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Autore: Anna Lucia Legrottaglie
Con la speranza nel cuore
Autobiografia
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Con la speranza nel cuore
Prefazione

Per lungo tempo la mia mente si è rifiutata di ricordare il passato, forse per difesa contro una sofferenza protrattasi per innumerevoli anni, per paura che essa potesse riaffiorare distruggendo l'equilibrio che con fatica ero riuscita a costruire attorno a me e nel mio cuore. Ma riflettendo, parlando con la gente, interrogando me stessa, sono giunta alla conclusione che, raccontando la mia vita, avrei incoraggiato chi soffre, fisicamente e moralmente, a credere nei sogni e che la vita è comunque bella e merita di essere vissuta appieno. Se con questo mio scritto avrò fatto breccia nei cuori aprendoli alla speranza, avrò raggiunto il mio scopo.

La mia nascita

Sono nata il 17 marzo 1978 a Fasano di Brindisi, nella bellissima Puglia, dopo una gravidanza difficile. Alla nascita pesavo quattro chili e trecento grammi, in realtà ero gonfia di liquidi per le flebo che avevano fatto a mia madre, che ormai non si alimentava quasi più naturalmente. Il parto fu traumatico e doloroso, ma ancora più doloroso fu aver dato alla luce una creatura e non averla avuta subito tra le braccia, così come le mamme normalmente hanno la gioia di fare. Mi portarono via. Appena uno sguardo fugace di mia madre, stremata, verso di me, avvolta in un lenzuolino bianco. Lei che chiedeva come stesse la sua bambina e loro, le infermiere, che le dicevano che era tutto apposto, che stavo bene. Fui subito portata nel reparto pediatrico, dove per qualche giorno tanti medici si presero cura di me. Restai lì, in una culla, senza poter sentire l'abbraccio di chi mi aveva messa al mondo. Mia madre, priva di forze, con un trauma post-parto al bacino, quasi inerme, era estremamente vogliosa di vedermi. La forza di volontà fu più potente di quella fisica e finalmente, aiutata da mio padre a mettersi in piedi, venne a trovarmi. Non ero una bambina sana, il mio corpo era completamente ricoperto da ustioni di terzo grado (così apparivano a prima vista). Furono innumerevoli le domande dei miei genitori, a cui seguirono mezze risposte. Cosa era accaduto e perché? Per la prima volta scoprivo l'abbraccio di mia madre e lei mi sussurrò: - Ora non ti lascio più! - . Ricambiai con un profondo sospiro, mettendole la mia gracile manina sul petto. Credo di aver capito in quel preciso istante che non sarei più stata sola. Mio padre era lì, sconvolto, incredulo. Non riusciva ad esprimere il dolore che provava, non riusciva nemmeno a prendermi tra le braccia per paura di farmi male. Era troppo delicata la sua bimba, inaspettata ma comunque desiderata. Ero nata dodici anni dopo il mio secondo fratello. Sì, perché avevo già due fratelli, sani e belli. La gioia per la nascita di una femminuccia si contrapponeva al dolore per il mio stato di salute. Balenavano prepotenti i dubbi, le domande, soprattutto in mia madre. Lei che aveva trascorso a letto l'intera gravidanza... Nel luglio del 1977 cominciò il suo calvario, quando fu sottoposta a radiazioni a scopo diagnostico, senza alcuna protezione e nessun mezzo di contrasto. Alla tredicesima esposizione, mia madre svenne. Io ero dentro di lei, ma nessuno aveva eseguito il test di gravidanza, nonostante lei avesse fatto presente il suo ritardo. Il banalissimo test fu eseguito soltanto il giorno successivo all'esposizione alle radiazioni. Troppo tardi, poche ore prima, e la mia vita sarebbe stata diversa. Successivamente mia madre si sottopose a visita ginecologica. Sulle prime il ginecologo, apprendendo dei raggi X, sobbalzò, arrecando preoccupazioni immediate in mia madre, la quale si disse disposta a interrompere la gravidanza se le radiazioni avessero danneggiato il feto. Ma lui prontamente le rispose che non sarebbe intervenuto, né per arrestare, né per favorire la gravidanza, perché se le radiazioni avessero intaccato il feto, a suo avviso, si sarebbe interrotta spontaneamente. La gravidanza andò avanti, come andarono avanti le visite di controllo presso il medesimo ginecologo. Ai sei mesi di gravidanza mia madre appariva deperita e il medico la ricoverò per alimentarla tramite flebo e ricostituenti. I successivi tre mesi furono ancora più difficili per lei, fisicamente e moralmente, ma anche per il resto della famiglia. C'era solo la speranza che dopo la mia nascita tutto tornasse a posto, come le dicevano per rassicurarla. Il che non avvenne.

