Ravenna 2020
È iniziato da poco il nuovo anno, le feste sono trascorse spensieratamente con parenti e amici tra luci, colori e speranze per un luminoso futuro fatto di soddisfazioni, di giorni sereni e di tanta salute. Ci promettiamo, come ogni Capodanno, davanti ai calici alzati di impegnarci affinché questo sia davvero un anno speciale per noi e per le persone che amiamo. A febbraio cominciamo a sentir parlare della propagazione di un nuovo virus. Qualcuno comincia ad allarmarsi, altri pensano che rimarrà circoscritto a un territorio cinese. Mai avremmo immaginato che avrebbe sconvolto le esistenze di ogni singolo individuo su questo pianeta. E così arriva come una doccia gelida in pieno inverno la notizia che da quel continente lontano il virus è arrivato anche in Europa, proprio in Italia. È come se qualcuno all'improvviso ci avesse preso per le spalle e scosso bruscamente, come se ci avessero urlato nelle orecchie di svegliarci, come se ci avessero sbattuto in faccia una realtà inaccettabile. Sono un'infermiera e lavoro in sala operatoria, dopo qualche giorno hanno iniziato a farmi le prime domande. - Hai paura? - mi chiedono. La risposta inizialmente era sempre la stessa: - Sono abituata a lavorare in ambienti dove circolano virus e batteri di ogni tipo, ma con le giuste precauzioni e il giusto timore per ciò che è nuovo si cerca di svolgere il proprio compito in sicurezza - . Ma questo virus ha qualcosa di subdolo: una contagiosità impressionante e disarmante. Così, in poco tempo, ci siamo ritrovati dentro quello che sembrava il set di un film di fantascienza e la parola pandemia è entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Ma non è facile rendersi subito conto di ciò che accade, ti senti perso, frastornato da mille informazioni, bombardato da una miriade di consigli che pian piano diventano ossessivi. Siamo stati catapultati in una nuova realtà e l'unica cosa che capivamo davvero era che la gente stava soffrendo perché stava male, perché stava perdendo i propri cari e perché questo maledetto virus stava condizionando le nostre vite, i nostri sentimenti e la nostra quotidianità. Una sera il presidente del Consiglio ha annunciato in diretta tv che le scuole sarebbero state chiuse e nei mesi a seguire anche i ristoranti, i bar, i negozi e altre attività le avrebbero seguite, fino a paralizzare l'intero paese che si è ritrovato chiuso in casa tra quattro mura. L'idea che la tua libertà sia limitata ti infastidisce, ti rende nervoso, pensi di non poter superare un momento simile. Poi, con il passare del tempo, cominci a fartene una ragione, dimostrando giorno dopo giorno che l'uomo ha una capacità di adattamento straordinaria. Ho deciso di non avvicinarmi alla mia famiglia per paura che potessi essere veicolo d'infezione. Mi sono isolata e l'unico contatto che avevo con loro era telefonico. Durante una lunga chiacchierata, mia madre ha paragonato la situazione di oggi a quella che avevano vissuto i nostri nonni negli anni Venti con l'epidemia di Spagnola. Conoscevo la storia ma lei me l'ha raccontata attraverso gli occhi di mia nonna, così mi sono appassionata ogni giorno di più, attaccandomi al telefono per sentire altri dettagli di questa vicenda sorprendente. Ho deciso di far rivivere in queste pagine gli episodi di una donna indipendente e straordinaria che ha avuto una vita ricca di emozioni, di grandi gioie, ma anche di lutti strazianti e di momenti incredibili. Ringrazio mia madre per avermi regalato questa testimonianza che mi ha permesso di uscire di casa volando con la fantasia in un viaggio fatto di emozioni e speranze. Ho avuto modo così, tornando indietro nel tempo tra guerre ed epidemie, di conoscere a fondo la storia di nonna Luisa.
