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Autore: Daniele Possanzini
L'amore innaturale
Narrativa
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L'amore innaturale
***Quello sguardo
L'avrei rivista alla fine dello scorso gennaio. Ne ero sicuro. Sarebbero passati quasi ventun anni dalla volta precedente e i due eventi insieme mi sarebbero apparsi senza evidente causalità, lontani.
Nel duemilauno avevo quarantadue anni e Anna aveva accompagnato suo padre, mio vecchio amico d'infanzia e poi collega di università, all'Aeroporto Galileo Galilei di Pisa per salutarmi. Partivo per uno dei miei soliti viaggi che diversamente dagli altri, sarebbe durato a lungo ed ero sicuro che non sarebbe stato l'ultimo. Mia moglie aveva deciso di raggiungermi; stavamo a Pisa sempre meno, dispersi a causa del nostro lavoro, e avevamo desiderato di ricongiungerci all'estero.
Quando io arrivai in taxi loro erano già all'ingresso ad aspettare. Vedevo che Anna teneva sottobraccio suo padre, lo aveva raggiunto in altezza, lui mostrava uno sguardo fiero e lei era sorridente. L'avevo vista nascere e in quel momento, già da lontano, appariva una ragazza molto attraente ai miei occhi di maschio che si sorprendeva quanto più le si avvicinava.
- Valerio! Parti un'altra volta - mi gridò Marco, abituato alle mie partenze da Pisa ma anche ai ritorni.
- Ciao Marco! Sei, anzi siete già qui - e mi sforzai di guardare entrambi con eguale interesse.
- Parte il mio migliore amico e cosa faccio? Non lo vado a salutare? Ti ricordi Anna, vero? Hai visto come è cresciuta? Ha diciannove anni. -
Mai prima l'avevo visto così orgoglioso di qualcuno.
- Vedo che è diventata una signorina - gli risposi sapendo di fare un complimento a entrambi.
Intanto guardavo gli occhi di Anna senza riuscire a distaccarmene.
- Sì, è trascorso del tempo e senza sprecarlo sono cresciuta molto - enfatizzò lei, sorridendomi. Sul viso aveva sovrapposto un'altra espressione a quella che mi stava afferrando sin dagli attimi prima, e rimanevano entrambe visibili. Era come se in quel momento avesse due stati d'animo diversi, uno di piacere nel vedermi e uno di speranza di rivedermi.
- Allora non mangi più i bomboloni alla crema? - La guardai negli occhi.
- Altroché! Sono come una droga per me. - Abbassò subito i suoi, come se si fosse vergognata di manifestare un istinto primordiale.
Si accorse anche che quelle sue parole mi avevano colpito. Intuii che volesse comunicarmi qualcosa, forse farmi sapere che anche lei aveva compreso dei principi importanti. Sembravano messaggi per addetti ai lavori. Ma che lavori? Che diavolo mi voleva dire una ragazzina, figlia di un mio amico? Doveva sapere di sicuro molto del mio lavoro. E quelle altre espressioni apparse sul suo volto affascinante che provenivano da mondi diversi? Di quando era piccola e di quando sarebbe stata grande.
Avevamo poco tempo ma tutti noi volevamo comunque ricordare e chiedere dei nostri prossimi progetti, come si fa nei momenti che precedono un distacco importante. Conversando, lei mi guardava e ogni tanto abbassava gli occhi come a pensare e riflettere su cosa, piuttosto che su chi, stesse vedendo e ascoltando. Seguiva tutti i miei discorsi con un interesse che quasi mi metteva a disagio. Mi sentivo studiato da quei suoi occhi così belli, profondamente penetranti. Non me ne ero mai accorto prima, dovetti ammetterlo a me stesso.
Capii che stava dedicando un'attenzione eccessiva non verso di me, bensì verso le mie parole e le espressioni del volto, i movimenti delle mie mani e quelli del corpo.
Mi venne in mente che anni prima, ero a casa loro, l'avevo scoperta a osservare attraverso il vetro della porta di una stanza come si comportava un gatto che vi aveva chiuso dentro. Aveva appoggiato a terra, nell'interno, un grande specchio su cui aveva attaccato una di quelle immagini tridimensionali che si recuperano dalle scatole di detersivo. Era una figurina prismatica raffigurante un topo che, osservandolo mentre ci si metteva da angolazioni diverse, sembrava vivere e muoversi nella profondità dello stesso specchio, all'interno dell'immagine riflessa ma senza essere presente nella stanza.
Topo inesistente che però il gatto vedeva in movimento all'interno di un mondo riflesso.
Certamente non voleva fare impazzire la bestiola, tuttavia avevo dedotto che volesse capire come un animale accorto e sospettoso si sarebbe comportato in situazioni illusorie.
