrati al Cairo International Airport. Ripresi dalle telecamere di sicurezza, sfilavano in una coda ordinata all'interno del tunnel che collegava l'aeromobile alla prima ala dello scalo internazionale. A mano a mano che si avvicinava ai punti di controllo e al nastro trasportatore per recuperare i bagagli, la fila di passeggeri si scomponeva sempre più. Alcuni si sparpagliavano davanti al nastro, altri facevano sosta alle toilette, pochi tiravano dritto verso l'uscita. Un uomo con completo a strisce scure, come gli occhiali da sole che gli coprivano gli occhi, faceva parte di quest'ultimo gruppo, più sparuto. Da sotto la coppola spuntavano dei capelli brizzolati, mentre una bianca barba incolta contrastava con il colorito olivastro delle guance. Mimetizzandosi con i turisti proseguì a passo blando con il suo anonimo trolley grigio che spingeva con la sinistra. Sull'avambraccio destro sorreggeva un cappotto color cammello. Si guardò nello specchio spia e si sistemò il flat cap sulla testa a mo' di saluto. Ma nessuno della polizia militare al di là del vetro l'aveva notato. Superò alcuni poliziotti in divisa e in borghese con un sorriso stampato in volto. Prima dell'ultima porta che l'avrebbe portato alla sala “Arrivi” passò di fianco a tre uomini della dogana salutando con un cenno del capo. I tre ricambiarono e lui attraversò la porta scorrevole. Mentre la oltrepassava, telecamere di sorveglianza lo inquadrarono.
Ora, a distanza di tre giorni, tre agenti della National Security egiziana appartenenti alla polizia segreta, seduti nello stanzino dell'aeroporto e circondati da monitor, osservavano le stesse immagini coadiuvati dal capo della sicurezza aeroportuale. Il più basso e baffuto era il colonnello Aziz, del GIS, ormai prossimo alla pensione ma non ancora pronto a congedarsi dal più efficiente degli apparati d'intelligence del Cairo. Sbuffava infastidito dal masticare rumoroso di una gomma da parte del tenente Jamal che, fisico da culturista, poteva avere l'età del primogenito di Aziz. Sullo schermo si vedeva il passeggero con la coppola grigia, responsabile della folle corsa nel centro del Cairo quella stessa mattina con il gioiellino dell'Alfa Romeo. Aveva viaggiato con un passaporto francese, lo stesso che aveva esibito all'agenzia Vintage Wedding Car della capitale, dove aveva preso a noleggio la spider scarlatta. Di origine corsa, rispondeva al nome di Jean Paul Navarra – o almeno così riportava il passaporto con cui era entrato in territorio egiziano – e mostrava un fisico asciutto e schiena perfettamente eretta da giovane sportivo. La pelle rugosa attorno al collo tradiva però l'età, attestandola almeno sulla sessantina. Davanti a quelle immagini dell'aeroporto, ormai vecchie di giorni, nessuno fiatò. Navarra aveva abbassato gli occhiali scuri, lo sguardo penetrante, e poi aveva ammiccato strizzando l'occhio verso le telecamere di sicurezza come se avesse voluto burlarsi sfacciatamente di coloro che lo spiavano o l'avrebbero spiato. - Sappiamo che ha fatto quantomeno una triangolazione prima di arrivare qui - spiegava il colonnello del Mukhabarat, l'apparato dei servizi segreti egiziani. - Alcune fonti riferiscono che sia arrivato via terra da Tirana, altre più affidabili dicono in aereo da Parigi, il che sarebbe umiliante per voi. - Non staccava gli occhi dallo schermo, mentre si rivolgeva all'addetto alla sicurezza. - E ora è in giro per l'Egitto, grazie a lei che se l'è fatto passare sotto il naso - affermò sbadigliando con il chewing-gum in bocca il secondo in grado dei tre, il tenente Jamal. Il colonnello gli lanciò un'occhiataccia. Il messaggio era chiaro: finché ci sono io, il capo sono io, comando io e redarguisco io chi dico io. Anche senza bisogno di averlo pronunciato, quell'io che conosceva bene rimbombò nella testa di Jamal che abbassò lo sguardo e si zittì. Mazin, il capo della dogana e sicurezza, assistette allo scambio compiaciuto. Si levò gli occhiali, li adagiò sulla sua pelata e sussurrò: - Ma chi sarebbe in realtà questo tizio per mandarvi qui il Ministro delle Antichità? - Concentrati sulle immagini, nessuno dei tre rispose, finché il più anziano non distolse la vista da quello sguardo tagliente e si alzò di scatto. - Canova, un francese, un russo, uno spagnolo, un italiano... nessuno lo sa con certezza. Un trafficante di opere d'arte, ad ogni modo. - - Un trafficante? - ripeté Mazin incredulo. - Il più grande trafficante di