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Autore: Christian Martinelli
Melbor dei Draghi
Fantasy
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Melbor dei Draghi
Windfall.

La città di Windfall era una delle più grandi e prosperose del regno; si trovava a una ventina di giorni di viaggio dalla capitale, in direzione sud-sud-est. Il feudo era bagnato dal mare su tre lati, rendendo la provincia, di fatto, una penisola. Il castello si trovava sulla sommità di una dolce collina e lungo le delicate sponde nasceva una cittadina rigogliosa, ricca di mercati, locande ed empori. Si diceva che la popolazione fosse la più gioiosa dell'intero regno e tra le più ricche grazie anche ai proventi dati dalla vicinanza del mare. Eppure, quando Melbor ebbe scavalcato le guardie addormentate per entrare in città, nulla era come se lo aspettava.
Attraversate le porte si trovò sulla strada che portava a una delle piazze della città: ce n'erano quattro, ognuna posizionata verso uno dei punti cardinali e ognuna dotata delle proprie porte urbiche. Le piazze erano collegate dalla strada principale che si snodava tra le case formando un anello irregolare che circondava la seconda cinta muraria. Dall'anello poi nascevano un'innumerevole quantità di passi e sentieri, i quali formavano una complicata ragnatela che collegava ogni abitazione, negozio, bagno pubblico o tempio. Infine, dalle due piazze principali, quella a nord e quella a sud, nasceva un'ulteriore strada che attraversava la seconda cinta entrando nel castello. Melbor giunse alla piazza nord che era già buio. Era già stato nella fiorente cittadella di Windfall quand'era ancora un bambino, circa otto o nove anni prima. La ricordava rumorosa, affollata da un quantitativo enorme di persone, invasa dall'odore di spezie e pesce, riempita dal tramestio dei mercanti dietro le bancarelle, dei bardi che cantavano le epopee di giovani eroi, dei locandieri che offrivano buona birra e letti comodi e dei cavalieri ubriachi che urlavano e si prendevano a cazzotti. Eppure, davanti ai suoi occhi, appariva una città vuota, barricata nelle abitazioni, silenziosa come un tumulo e priva dell'allegria che ricordava. Le uniche persone che si trovavano per strada, schive e frettolose, si limitavano ad acquistare i generi alimentari indispensabili da bancarelle logorate dal tempo e dall'incuria, per poi correre nuovamente in casa, impauriti.
Melbor si guardava intorno, incuriosito dal comportamento di quelle persone; il suo compito era quello di trovare il ragazzo e condurlo al cospetto del re, ma sarebbe stato difficile senza nessuno a cui chiedere. Oltretutto non sapeva molto su di lui giacché il re era stato piuttosto evasivo sul suo conto; conosceva unicamente il nome, Kantor, e quale fosse, più o meno, il suo aspetto fisico.
Camminò per una trentina di minuti ispezionando le quattro piazze della città; tutte versavano nelle stesse condizioni. Le persone evadevano il suo sguardo interrogativo dileguandosi il più velocemente possibile dopo aver sbrigato le proprie faccende. Più volte fu costretto a nascondersi da gruppi di guardie che perlustravano le vie della città e non era il solo: vide un'anziana signora lasciare a un fruttivendolo il suo resto per congedarsi rapidamente all'arrivo della pattuglia e bambini che, interrotto il loro timido rincorrersi dall'arrivo di un gruppo di soldati, scappavano verso casa con la coda tra le gambe. Gli stessi mercanti erano spaventati dal loro passaggio: sebbene fossero costretti a restare dietro alle loro bancarelle per guadagnarsi da vivere. Al passaggio dei plotoni, chinavano la testa cercando di eludere i loro sguardi.
“Dove sono finiti i banchetti pubblici, le ballate attorno ai focolari, le feste e la musica che popolavano la notte di quella cittadina?” Melbor non sapeva rispondere.
Camminò in quella silenziosa oscurità ancora per alcuni minuti quando, passando accanto a una locanda, il profumo della carne arrostita lo convinse a entrare. L'insegna in legno, appesa a un chiodo sopra alla porta d'ingresso, riportava un bassorilievo raffigurante un uomo con le orecchie a punta e il viso piegato in un'espressione di sfida; sotto di esso la scritta “All'elfo impertinente”. Quando aprì la porta un chiacchiericcio allegro investì il cavaliere: una luce soffusa, proveniente dal fuoco acceso al centro della stanza, illuminava decine e decine di uomini e donne, seduti ognuno al proprio tavolo, impegnati a bere birra scura e a ridere a squarciagola. Il rumore delle risate incontrollate rimbombava sulle volte in pietra del soffitto trasformando la gioiosa confusione in un baccano assordante. Dietro a un bancone in legno, carico di formaggi, pasticci, timballi di carne e dolci da forno, un uomo magro e alto era impegnato a spillare birra riempiendo un boccale dietro l'altro. Al suo fianco una donna bella, giovane, con lunghi capelli biondi raccolti in una treccia, lavava i boccali sporchi, incassava il denaro e intratteneva tre uomini seduti su altrettanti sgabelli lì vicino con un ragionamento sullo scarso raccolto di orzo che avrebbe presto fatto impennare il prezzo della birra; inutile dire che i tre uomini erano troppo impegnati a osservare il prosperoso seno della giovane donna e a ridacchiare tra loro per seguire il discorso. La scena era in completa dissonanza con ciò che aveva visto fino a quel momento. Melbor decise quindi di avanzare tra i tavoli e le sedie cercando di evitare i movimenti improvvisi dei commensali e i boccali che senza preavviso venivano alzati in aria per un brindisi. Fu costretto a scavalcare il corpo di un uomo steso a terra dall'alcol e a sorreggere una donna che, troppo ubriaca, stava per cadergli addosso. In prossimità del focolare, il quale, crepitando, lanciava bagliori gialli e rossi che giocavano a rincorrersi sui volti dei presenti, una giovane dama di compagnia lo avvicinò offrendo, con uno sguardo tanto procace quanto eloquente, i suoi servigi; il cavaliere la superò, ignorandola, e giunse finalmente al bancone.