Corato 1920
Cinque anni sono pochi, sono veramente pochi per capire cosa sta accadendo, perché tanto dolore intorno a te, perché all'improvviso ti senti più sola, perché nonostante l'età hai la sensazione che tutto non sarà più come prima. Osservavo tutto ciò che mi circondava stando rincantucciata in un angolo di quella stanza che piano piano si riempiva di persone. Era la camera di mamma e papà, ma ora quel lettone tanto ambito da me e dalle mie sorelle, che accoglieva i nostri giochi mattutini, ospitava solo mio padre. Era elegantissimo nel suo completo scuro, ma non lo indossava per un giorno di festa. Guardavo il suo bellissimo viso senza espressione, non più illuminato da quel sorriso che lo rendeva unico. Le sue mani erano immobili, non si sarebbero più insinuate fra i miei riccioli biondi per regalarmi carezze dolcissime. E poi quel frastuono discreto ma martellante di gente che ti sta intorno piagnucolante, che ti abbraccia con atteggiamento pietistico, che si avvicina alla salma e poi si allontana subito, quasi volesse prendere le distanze dalla morte. E poi c'era mia madre che si guardava intorno attonita e ancora incredula, incapace di accettare quella realtà inaspettata e cruda. Una giovanissima vedova che non aveva più lacrime, che guardava me e le mie sorelle, cercando in noi il coraggio per andare avanti. E poi il ricordo prepotente di ciò che stavamo perdendo: un uomo colto, un padre affettuoso, un marito attento e soprattutto un professionista apprezzato e amato da tutti. E poi la gente, quei compaesani che si affidavano a lui per qualsiasi consiglio. Pur essendo farmacista, le persone lo stimavano a tal punto da considerarlo spesso come il sostituto del proprio medico. Lui dispensava il farmaco ma anche una buona parola. Il suo sorriso era sempre a disposizione, come le sue pozioni fatte in laboratorio, che la gente considerava miracolose. Ora sembrava che tutto il paese fosse a casa nostra per rendergli omaggio e io, così piccola, vivevo quel momento tra tristezza e orgoglio. Certo, quel maledetto virus lo aveva strappato alla vita a soli trentotto anni, ma lui era riuscito a lasciare comunque in ognuno di noi un ricordo incancellabile, il bellissimo privilegio di averlo avuto accanto. Quella mattina pioveva. È raro che in Puglia piova in una maniera così esagerata, ma quel giorno anche il cielo sembrava essersi messo a lutto. Tra tutti quei suoni che ormai si sovrapponevano all'improvviso, vidi apparire l'uomo che avrebbe cambiato il destino delle nostre vite. Lo riconobbi subito anche se non avevo mai avuto modo di trascorrere con lui molto tempo. Era il fratello di mio padre, un uomo alto, molto bello ma con i tratti del viso che gli conferivano un'aria austera. Si fece largo in mezzo a tutta quella gente che lo guardava intimidita, facendo con il capo un leggero cenno di saluto quasi reverenziale. Il fratello di mio padre era un magistrato e soprattutto per quei tempi era visto come un'autorità assoluta. Si fece il segno della croce di fronte a mio padre e poi abbracciò mia madre a lungo, le asciugò le lacrime e poi venne verso noi bambine per consolarci a modo suo, come poteva, come un uomo senza figli riusciva a fare. Da quel giorno l'avremmo visto spesso a casa nostra. Per mia madre, così fragile, sola e spaventata, lui divenne un punto di riferimento importante. Si occupò di tutti gli affari di famiglia, vendendo gli uliveti e la vecchia farmacia centrale, per assicurarci una rendita che ci desse la possibilità di crescere e proseguire gli studi. Il tempo passò velocemente e noi bambine eravamo ormai delle adolescenti. Le esigenze, soprattutto da un punto di vista scolastico, crescevano e il paese ormai ci stava stretto, anche se fino a quel momento ci aveva avvolte, protette e amate. Fu in quel momento che tornò prepotentemente sulla scena mio zio, che nel frattempo era stato trasferito dal tribunale di Trani a quello di Torino. Propose a mia madre di raggiungerlo in quella città per noi così sconosciuta e lontana. Non ci volle molto a convincere una donna che sentiva dentro di sé il vuoto lasciato dal marito, non solo in senso affettivo ma soprattutto per la mancanza di quell'autorità maschile che allora riusciva a rassicurare le donne con la fermezza e la protezione di cui avevano bisogno per esercitare a pieno il loro ruolo di madri. Così cominciò la grande avventura che cambiò il corso della mia vita dandole un futuro inaspettato.