opere d'arte che si conosca - fece Aziz. - Canova? - - È il soprannome con cui è conosciuto e si firma, ispirandosi allo scultore e pittore italiano. Usa passaporti diversi. Si fa chiamare Jean Paul Navarra, un po' Andrii Dimitriy Ivanov, altre volte James Wright o Ralph Edison... ma ha almeno un'altra decina di nomi. - - Nessuno conosce la sua vera identità... se mai ne ha avuta una - disse il tenente Jamal con una ridondanza che infastidiva il suo superiore. Parlando di nomi e identità, il capo della dogana sapeva che anche quelli dei suoi interlocutori erano di fantasia, nomi di copertura, come tutti quelli degli agenti operativi come loro, d'altronde. Il colonnello continuò: - È il più amato e stimato dai collezionisti privati e il più... - Poi esitò un attimo e Jamal ne approfittò: - Il più temuto dalla polizia addetta alla tutela del patrimonio culturale di mezza Europa, se non di mezzo mondo. Altro che “ricercato”. - - È soprattutto un ladro di professione - si riprese la parola Aziz. Ma Jamal insistette senza essere interpellato: - Su di lui aleggia sempre un'aura di mistero. Non solo non si conoscono le sue origini e il suo vero nome, ma nemmeno dove risieda. Nessuno è mai riuscito a incastrarlo. - - Un Lupin, più che un Canova, direi - notò il funzionario dell'aeroporto giocando con i suoi occhiali. - In realtà, una volta i carabinieri italiani l'hanno colto in flagranza di furto. - - Dove? - - In una pinacoteca di Roma, ma un complice è riuscito a intervenire prima dell'arresto - lo corresse il terzo agente, un trentenne preciso e premuroso, schivo e fin troppo ossequioso. - Appunto, bravo Faruq. E tu smettila di dire cazzate, Jamal. E studia se vuoi prendere il mio posto, giovanotto - lo rimproverò come un padre. - Sì, ma la polizia francese sta ancora cercando le prove di un furto sotto i loro occhi a Parigi - obiettò lanciando un'occhiata nauseata al collega modello per via della sua rigida disciplina militare. Il più delle volte era difficile strappargli una risata e Jamal lo considerava uno stomachevole adulatore sottomesso al loro capo. Aziz allargò le narici infastidito, brutto segno. Gli lanciò un'altra frecciata con lo sguardo, ma poi si trattenne. Non aveva più la verve di una volta. Ormai passava più tempo a nascondere l'aria stanca e rassegnata di chi è ormai proiettato più al congedo dalla vita di spia che a lottare come un leone come aveva fatto durante la sua lunga carriera. Per lui quelli erano i suoi ultimi colpi, quella del Canova era forse l'ultima operazione che gli rimaneva da compiere. In realtà, per un agente dei servizi come lui non si trattava mai della conclusione definitiva di un rapporto. Era pur sempre un uomo della polizia militare e sarebbe stato riconvertito quantomeno in un “agente dormiente”. Si limitò a precisare: - Si stima che tra le sue mani siano passati più di mezzo miliardo di dollari in patrimonio artistico da ogni angolo del pianeta. - - E lo lasciano girare indisturbato per l'Europa? - Il direttore alla sicurezza lo disse con uno stupore esagerato, come per stigmatizzare l'operato dei suoi omologhi europei. “Non sono l'unico a esserselo fatto sfuggire, allora.” Il funzionario fece la faccia di chi si sentiva alleggerito di un peso grazie alla regola del mal comune mezzo gaudio. - Per l'Europa? - sogghignò il secondo. - Non hai capito. - Scandì le parole con una punta d'irriverenza: - In-tutto-il-pianeta. - Il funzionario rimase in un silenzio meditabondo. “Un pezzo da novanta. Cazzo, però... che colpaccio avrei fatto. La mia carriera sarebbe schizzata, altro che capo della sicurezza aeroportuale.” - E ora gira anche in Egitto. Specie attorno a musei, ambasciate e residenze di diplomatici. - Mazin abbassò lo sguardo come se fosse sua la colpa di non averlo fermato alla dogana. Aziz storse la bocca. - Comunque è fin troppo scaltro per farsi sorprendere in flagrante, ma per fortuna ora è nei nostri radar. - - Grazie a me che gli ho messo il GPS sotto l'auto - si vantò il tenente. - Tu parli troppo per questo lavoro. Per una volta nella vita comportati come Faruq, cerca di essere obbediente e rispettoso - fece il capo. Ma proprio in quel momento il sergente lo contraddisse. Rimasto a osservare taciturno le immagini registrate, con il corpo affusolato che sovrastava gli altri due, si risvegliò dal silenzio e sussultò. - Guardate là dietro! -
Rocco Luccisano
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