I-Una famiglia bene.
Riuscì con fatica ad aprire in parte l'occhio sinistro. Non distingueva chiaramente i contorni delle cose intorno a lui; si sentiva molto stanco, ma aveva comunque la sensazione di aver dormito per molto tempo. - Ma dove sono? - si chiese. Si accorse di essere pieno di cerotti e attaccato ad un macchinario mediante dei tubi, che gli consentivano, pur a fatica, di respirare. - Devo essere in un ospedale; - pensò, - forse in un reparto di terapia intensiva - . Non riusciva a ricordare cosa gli fosse successo; le ultime vaghe immagini di sé erano quelle di un sonno tormentato in una casa che non era casa sua e poi le sirene di un'ambulanza, la corsa in ospedale. Del passato recente non gli sembrava di ricordare altro. Cosa aveva potuto ridurlo in quello stato? - Mi sarò preso una sbornia colossale o magari mi sarò fatto di qualcosa - erano le prime due spiegazioni che gli venivano in mente. - O forse un incidente... - . Ora, tutto a un tratto, gli sembrava che nella sua mente annebbiata incominciassero a scorrere a velocità incontrollata immagini della sua vita passata; era come se quelle immagini fossero i fotogrammi di un film, ma la cosa strana era che scorrevano a ritroso nel tempo, senza che lui riuscisse a fermarle e a metterle a fuoco. Per un attimo, aveva anche temuto di rivedersi all'interno della pancia di sua madre, in piena gravidanza. Poi ad un tratto: - Carlo, smettila di giocare ai videogiochi! Ci stai giocando da due ore e devi ancora fare i compiti - . - Allora, mi chiamo Carlo - pensò. Quella di lui che giocava con la console dei videogiochi era la prima immagine che si era fermata nella sua mente e ora il film pareva scorrere in avanti a velocità normale. Certo, quella che gli pareva di sentire era la voce di sua madre. Già! Sua madre! Come si chiamava? Ci pensò qualche secondo; Clara, si chiamava Clara. Se la ricordava bene, con i suoi capelli biondi sempre ben pettinati e i lineamenti delicati; proveniva da un'importante famiglia della nobiltà milanese che per secoli aveva avuto forte influenza sulla città di Milano. Era una donna colta; aveva studiato dalle suore e si era laureata in Lettere all'Università Cattolica. Non ricordava che avesse mai lavorato, ma era molto impegnata in attività di beneficenza, a sostegno di alcune fondazioni operanti nel sociale: immigrati, senza tetto e giovani donne vittime di violenza erano l'oggetto delle sue molteplici attività caritative; passava le giornate tra conferenze, raccolte fondi, premiazioni e inaugurazioni. Ad essere sinceri, non ricordava che avesse mai dedicato tanto tempo a lui, specialmente da quando aveva incominciato a saper andare da solo a scuola; in pratica, da quando aveva dieci anni. Del resto, la scuola che frequentava era a un centinaio di metri da casa. La mamma gli voleva bene; magari non lo dimostrava tanto quanto lui avrebbe desiderato, ma senz'altro gli voleva bene. In pratica, si preoccupava quasi esclusivamente dei compiti: fatti quelli, il suo interesse per quello che lui faceva diventava quasi nullo, se non al momento di andare a letto la sera. - Carlo, lavati i denti e vai a dormire; è tardi! - ; era questa l'altra frase che di solito gli rivolgeva. Per la verità, lui non aveva mai avuto eccessivi problemi con i compiti; era abbastanza sveglio da riuscire a farli sempre molto in fretta e anche abbastanza bene, a giudicare dai brillanti risultati che era possibile leggere sulle sue pagelle. Non ricordava di aver mai avuto un particolare rapporto con sua madre. Le sue attività di beneficenza e tutto ciò che ad esse era collegato le occupavano la giornata, così tanto che non le rimaneva molto tempo da dedicare a un figlio. Così, sin da piccolo si era abituato a stare spesso per conto suo; giocava quasi sempre da solo e, ad un certo punto, aveva incominciato a sentirsi in qualche misura autosufficiente. Tutto sommato, gli stava bene che sua madre non lo opprimesse con eccessive attenzioni, come spesso fanno le mamme con i figli, specialmente quando sono piccoli e, per di più, unici. Clara si era sposata qualche anno prima della sua nascita. Diego! Suo padre si chiamava Diego; era un affermato chirurgo, anzi, il primario di una rinomata clinica privata milanese. No, il nome della clinica ora non gli veniva proprio in mente. Diego era stato un brillante studente di medicina e, dopo la laurea, aveva completato a spron battuto il percorso di specializzazione in chirurgia. Aveva trovato