Torino 1926
Non dimenticherò mai il mio primo impatto con Torino. Venivamo da un piccolo paese della Puglia immerso negli uliveti, dove i colori del mare e del cielo erano brillanti come nei disegni dei bambini, il sole riscaldava i corpi e le anime, e tutto sapeva di salsedine. Era aprile e il clima in Puglia iniziava a regalare delle gradevoli giornate primaverili. L'idea di cambiare regione mi spaventava, ma mi eccitava allo stesso tempo. Mia madre e le mie sorelle erano molto preoccupate perché non sapevano cosa aspettarsi, anche se nei loro cuori regnava la speranza di una vita migliore, quella che il piccolo paese non avrebbe potuto offrirci. Torino era una grande città industriale, buia e fredda, la nebbia la teneva prigioniera in una morsa che in inverno raramente le dava tregua e faceva intravedere il sole. Tutto sembrava avere lo stesso colore grigio. Ero una ragazzina curiosa e mi attraeva tutto ciò che risultava nuovo ai miei occhi. Lo spirito avventuroso dentro di me prese il sopravvento e immaginai le grandi opportunità che avrei potuto avere in quella città cupa ma allo stesso tempo elettrizzante. Un sorriso speranzoso si dipinse sul mio volto dandomi quella spinta e quella voglia di fare, tipiche della giovane età. Non fu facile adattarsi a quella nuova vita, alle nuove abitudini, alla routine di tutti i giorni. Mia madre riuscì a trovare un appartamento gradevole non lontano dal centro. Nostro zio ci aiutò economicamente, offrendoci anche un valido aiuto nella ricerca della nuova casa. I meridionali non erano visti di buon occhio e gli affitti venivano concessi loro malvolentieri. Alla fine, quella piccola dimora ci sembrò il paradiso da cui ricominciare. Io ero la sognatrice della famiglia, a volte mi capitava di viaggiare con la fantasia nei luoghi dei miei romanzi preferiti. Adoravo leggere e fare finta di vivere quelle avventure insieme ai protagonisti. Mi piaceva andare a scuola e gli anni passarono così in fretta che non mi resi nemmeno conto di essere diventata ormai una piccola donna. Mia sorella trovò un buon posto da impiegata appena finita la scuola e poi arrivò il mio turno. Ero una ragazza sveglia, brillante e molto carina. Non faticai a trovare un lavoro che mi consentì di essere autonoma e di alleggerire il carico sulle spalle di nostra madre. Quell'impiego mi rese orgogliosa, non era così comune vedere donne lavorare e mantenersi economicamente. Io ero indipendente e fiera. Nostra madre ci aveva educato con grandi valori cristiani, proteggendoci con un amore immenso. L'idea di poter contribuire alle spese mi faceva scoppiare il cuore di felicità. Finalmente potevo ripagarla per tutti i suoi sacrifici. Una mattina di giugno mi svegliai di soprassalto, un rivolo di sudore scivolò lungo la schiena, avevo avuto un incubo terribile. Dovevo aver urlato perché mia madre arrivò di corsa e affannata mi chiese cosa fosse successo. Mi alzai e con un sorriso le accarezzai il volto sudato, rassicurandola. - Era soltanto un brutto sogno - le dissi asciugandomi la fronte con l'avambraccio. Il suo viso si distese all'istante e mi sorrise. - Ti ho preparato la colazione - disse scostando la sedia da sotto il tavolo. - Grazie. Mi preparo e arrivo, non voglio fare tardi in ufficio - mi girai e la vidi vicino alla porta che mi guardava fiera. - Oggi devo passare in posta per alcuni pagamenti - disse dalla cucina. - Non ti preoccupare, passo io dall'ufficio postale domani prima di andare a lavorare. - Il giorno seguente l'aria era ancora più calda e l'afa era insopportabile già di prima mattina. Decisi di mettere un vestito colorato, di un bellissimo color turchese come il mare della mia amata Puglia. Torino era molto diversa da quando l'avevo vista la prima volta. Probabilmente eravamo cambiate entrambe. Adoravo il caldo, il sole mi ricordava la mia terra e di quando ero bambina. Ma in quei giorni era veramente insopportabile. L'estate era iniziata e la fioritura aveva donato colore a ogni angolo della città. I balconi erano festosamente addobbati e io non riuscivo a staccare gli occhi da quei meravigliosi fiori. La strada che percorrevo per andare in ufficio era molto affollata e mi piaceva guardare in volto