- Una birra, per favore - esclamò Melbor appena si fu accomodato su uno degli sgabelli.
- Arriva subito, ser! - rispose prontamente il locandiere posizionando un nuovo boccale sotto al flusso di birra. Era un uomo di mezza età con i capelli sbarazzini neri e gli occhi verdi come gli smeraldi. La tunica azzurra, ricca di ricami e bordi dorati, esprimeva eloquentemente gli ottimi affari della locanda. Appeso alla cintura in cuoio, che teneva chiusa la tunica, pendeva il fodero di un lungo coltello necessario per scoraggiare eventuali piantagrane.
- Ho legato il mio cavallo a uno dei vostri anelli; spero non vi dispiaccia. Avrei voluto portarlo in una stalla e farlo strigliare, ma la città sembra deserta - .
- Nessun problema, ser. Ormai va così da queste parti; siete stato fortunato a incappare nell'unica locanda aperta - rispose il locandiere. Melbor lo guardò stupefatto. “L'unica?”; non fece in tempo a trasformare quel pensiero in una domanda poiché il locandiere posò davanti al suo naso un grosso boccale di birra strabordante di schiuma che colava fuori fino a bagnare il bancone.
- Il mio nome è Melbor - disse il cavaliere a mo' di ringraziamento mentre liberava la mano destra dall'armatura e la tendeva al locandiere.
- Rector - rispose lui afferrandogli la mano; poi, indicando la donna dalla lunga treccia bionda e dal seno prosperoso - e questa è mia moglie Tanya - . La bella donna distolse lo sguardo dai tre allegri uomini e lo salutò cortesemente; Melbor fece lo stesso.
- Vi trovate qui per qualche incarico? - chiese Rector, che subito dopo si portò una mano alla bocca temendo di essere stato troppo sfrontato - Ser - aggiunse subito. Melbor trangugiò una poderosa sorsata di birra, si asciugò le labbra con il palmo della mano, sorrise allegramente e infine disse:
- Non vi preoccupate buon uomo, non sono così legato all'etichetta. - Il cavaliere bevve un altro grosso sorso di birra e posò il boccale sul banco; poi, indicando Rector con un dito, rispose alla domanda - In effetti sono qui per un incarico e voi potreste essermi d'aiuto - ,
- Io? Ne siete sicuro? -
- Sicuro, certo! Sono alla ricerca di un ragazzo di nome Kantor, è lo stesso re che mi ha chiesto... - ; Melbor si interruppe. Il viso di Rector si era contratto in una smorfia di sorpresa e il suo corpo era stato attraversato da un tremito che gli aveva fatto cadere dalla mano il boccale pieno a metà. Il flusso di birra, instancabile, si stava ora rovesciando sul pavimento e Tanya si affrettò ad arrestarlo.
- Il re? - bisbigliò Rector con voce tremante guardando il cavaliere dritto negli occhi; sembrava impaurito o speranzoso, era difficile capirlo - Intendete dire che siete un cavaliere dello spirito sacro? - .
- In effetti ne sono il capitano! - rispose Melbor guardando il locandiere e interrogandosi sul suo comportamento. Rector chinò il capo, mesto e disse alla moglie di fare lo stesso.
- Chiediamo umilmente perdono, signore - . L'aria di festa s'era raggelata e il silenzio ora gravava sui volti attoniti dei presenti. Melbor si guardò attorno: tutti i commensali si erano immobilizzati e tendevano attentamente le orecchie verso il banco. Con un lungo sorso svuotò il boccale; il suo volto era sereno, attraversato da un sorriso candido e spontaneo. Sbatté il boccale sul banco e si voltò verso la coppia, allungò le sue mani e sollevò il viso di entrambi, guardandoli con i suoi occhi azzurri come il mare. I loro volti iniziarono ad ammorbidirsi e le labbra si piegarono in un sorriso sempre più evidente. Entrambi, infine, scoppiarono in una fragorosa risata provocata dalla faccia buffa del cavaliere che, per alleggerire la tensione del momento, aveva piegato le sue labbra in una smorfia distorta. Le risa contagiarono l'intero locale e i commensali ricominciarono a brindare allegramente, ma una voce potente mise nuovamente fine alla festa.
- Baggianate! - . Da una sedia posta in un angolo scuro della locanda, lentamente si alzò una figura colossale. Le scaglie dell'armatura tintinnarono e scricchiolarono seguendo i movimenti dell'uomo che si avvicinava al bancone. La luce del fuoco illuminò la lunga barba rossa, la pelle scura e bruciata dal sole, gli occhi neri come la pece e il volto duro di un vecchio cavaliere. Era alto, molto più alto di tutti i presenti, e così grosso che, man mano che si avvicinava al fuoco, la sua ombra gettava nell'oblio la zona del bancone e chiunque vi stesse stazionando.

Christian Martinelli

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