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Autore: Luigi Randaccio
A tavola con Faust
Saggio Satirico
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A tavola con Faust
Gli affamatori.

Da un imprecisato tempo a questa parte, ovvero da quando comparvero vere e proprie rivelazioni del verbo salutista, il fenomeno della morigeratezza ha preso piede travolgendo un po' tutto, a volte anche quell'istinto insopprimibile del buon senso, che nella normalità dovrebbe prevalere rispetto a calcoli e tabelle inconfutabili, certamente, ma solo dal punto di vista matematico.

Non per niente il vecchio proverbio “uccide più la gola che la spada” è un enunciato talmente valido da comprendere nella sua brevità tutto il sapere scientifico sull'alimentazione. Da lì, però, ad arrivare a far passare il tiro della cinghia per un valore imprescindibile o una moda corrente, ne corre assai.

Purtroppo abbiamo tutti sotto gli occhi quello che sta accadendo per questa nuova idea di rapporto con l'alimentazione, imposta a suono di trombe di Gerico da questa new-age della tavola, ma anche della divulgazione, quindi anche della cultura (mass-media e scuola compresi) in modo a volte superficiale e confuso, se non in malafede.

L'educazione tutta, nel suo insieme, sta mettendo in atto un processo revisionistico che in superficie ne modifica la sagoma esterna da rendersi a tratti irriconoscibile, ma facendo sostanzialmente rimanere l'impianto uguale a prima: continua con la medesima ossatura di sostegno e i limiti che ne derivano (ovvero si fa prima a citare la frase di Tancredi ne Il Gattopardo: “cambiare tutto perché niente cambi”).

Il risultato del “rinnovamento” di questi ultimi anni porta quindi a vedere strani fenomeni spacciati per modernità, quali le rivisitazioni dell'ultra Nouvelle Cuisine a base di razioni contenenti un tortello singolo del diametro non di un ombelico di donna giovane (si spera anche bella), ma solo un po' più grande, come quello di un vecchiaccio in sovrappeso come me. Comunque sfacciatamente poco, specie se posto nel centro di un piatto piano dalle dimensioni di un sombrero, in compagnia di una foglia di prezzemolo messa elegantemente a lato insieme a uno scarabocchio di sugo sul bordo... et-voilà: più che un vezzo artistico da biennale di Venezia, pare la firma di un medico o quella di un notaio. Per dirimere comunque il dubbio se una roba del genere è più accomunabile a un'opera d'avanguardia o una visita specialistica piuttosto che un rogito, basta avere come riferimento il grado di salagione del conto, foriero pure di una possibile impennata alla pressione sanguigna, anche senza la presenza del cloruro di sodio o dell'effetto da sindrome di Stendhal.

Nella fase prodromica di questa debacle dell'ultima frontiera nell'arte spudorata, già i media stessi diedero molto rilievo alla frase di un imbrattatele d'avanguardia di una certa età, che al tavolo di un ristorante, in compagnia di una giovane bonazza (si spera altrettanto generosa), forse per far colpo su di lei, ordinò al cameriere di voler mangiare qualunque cosa, purché fosse buonissima, pochissima e carissima.

Ecco... me l'aspettavo! Già allora, da quando diedero importanza e amplificarono una trovata del genere, inferiore per intelligenza soltanto alla “merda d'autore” in lattina, immaginai a che punto siamo arrivati: oramai basta sdoganare qualunque cosa che spacci l'assoluto contrario per innovazione (e succede in tutti i campi nessuno escluso, a parte quello santo) e che nonostante non goda granché di apprezzamento è l'unica realtà ferma con la quale dovremo misurarci.

Gli iconoclasti di ogni ben di Dio, mossi da un confuso spirito innovatore, hanno messo all'indice, e continuano a farlo, anche gli alimenti base che fino a ora hanno sfamato l'umanità. Sebbene a volte con fondate ma piuttosto superficiali ragioni, ormai privi di freni inibitori, si sono scatenati demonizzando pressoché tutto e, guarda che combinazione, tutto ciò che può dare un certo piacere a tavola.

Si è aperta così la porta a una ortoressia diffusa che nell'immediato non porta certo danni visibili alle persone, anzi, forse le farà vivere clinicamente sane, ma da perenni malate con diete da fare invidia ai convalescenziari. Per cosa poi? Per consentirgli di morire sane?

Benché costoro muniti di prove da laboratorio dimostrino che certi grassi, certi zuccheri, certi cibi e bevande potrebbero far male all'organismo, si dimenticano però di dire che il tutto è regolabile dalla moderatezza e dal buon senso: preziosi fattori presenti in molti organismi pensanti, non per tutti evidentemente, soprattutto quando la prima si trasforma in una caccia alle streghe.