La prima diagnosi

Da quel 17 marzo fu come chiudere una finestra al vento ed aprire un portone alla burrasca. Il dottor Scianaro del reparto pediatria dell'ospedale di Fasano, fece tutto quel che era nelle sue possibilità nel periodo immediatamente successivo alla mia nascita, per alleviare il mio grave stato, confrontandosi con i medici del reparto dermatologico del Policlinico di Bari, il professor Bonifazi e la dottoressa Garofalo. Decisero di trasferirmi inizialmente presso il reparto asettico di Bari, tenendomi in incubatrice per cercare di seccare le ferite sparse sul corpo e per evitare infezioni. Nel frattempo, sia io che i miei genitori, venimmo sottoposti ad innumerevoli analisi. Gli esiti? Ero sana, come lo erano i miei genitori, non vi era alcuna ereditarietà. Nel reparto di dermatologia mi fu diagnosticata una - Dermatite Bollosa Desquamativa - comune, e comunque ancora da definire correttamente. liclinico di Bari. Dopo un periodo di allontanamento da mia madre, lei tornò a starmi accanto e cominciò anche ad occuparsi di me, delle mie medicazioni, perché io, come diceva la suora del reparto dermatologico, suor Luisa, avevo un problema che si sarebbe protratto nel tempo e quindi necessitavo delle sue costanti attenzioni. E lei, la - mamma coraggio - come tutti la definivano, si rimboccò le maniche e, tra le mie lacrime e le mie urla, mi accudì standomi sempre accanto. Mio padre, nel frattempo, si occupava dei miei fratelli, Vito e Angelo, allora appena adolescenti. Per quattro anni vissi tra casa mia e la Clinica Dermatologica. Le ricadute bollose si ripresentavano spesso ed erano dolorose. Mia madre, essendo dipendente del locale ospedale, doveva chiedere un permesso ogni volta che avevo bisogno di ricovero. Ciò comportava il malcontento di alcuni ma, per fortuna, anche la coscienziosa sensibilità di altri, sempre disponibili a comprendere la situazione. Mi tenevano costantemente sotto controllo. Verificarono le strane fasi della mia anomala cute. Si trattava di una mutazione genetica spontanea, avvenuta durante il concepimento, che aveva in un certo senso fatto - impazzire - le mie cellule cutanee, le quali si riproducevano velocemente ed altrettanto velocemente morivano. Un susseguirsi continuo ed incessante. E poi c'erano le bolle, le cosiddette - eruzioni cutanee - , le più dolorose e meno piacevoli da sopportare. Credo che mai riuscirò a dimenticare tale dolore fisico. La disperazione intanto pervadeva sempre più i cuori dei miei familiari. Lottare contro qualcosa a loro sconosciuta, inattesa, non era per nulla semplice. Restava però l'inossidabile fede che mai, in alcun momento, li aveva abbandonati. Sempre in quel periodo, decisero di portarmi a San Giovanni Rotondo per pregare davanti al corpo di Padre Pio da Pietrelcina. C'erano numerosi fedeli concentrati in preghiera. L'atmosfera era sublime, avvolgente. Io ero lì, accanto a mia madre, avvolta in fasce che ricoprivano corpo e mani. Non so cosa la mia mente abbia potuto pensare in quella circostanza, quale profonda emozione mi abbia attraversata. So soltanto, tramite i racconti di mia madre, che a voce alta ad un certo punto esclamai, indicando il Santo: - Anche lui ha la bua alle manine come me! - . La gente che mi stava intorno mi guardò immediatamente e cominciò a piangere, pregando anche per me. Il rientro a casa non fu piacevole. Mi riempii di bolle fin nei punti più delicati. In auto mi stesero sul sedile posteriore, mentre mia madre occupava un piccolo spazio accanto a me che piangevo disperata. Le mie notti erano insonni. Piangevo continuamente, un