posto quasi subito in quella clinica privata e aveva scalato in fretta le gerarchie, perché si era dimostrato fin da subito un valente chirurgo, anche se qualcuno, sicuramente invidioso, aveva malignato sul fatto che avesse avuto anche la brillante idea di fare la corte a Clara e poi sposarla. Il padre di Clara, infatti, era un influente membro del consiglio di amministrazione della clinica ed era stato subito entusiasta del fatto che la figlia aveva legato con quel giovane chirurgo di sicuro avvenire, anche perché la sicurezza di quell'avvenire avrebbe potuto garantirgliela lui. Quest'ultima considerazione era quella che qualche volta gli era capitato di sentire dalle solite malelingue. Suo padre passava molto tempo in clinica; in certi giorni restava anche per quindici ore in sala operatoria e, quando tornava a casa, di solito era abbastanza stanco, anche se non disdegnava di uscire a cena con moglie e amici. Per il suo unico figlio non gli rimaneva molto tempo, anche se riparava a modo suo, accontentandolo in tutte le sue richieste. Il massimo del suo interesse per lui consisteva nel chiedere alla moglie se ‘Carlo avesse fatto i compiti' e, poiché su quel fronte non c'erano particolari problemi, la pratica poteva considerarsi chiusa. Ora, mentre era bloccato in quel letto di ospedale, il film della sua vita gli presentava le immagini del periodo universitario. - Per l'autorità conferitami dal Magnifico Rettore, la proclamo Dottore in Economia e Finanza - aveva detto enfaticamente il presidente della commissione, alla presenza dei suoi genitori, il giorno della sua laurea. Era stato un giorno importante quello; i suoi sembravano molto orgogliosi di lui e, in effetti, quella era una tappa importante della sua vita, anche se lui non riusciva ad entusiasmarsene più di tanto. Pochi mesi dopo, era partito per frequentare un master in finanza internazionale ad Harvard; la sua famiglia poteva permetterselo e lui non si era fatto sfuggire l'occasione. Durante il master aveva anche legato molto con un ragazzo colombiano; si chiamava ... José Rodriguez. José, oltre a sembrare di famiglia benestante come lui, praticava il football americano, una specie di parente a stelle e strisce del rugby; era di Cartagena o almeno così gli aveva detto. Josè parlava discretamente l'italiano e quindi avevano concordato di utilizzarlo in luogo dell'inglese per comunicare tra loro. Avevano incominciato a frequentare insieme gli allenamenti di una squadra universitaria locale e poi avevano anche partecipato a qualche partita. Tra loro si era consolidata una certa sintonia personale: frequentavano insieme le lezioni del master, condividevano l'euforia fisica delle partite di football americano e, non di rado, anche qualche avventura amorosa. José non amava parlare molto della sua famiglia e della sua vita privata in Colombia. Era sempre molto avaro di particolari, quando il discorso scivolava su quegli argomenti; era come se avesse qualcosa di cui non voleva fargli conoscere troppi dettagli. Carlo ricordava di avergli anche chiesto come mai fosse così reticente sulla sua vita privata. José gli aveva rivolto uno strano sguardo gelido e inespressivo e poi gli aveva detto: - Nella mia vita in Colombia non c'è nulla che meriti la tua attenzione - . Lui non era più tornato sull'argomento. In fondo non gli interessava davvero conoscere meglio la vita privata di José; quel periodo del master sarebbe stato solo una parentesi della sua vita, che, prima o poi, si sarebbe chiusa. Poi il master era terminato. Carlo aveva dato i suoi recapiti a José e lui aveva fatto altrettanto; era tornato a Milano e per alcuni anni non si erano più rivisti né sentiti.
José, per parte sua, era tornato a Cartagena. All'aeroporto Rafael Nunez un addetto ai controlli a terra lo aveva salutato con un cenno deferente alla base della scaletta dell'aereo; poi lo aveva scortato con discrezione fino a una macchina che sostava poco distante. José era salito sul sedile posteriore e la macchina si era avviata verso la città, lasciando l'aeroporto da un'uscita secondaria. Circa mezz'ora dopo, due uomini, all'ingresso di una grande villa bianca alla periferia di Cartagena, si erano affrettati ad aprirne il cancello; la macchina aveva proseguito sino al portico all'ingresso della villa. - Bentornato, don José! - , lo aveva salutato Ramòn Diaz, il suo segretario-factotum. José era entrato.
Sabino Napolitano
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