Quando da bambino frequentavo le scuole primarie non godevo certo della refezione scolastica, pranzavo a casa, pure a un'ora decente, cosa che si possono scordare ora quelli che non godono di tale servizio. Di giorno in giorno, di anno in anno, mangiavo qualunque cosa di quel po' che la mia famiglia si poteva permettere. Mi accontentavo e seguivo comunque una dieta abbastanza varia, a base di piatti più che discreti sia dal punto di vista nutrizionale che organolettico, anche se le carni scarseggiavano.

Da allora non ho cambiato le mie abitudini alimentari e, salvo qualche piccolo incidente di percorso, sono ancora vivo, con referti degli esami ematochimici nella norma per l'età di 66 anni, nonostante avessi aggiunto, poi da grande, anche vini o birre nel consumo giornaliero. Occasionalmente pure i super alcolici, ma a dosi ovviamente moderate. Ora i bambini godono della mensa a scuola e a seguito del trend di questi anni rispetto a quelli precedenti, in apparenza dovrebbero mangiare meglio. Eppure sono convinto del contrario: il tocco mortificante ma salvifico dell'espiazione anticipata al peccato ha purtroppo raggiunto anche quell'ambiente, rintuzzando più o meno benevolmente ogni licenza del gusto e la gioia del vivere tipica dei giovanissimi. Mi sono giunte all'orecchio lamentele di giovani madri per l'esagerata drasticità nelle diete, alle quali i propri figli devono sottostare per godere del servizio di refezione: mai patatine fritte, per carità! Solo verdura cotta al vapore, preferibilmente la meno saporita e tassativamente senza sale, condita con un filo d'olio immacolato, sempre vergine d'oliva; filetti di platesse oceaniche da gusto 0, non certo il km.

Così come pure le carni, tassativamente bianche e solamente scottate così, ad minchiam, quasi senza oli e meno che mai nel famigerato burro che al solo nominarlo, con tutti quei grassi saturi, potrebbe dare un'impennata al colesterolo, quello brutto e cattivo ovviamente.

Del resto l'impiego del grasso peccaminoso comporterebbe pure il rischio di ingentilire troppo le derrate e renderle buone, mettendo così in discussione l'educazione alimentare mortificante del nuovo assioma socio-psico-pedagogico, ruolo aggiuntivo a cui la scuola non si può certo esimere anche nella pratica quotidiana.

Mi domando se faccia educazione a bandire o boicottare una cosa (qualunque) rispetto a un'altra e quale sia il criterio. Dunque, in questo caso si omette l'uso del condimento derivato dal latte, del quale non ci sono divieti, ma solamente perché fa “male” secondo i pasdaran della tavola. Nel contempo però si permette una pasta con glifosato che, anche se normato per legge, non è che sia più innocuo del burro o dell'olio di palma. Ciò non è preso in considerazione da questi ineffabili educatori del tutto, perché? E pensare che non possono non sapere, visto che sanno tutto, che i glifosati vengono sparsi pure a go go con gli atomizzatori, senza il rispetto per le distanze e le persone neppure in vicinanza di scuole, asili, strade ciclabili, abitazioni e campi sportivi, grazie all'ignavia delle autorità preposte.

Ho anche l'impressione che lo spirito iconoclasta di questo nuovo assioma sconquassi non solo la tavola scolastica, ma agisca ancora più in profondità nell‘impianto educativo rispetto a quello di 30/50 anni fa, il quale bene o male, pur con le sue contraddizioni, partendo dall'insegnamento ha determinato un'impostazione decente: io anche se ero asino da piccolo, qualche cosa l'ho comunque appresa e ne ho colto i frutti. Certo se avessi studiato con maggior impegno ora sarei più avvantaggiato, ma pazienza! Doveva andare così... a ogni modo, ora non provo certo invidia per ragazzini che in aritmetica conoscono gli insiemi, ma non sanno le tabelline a memoria, il cui metodo sarà forse un po' da pappagalli, ma per i piccoli calcoli a mente ha sempre funzionato a meraviglia.

In geografia ora saranno sicuramente ferrati su ambienti dove è improbabile riescano ad andarci (a meno che da adulti non diventino documentaristi), quali la tundra e la savana, la steppa o la foresta pluviale, ma poi non sanno un accidente di quella spicciola e utile delle regioni del proprio paese: province e capoluoghi, monti e pianure, laghi e fiumi... giusto quel poco da saperne almeno i nomi e l'ubicazione, come per i propri compagni di classe nei rispettivi banchi se pur con le rotelle. No, ora c'è questo revisionismo generalizzato e pervasivo, che si occupa comicamente anche della tavola nelle scuole, partorito non si sa bene da chi, ma chiunque sia, si evince che aneli a passare alla storia quale precursore di una nuova era, detta esilarante.