po' per il prurito che mi perseguitava, un po' per il dolore che le bolle mi causavano. Insomma, non permettevo di riposare e di avere un po' di quiete neanche alla mia famiglia e, chissà, probabilmente anche allora avevo i miei piccoli sensi di colpa nella parte più recondita del cuore. Mia madre ogni mattina doveva destarsi molto presto per recarsi al lavoro. Dormiva talmente poco che non so con quali forze riusciva a buttarsi giù dal letto. Durante la sua assenza, con me restava una sua cara zia, zia Nunna (così la chiamavamo tutti), che mi teneva d'occhio, mi cullava, mi accudiva. Era ipovedente, quindi spesso, per paura di farmi male, chiamava uno dei miei fratelli che giocava nello spiazzo sottostante alla nostra abitazione. Di corsa Angelo si precipitava in casa e, con accurata delicatezza, si prodigava a cambiarmi e cercava di farmi sorridere, così come faceva mio fratello Vito nei ritagli di tempo a disposizione, perché già allora lavorava, oltre che frequentare la scuola. Mio padre svolgeva lavori saltuari e si preoccupava di comperare tutto quello che occorreva per le mie continue medicazioni, e non si trattava di poche cose! Ogni giorno, per varie volte, creme, garze, reti, aghi sterili erano le cose che più vedevo, quello che costantemente faceva parte della mia vita quotidiana ancor più di bambole e giochi. Le bambole poi, quando le avevo tra le mani, le imbrattavo di pomate e le fasciavo con garze. E cos'altro avrei potuto fare? Era la realtà che vivevo e la trasmettevo e trasferivo su ciò che mi veniva dato per giocare. Dopo averle - medicate - , le accarezzavo e le rassicuravo che la - bua - sarebbe passata presto. Le vestivo di garze, proprio come me. Sì, perché io non venivo vestita per via delle ferite. Solo in pochi momenti ero abbigliata, per poter fare qualche foto che ricordasse la mia immagine di bimba. Rivedendole oggi, quelle foto, dal mio sguardo traspariva sempre una velatura di sofferenza, mai quella giocosa spensieratezza che l'infanzia normalmente regala o dovrebbe regalare. C'era il calore poi, un terrore vero e proprio per me. Sin da piccolina camminavo timorosa a distanza di una piccola stufa che avevamo in casa, quella stufa che costituiva il riscaldamento e veniva spostata di camera in camera. Era grande la casa e d'inverno molto fredda. Io però percepivo quella fonte di calore come mia nemica e mai ho avuto l'ingenua curiosità di avvicinarmi a quell'apparecchio, anzi! Tuttora non sopporto il calore, sia corporeo che climatico. Evitarlo è quel che più devo fare, altrimenti si presentano le temute bolle ed erosioni cutanee da farmi star male non so dire quanto. Evitarlo significa anche rinunciare al sole, alle belle giornate estive, al mare... mare che adoro! Queste e altre rinunce, ben più rilevanti, mi hanno indotto a definire la mia vita come - sopravvivenza - . A volte mi sento in colpa perché penso che le mie limitazioni hanno condizionato anche la mia famiglia. Ad esempio, i miei familiari hanno sempre rinunciato al mare dicendo che a loro non piaceva andarci, ma in realtà cercavano solo di non farmi soffrire più di quanto già non facessi. Già allora mi rendevo conto di avere dei genitori e dei fratelli veramente speciali. Genitori che non solo si sono prodigati per me notte e giorno, ma che hanno anche sacrificato le loro esigenze per me: i miei fratelli hanno dovuto lasciare gli studi perché urgeva aiutare la famiglia, lavorando sin da ragazzini con dignità, colmandomi di tutto l'affetto possibile, senza mai farmi pesare la difficile situazione da me involontariamente determinata.