Purtroppo questo non mi suggerì nulla, se non la singolarità della mente che quella ragazza doveva avere. Nulla riguardo a come sarebbero apparsi il suo fisico e il suo sguardo anni dopo. E a quello che avrebbe fatto.
Sapevo dai suoi genitori che frequentava alcuni laboratori teatrali; di conseguenza quel comportamento poteva essere una sua abitudine anche fuori di lì, ma nemmeno questo mi faceva sentire a mio agio. La sua avvenenza e il suo atteggiamento nei miei confronti, imprevisti per me, sfidavano la mia amicizia con suo padre. Non sapevo proprio come reagire, non ero obbligato a farlo nonostante la mia professione mi esponesse continuamente a persone, anzi a personalità molto complesse che talvolta mi aggredivano psicologicamente; dovevo quindi essere allenato.
Io e suo padre talvolta ci scrivevamo riferendoci al mio lavoro, così insolito per gli studi che avevamo intrapreso insieme tanti anni prima. Mi convinsi che ne avessero parlato tra di loro, che Anna ne fosse a conoscenza e che in quei pochi minuti probabilmente volesse carpire informazioni e segreti preziosi e utili alle sue tecniche di recitazione.
Anch'io avevo fatto così all'inizio della mia carriera e lo facevo ancora con le persone di successo che avevo la fortuna di incontrare. Giustificai il suo atteggiamento di curiosità.
Mi credeva probabilmente un mito, un uomo arrivato. Doveva essere per forza così. Lei era ancora una ragazzina e io ormai un professionista famoso nel mio settore di studio e lavoro. Mi avevano chiamato dall'Italia in California per assistere lo staff di una grande azienda informatica. Qualche motivo ci doveva essere.
Il fatto che fosse figlia di un mio amico e che l'avessi vista mentre sua madre le cambiava i pannolini, indeboliva senza dubbio la mia capacità di relazionarmi con lei in quei pochi istanti a disposizione. Per reagire senza condizionamenti avrei dovuto considerare solo quello che vedevo e sentivo, dimenticando cinicamente tutto quello che sapevo di loro, della loro famiglia, di lei quando stava nella pancia di sua madre e del tempo speso a fantasticare di futuro insieme con suo padre. Se mi fossi comportato così, lo avrei offeso e deluso perché avrei trattato indirettamente un vecchio amico come un estraneo, senza rispettare quei sogni che avevamo condiviso tanto tempo prima. Non è facile escludere la memoria.
Parlammo frammentariamente di molte cose ancora in quei minuti che rimanevano prima dell'imbarco e fra le altre cose intuii che sua moglie non stava bene. Strano che Anna non ne avesse capito la gravità perché la sua espressione era serena come se suo padre fosse riuscito a nasconderglielo fino a quel momento. Immaginai che sarebbero presto rimasti soli e durante il volo quei pensieri mi rattristarono.
Non avrei più dimenticato quello sguardo. Anzi, per essere onesti e precisi: soltanto per non più dei ventun anni che stavano già passando.

***Alla fine dello scorso gennaio
Atterrando a Pisa, si ha la sensazione di arrivare in una piccola città che però è famosissima. La Torre Pendente è infatti un monumento conosciuto anche nelle più sperdute parti del mondo.
In paesini dimenticati della California del Sud, dove ho vissuto, non conoscevano le capitali degli stati europei ma sapevano di quella costruzione così incredibilmente stabile e mi invidiavano per esserci salito. Ho sempre promesso di fargli avere il piccolo ma prezioso souvenir per me così facilmente reperibile.
Lasciai l'aeroporto e mi avviai verso l'albergo che avevo prenotato con molta difficoltà.
Erano ventun anni che non tornavo a Pisa, avevo ancora degli amici che mi avrebbero ospitato con piacere e con i quali ero in contatto via Internet, tuttavia quella volta volli alloggiare in un luogo che conservasse ancora i segni dei miei precedenti soggiorni nella città, anche da studente universitario. Il residence che scelsi era un edificio in cui avevo vissuto nei momenti della mia vita in cui tutto era possibile; lo avevano trasformato in dimora storica e mi sarebbe piaciuto ritornare tra quelle pietre antiche, riconoscere con complicità qualche segno incomprensibile ai turisti, sentire l'odore di intonaco umido dell'acqua che risale dal fiume Arno, inciampare in qualche scalino di pietra serena rotto in passato accidentalmente da me o consumato e mai sostituito.
Avevo addirittura riservato due stanze in due piani diversi, tre giorni in una e quattro in un'altra, per avere maggior probabilità di rivedere le tracce che forse avevo lasciato. Questa era stata la causa della difficoltà incontrata nella prenotazione; veniva infatti considerata un attacco hacker e il sistema software di booking online annullava tutte le volte entrambe le prenotazioni. Finalmente una telefonata diretta alla ricezione, spiegando i motivi con residui di un inconfondibile accento toscano, aveva fatto sorridere il pisano che aveva risposto insospettito ma che poi, comprendendo, aveva sistemato tutto.