Pure a mio figlio, a proposito di comicità, quando frequentava la maturità classica, nel testo di fisica capitò un esercizio dove l'autore proponeva (ovviamente come supposizione) di appendere un gatto a un dinamometro. Ve lo vedete voi un gatto che si fa appendere a un dinamometro? Appenderlo per i baffi (vibrisse) o per la coda? Non poteva in nome della scienza, per misurare la forza, proporre qualche altro animale più disponibile? Capisco che il tizio per deformazione professionale sia rimasto affascinato dal paradosso del gatto di Schroedinger, ma io, forse a causa dell'ignoranza verso la fisica quantistica e non, il gatto in una situazione simile non riesco proprio a immaginarmelo. Sarà perché una volta, trovandomi in un pronto soccorso, mi capitò di vedere una signora, ivi giunta a piedi e sorretta dal marito, con il volto trasformato in una maschera percolante di sangue a causa del proprio felino, probabilmente alquanto contrariato in qualcosa verso la stessa. Forse la poveretta, cercando di aiutare il proprio figlio nello svolgimento dei compiti, si era imbattuta proprio in quell'esercizio del testo di fisica, scritto da un esperto (per amor del cielo!) in materia. Questi però, pur conoscendo alla perfezione le leggi della fisica (la spinta per esempio), non pare eccessivamente ferrato in etologia animale e umana... ma suvvia! Nessuno è perfetto, tutto sommato per un gatto poi... Sarebbe stato ben peggio, per quanto illuminante sia, se avesse formulato un quesito sulla conduttività elettrica dell'acqua, supponendo l'uso di un asciugacapelli acceso buttato in una vasca da bagno piena d'acqua.

Fantasticando un poco immagino sia stato possibile però che il perspicace autore, nonché epigono di Schroedinger, possa avere pensato di applicare su di sé il principio di indeterminazione della teoria quantistica, per capire almeno se ci è e ci fa contemporaneamente. Purtroppo però, con aspettative ben più modeste, immagino abbia soltanto pensato, e poi a priori scartato, l'idea di una misurazione altrettanto fantasiosa con quest'altra tipologia di forza, in quanto somiglierebbe più alla stesura di un thriller che a un esercizio di fisica da svolgere nei compiti a casa. Supposizioni, nient'altro che supposizioni.

Discalculia, dislessia, eccetera, sono nuovi nomi che alcuni tizi dell'educazione di massa hanno tirato fuori dal cilindro per classificare e “giustificare” coloro che un tempo, a scuola, sarebbero stati semplicemente chiamati asini, svogliati, eccetera ( tipo il sottoscritto).

Gli addetti ai lavori hanno cercato di valutare i Q.I. dei soggetti affetti da questi “disturbi dell'apprendimento” senza però arrivare a nulla: possibile non gli sfiori neppure lontanamente l'idea che semplicemente andrebbe rivisto l'intero sistema di insegnamento? La formazione dei docenti (per colpa di pochi previa misurazione del Q.I. a tutti), metodo, programma? Einstein e tantissimi altri personaggi niente affatto stupidi del passato pare che da piccoli a scuola non brillassero, vorrà pur dire qualcosa, o no? Ma non si potrebbe prendere totalmente in considerazione la scienziata Maria Montessori o Don Milani per tutto ciò che hanno detto e fatto a proposito? È così difficile appassionare i giovani allo studio? Personalizzarlo come si fa nelle terapie? Che non mi citino la questione degli insegnanti di sostegno, in quanto per vedere se nel tempo funzionano bisognerebbe metterli e poi lasciarli, non toglierli.

Insomma, non dico gli scolari, ma almeno la scuola due paroline su Talete, oltre al suo teorema, potrebbe considerarle, in quanto pare che proprio dalla prima scuola di Mileto prese corpo un determinato concetto sull'origine del mondo, poi raccolto e perfezionato da Anassimandro con l'Apeiron, che dà un'unica origine a tutte le cose.

Capisco che l'insegnamento, iniziando dai bambini, implichi per necessità una forzata semplificazione sull'origine del mondo, ma a questi in una stessa mattinata in classe, durante l'ora di scienze viene insegnata l'evoluzione dell'uomo e poi o prima (dipende), durante l'ora di religione, la creazione che ha per protagonisti Adamo ed Eva, il fango, la costola e simili amenità. Un'istruzione che, per spiegare da chi, come, da dove e quando compare o deriva l'uomo, si affida a due materie che collidono sull'argomento è da considerarsi buona? E chi lo sa, di sicuro, anche agli scolari giovanissimi, non certo stupidi, balzano agli occhi certe contraddizioni che minano la credibilità dell'insegnamento stesso.

Pure nella mensa scolastica, i missionari del tutto, mossi dal nobile obiettivo di contrastare anche l'obesità infantile e l'alimentazione scorretta, si propongono di forgiare menti sane in corpi sani, mediante lezioni pratiche nell'ora di pranzo. A base però di diete draconiane, che pongono veti assurdi sui cibi alternativi (anche quelli portati da casa), obbligando così i genitori a far consumare ai propri figli solo quelli concordati nell'appalto con la ditta fornitrice.