Il viaggio bella speranza

Il tempo intanto trascorreva. I ricoveri erano sempre più frequenti e nessuna miglioria appariva sul mio corpicino. I miei genitori desideravano con tutte le loro forze alleviare le mie sofferenze e chiedevano qua e là per poter trovare una cura. La prima tappa in cerca di speranza, ci venne consigliata dalla sorella di mia madre, zia Anna, la quale viveva a Venezia con suo marito e le sue quattro figlie, ormai da tanti anni. Si trattava di un centro a Mirano. Così partimmo, io avevo circa quattro anni, e fui ricoverata con mia madre, perché potesse starmi accanto, come del resto faceva anche durante i miei frequenti ricoveri presso il Policlinico di Bari. Io ero la principessa del reparto perché la paziente più piccola ed anche la più grave. Ogni mattina arrivava un'infermiera con dei fiori o con dei regalini per me, ma tutto ciò non alleviava il dolore che mi pervadeva. Il dottore della clinica mi curò con estrema attenzione e gentilezza e all'inizio ebbi una certa miglioria, grazie a dei trattamenti esterni con pomate a base di acido salicilico, impacchi e bendaggio occlusivo su tutto il corpo. Mia madre era impegnata tutto il giorno con me, ma non poteva continuare a starmi vicina, non poteva abbandonare il suo lavoro in ospedale a Fasano. In clinica ormai avevano fatto tutto quello che era nelle loro possibilità per curarmi e decisero di dimettermi. Essendo arrivata l'estate, il dottore ci consigliò di non tornare a casa in treno, poiché il disagio di un viaggio così lungo mi avrebbe procurato bolle ed erosioni sanguinolente. La diagnosi fu la stessa che avevano fatto a Bari: - Ittiosi eritrodermica bollosa - , provocata da cause sconosciute. Tuttavia i miei genitori non avevano rinunciato all'idea di risalire alle cause di tale malattia, continuando a nutrire il sospetto che essa fosse stata provocata dai raggi X a cui si era sottoposta mia madre, inconsapevole di essere incinta. Tornammo a casa in aereo e per qualche giorno ancora continuai a star meglio. Sempre nel tentativo di trovare nuove cure, nuove possibilità di alleviare le mie pene, mia madre si rivolse ad un dermatologo di sua conoscenza, il dottor Fanelli che, vedendo la disperazione scolpita sul suo volto, le consigliò di consultare uno specialista di fama in Abruzzo. Gli fu portata tutta la documentazione possibile, incluso il referto della colangiografia subita da mia madre nei primi quaranta giorni di gravidanza. Lo scopo era quello di risalire alla causa, ciò non di certo per nuocere a qualcuno. Ovviamente trovare la causa avrebbe facilitato la ricerca della giusta terapia. Il dermatologo abruzzese, sin dall'inizio apparve mortificato. Esclamò: - Il caso è grave! - , non escludendo, ma nemmeno confermando, eventuali possibili danni causati dal mezzo di contrasto dei raggi X. La sua cautela mirava anche a evitare di tirare in ballo la responsabilità di colleghi. Nessuna causa era esclusa, nulla era chiaro, le cure erano solo un susseguirsi di tentativi. Un giorno sembrava ci fossero delle piccole migliorie, il giorno successivo ripiombavo nelle ricadute, sempre più dolorose, sempre pronte a devastarmi il corpo. Il prurito mi lacerava, con conseguente dolore. Mia madre era lì, ogni notte, a controllare che grattandomi con le mie piccole manine non mi creassi lacerazioni. Lo sconforto assaliva i miei genitori, ma non volevano arrendersi, non potevano! La ricerca di una cura era per loro doverosa, nonostante la speranza vacillasse e sfiorisse in alcuni momenti. In seguito ci giunsero voci di centri specializzati a Roma, Milano e Zurigo. Il coraggio e la speranza ripresero vigore nei miei genitori, i quali cercarono di organizzarsi in modo tale da fare un unico itinerario che li portasse alle tre tappe, soprattutto per non penalizzare il lavoro di mia madre. Finalmente nuove valutazioni sarebbero emerse, o almeno così si sperava ardentemente. La tappa in Svizzera, presso una clinica privata, prevedeva però delle spese. Servivano fondi cospicui, di cui non disponevamo. Per tale motivo, per venirci incontro, l'avvocato Martellotta si prodigò nel richiedere alla Regione Puglia che si accollasse le spese. Così partimmo alle volte della prima tappa: Roma. Qui, in una clinica gestita da monaci, andammo incontro all'ennesima delusione, seguita dalla solita esclamazione: - Il caso è grave! -

Anna Lucia Legrottaglie

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