Era una sera dello scorso gennaio. Io ero in vacanza, ben immerso nei luoghi della mia memoria e vulnerabile a tutti i segnali che mi giungevano da ristoranti, osterie, strade, vicoli, murales come quello di Keith Haring vicino alla stazione ferroviaria, volti dei baristi, camici dei farmacisti di Corso Italia, focaccine con la torta di ceci e dal fiume Arno che scorreva inesorabile sotto il Ponte di Mezzo.
Per chi è abituato ai sapori e ai colori toscani è difficile dimenticarli e comunque, se proprio dovesse succedere, è facilissimo ricordarli.
Mia moglie Giulia, con la quale avevo lasciato Pisa ventun anni prima per andare a lavorare in California, non era in quel momento con me. Un congresso di information technology la impegnava proprio quella settimana in Francia. Quindi ero io da solo, contornato dai miei ricordi che volevo ravvivare.
Vent'anni non sono molti per vedere cambi generazionali, ma sicuramente non avrei rivisto tutti i sessantenni di quando me ne ero andato, i settantenni ancora meno e riguardo agli ottantenni non lo credevo proprio.
Camminavo con lo zaino per Borgo Stretto, cercando nei volti degli esercenti quanto le loro espressioni si fossero modificate, deformate, abbellite. Era un esercizio divertente anche se c'era il rischio di intristirsi.
Sarei andato poi all'albergo in Lungarno Galileo Galilei e successivamente a cena con Marco che mi aspettava a casa sua in Via San Martino, nelle vicinanze. Da tempo viveva solo, avevo capito che lavorava e basta. Ci eravamo sentiti prima di partire e mi era sembrato un po' reticente. Che avesse una nuova compagna e non volesse dirmelo? Dopo due decenni, anche se eravamo rimasti in contatto, poteva essere cambiato qualcosa nella confidenza che avevamo come amici e colleghi universitari.
In tutti quegli anni avrei dovuto comunicare più spesso con lui, Internet lo consentiva senza costi. Avevo qualche rimorso. A parte qualche telefonata che era stata l'occasione per sentirci, io non lo feci e lui nemmeno. Così era passato il tempo senza informarsi reciprocamente, senza conoscere costantemente le vicissitudini di una famiglia con cui avevo diviso momenti tristi e felici e con cui parlavo di futuro probabile senza timore di essere schernito.
Entrai nella pasticceria più antica e famosa del borgo e mi avvicinai ai dolci.
Chiesi un macchiatone in tazza grande, che a Pisa è paradossalmente un piccolo cappuccino, e un croissant ai frutti di bosco. Ero seduto rivolto verso uno specchio, dove la tazza veniva riflessa con me e tutto l'ambiente retrostante, quando improvvisamente un'immagine schizzò in qualche zona della mia retina e forse del mio cervello. Continuai a bere e a mangiare e poi mi alzai, ma ebbi la percezione di essere stato colpito da qualcosa che mi apparteneva e che mi aveva agganciato. Un'espressione modificata, deformata o abbellita.
Qualche vecchia fiamma? Forse. Ero stato vivace da giovane. La moglie di Marco? Non credo. La figlia di Marco? Possibile. Marco? Probabile. Altri amici o colleghi di lavoro? Perché no? Li avevo tutti in mente sin da quando ero partito, poteva essere qualcuno di loro. Si vede quello che si vuol vedere.
Non avevo nemmeno messo tutti e due i piedi fuori dal locale che mi fermai sulla soglia come un maleducato, bloccando il passo. Guardavo nella strada davanti a me mentre alcuni signori mi chiedevano in inglese di scansarmi. Feci un salto in avanti scusandomi, ma rimasi fermo ancora a pensare.
Iniziavo male! Ero arrivato a Pisa per rinverdire i ricordi e non capivo nemmeno che avevo visto forse qualcosa che mi apparteneva più di altro. A me di ora? A me di venti anni fa? A me di dopo? Ero frastornato perché non riuscivo a individuare cosa avessi percepito di così destabilizzante. Continuai a camminare con lo sguardo rivolto verso di me.
La mente era stata monopolizzata da quell'immagine che non avevo catturato consciamente, ma che mi aveva impressionato come se fossi stato una lastra fotografica infilzata da una miriade di fasci sottilissimi di luce di durata istantanea.
Non sapevo proprio cosa mi fosse successo.
Pensoso, decisi di andare verso l'albergo, rinfrescarmi e poi dirigermi a casa di Marco.
Le sorprese non erano ancora arrivate tutte.

Daniele Possanzini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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