Questa poi, con l'eccellente scusa della dieta stilata dai saccenti lumi delle istituzioni preposte, tira a ribasso sui costi per rifarsi dal margine stretto imposto dalla gara. L'infelice risultato è quello di far trovare nel singolo piatto un quadrato con 4 cm. per lato di pseudo frittata secca, senza sale e senza grassi, chiamato spudoratamente flan di verdura, poiché contenente tracce visibili a occhio nudo di carota macinata nella percentuale di 10 alla meno 2.

Naturalmente un secondo così ricco non potrà che essere accompagnato da un cucchiaio di purea di patate, non quello tradizionale con latte e burro che fa male, bensì all'acqua (di sorgente, he he!) che fa meglio e pure senza sale. Il tutto, assieme al mestolino di pasta slavata al glifosato e condita con o.s.v.o. (olio sempre vergine di oliva), fornirà un giusto pasto dai giusti gradienti.

Certo non sanno più che vocaboli usare per menare, pardon, convincere, il prossimo: gradiente: sapete cos'è? Io no, d'altra parte ho già scritto che a scuola ero un somaro e da adulto, comprendendo il valore dell'istruzione, ho però recuperato; ma nonostante tutto ho ancora chiaramente delle lacune, quali la matematica per esempio. Infatti ho proprio difficoltà a comprendere i calcoli delle funzioni, dove questo benedetto gradiente pare giochi un certo ruolo. Ad ogni modo mi sono informato a sufficienza, almeno quanto basta per sapere che il concetto di gradiente viene usato appunto per le funzioni, ma può essere anche elettrochimico, termo-verticale, barico, geotermico, di concentrazione, elettrochimico e quant'altro ancora.

Anche gli esimi pensanti delle commissioni ASL-Comune-Scuola lo tirano in ballo, per suffragare la correttezza nei propri calcoli delle tabelle alimentari per la mensa, sarà...

Certo, se necessita ricorrere a modelli matematici per somministrare roba del genere, stiamo freschi! e c'è ben poco da stare sereni, nonostante il “giusto gradiente” da pompa magna.

Con ciò, neppure togliendogli la lettera “i” si può fare diventare gradente la sbobba calmierata di 4 euro circa a pasto: un ossimoro finalizzato al mantenimento dello scolaro in un perenne quanto salutare stecchetto.

Per fortuna o forse no, una volta usciti dal tempio della saccenza e del viver “sano “, i fanciulli fanno quel che gli pare, recuperando il tempo perso ingozzandosi per strada con le mille “schifezze buone”: tipico, per un'età in cui tutto è ancora in formazione, non soltanto le cellule adipose, ma anche il gusto e il senso della vita.

Grazie a Dio, quest'ultimo si paleserà in molti individui una volta adulti (tranne le eccezioni sotto gli occhi di tutti) e li renderà più autonomi piuttosto che automi: giusto lo stretto necessario fin quando pure a loro, poi da grandi, toccherà informarsi su chi e come si aggiudicherà l'appalto per i pasti nella scuola dei propri figli, oltre che per il canile municipale.

Mi è capitato di leggere un trattato che per (e)semplificare l'uso dei gradienti nelle mense scolastiche personalizza le razioni dei bambini in base alla grandezza delle rispettive mani, anzi una sola: se chiusa a pugno, deve corrispondervi una quantità uguale di pasta o riso cotti, se aperta, al palmo deve corrispondervi una fettina di pollo o pesce.

Mano destra o mano sinistra? Non lo menziona questo, del resto oramai è un pezzo che anche nello scrivere l'insegnamento emancipato non ha più tabù verso la mano del diavolo. Mi chiedo se i geni del gradiente messo in pratica, pur con studi e dottorati vari, si siano mai accorti che i bambini di mani ne hanno due: chi l'ha detto che la razione per un bambino (intero, possibilmente) debba corrispondere a una mano soltanto? Quando ero piccolo, mia mamma, nell'andare al mercato rionale per comprarmi i calzini, mi portava apposta con sé. Lo faceva per non incorrere in errori nelle misurazioni. Quindi, una volta giunta al banco della biancheria con me appresso, prendeva un calzino dal ripiano e me lo girava intorno a un polso. La semplice operazione serviva per controllare se la circonferenza di questo avrebbe collimato con la lunghezza dell'indumento, il quale a sua volta sarebbe corrisposto alla lunghezza del piede: parrà strano, ma pur avendo lei solamente frequentato le elementari, anche senza gradienti, non sbagliava affatto misura di calzini e, nonostante fosse priva di lauree, ne acquistava due ogni volta.

Luigi Randaccio

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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