ogni persona cercando di immaginare la loro vita, le loro occupazioni e (perché no?) anche i loro sogni. Fantasticando e camminando spedita non mi resi conto di aver superato l'ufficio postale. Tornai indietro di qualche metro ed entrai nell'androne. Non c'erano molte persone, per fortuna. Al centro della stanza notai un uomo con un abito grigio, intento a compilare un documento. Era appoggiato a un bancone su cui campeggiavano pile di moduli preimpostati. Mia madre mi aveva descritto quale dovevo prendere ma guardandoli tutti non riuscivo a riconoscerlo. Decisi di chiedere aiuto al signore vicino a me. Era di spalle e sembrava molto assorto nei suoi pensieri perché non si era nemmeno accorto della mia presenza. Aspettai che finisse di scrivere e mi avvicinai. Mise il foglio insieme ad altri in una cartella e alzò gli occhi. Per un secondo rimase a bocca aperta, non si aspettava di vedere una bellissima giovane donna davanti a lui. I lunghi capelli castani e quel fisico asciutto e perfetto dentro un vestito turchese. Per la prima volta in vita sua si trovò senza parole e questo lo sorprese. Mi resi conto del suo stupore, ero abituata agli sguardi degli uomini ma notai che lui era rimasto come di pietra. - Buongiorno - dissi sorridendo. - Buongiorno signorina, posso aiutarla? - - Devo effettuare un pagamento, sarebbe così gentile da indicarmi quale modulo devo compilare? - - Certo! Con piacere. - Prese un foglio dal cumulo davanti a lui, si girò e dopo aver controllato che fosse quello giusto alzò lo sguardo e mi fissò dritto negli occhi. Era un uomo molto elegante ed estremamente gentile, sembrava molto più grande di me, eppure in quel momento il mio stomaco cominciò a contorcersi, diventai paonazza e distolsi subito lo sguardo. Il cuore batteva all'impazzata, non mi ero mai sentita in quel modo. Lo ringraziai e quasi scappai via dirigendomi verso lo sportello. Lui mi guardò ancora qualche secondo, si girò sussurrando un - Arrivederci - , aprì la porta e uscì. Mentre camminavo per andare in ufficio continuavo a rivedere quella scena nella mia mente e ogni volta mi sentivo come se fossi sulle montagne russe. Tutto il giorno il pensiero rimase fisso su quell'uomo misterioso e su quegli occhi che mi avevano trafitta. Tornando a casa cercavo tra gli sguardi di ogni uomo in abito elegante, sperando di rivederlo ancora. Molti mi sorridevano o alzavano le sopracciglia in segno di apprezzamento, ma nessuno riuscì a catturare davvero la mia attenzione. Le giornate erano lunghe e il sole calava sempre più tardi. Quella sera mentre rientravo il cielo si era tinto di un colore rosso intenso e delle pennellate di viola e blu sfumavano verso l'orizzonte. Sembrava un quadro, non riuscivo a togliermelo dalla testa. Continuavo a respirare profondamente e a farmi accarezzare i capelli dal venticello della sera continuando a camminare sorridendo e sognando. Infilai le chiavi nel portone pensando a come sviare le domande di mia madre. Come tutte le mamme, aveva un sesto senso, sembrava leggermi nel pensiero. Bastava una piccola espressione del volto, un sorriso o una parola diversa dal solito per farla preoccupare o per farla incuriosire. Di solito mi confidavo con lei, avevo bisogno dei suoi consigli e del suo parere perché la ritenevo una donna molto saggia e coraggiosa. Ma quel giorno non avevo molto da raccontare, se non delle sensazioni e degli sguardi. Volevo tenermi quel momento magico per me, non volevo un'analisi razionale di quello che era successo. Volevo continuare a pensare a quell'istante e a sognare. Infilai le chiavi nella toppa ed entrai in casa, appoggiai la borsa nell'armadio e cercai di evitare in tutti i modi lo sguardo di mia madre. - Ciao mamma, sono a casa - dissi ad alta voce dirigendomi verso il bagno. - Ciao amore - rispose dalla cucina. - Preparo la cena. - - Non ho molta fame, credo che farò una doccia e mi metterò a letto - non riuscii nemmeno a finire la frase che mia madre sbucò da dietro lo stipite della porta e mi squadrò dalla testa ai piedi con aria preoccupata, rimase qualche secondo in silenzio poi mi chiese: - Va tutto bene? - Come previsto, aveva capito che c'era qualcosa che affollava i miei pensieri. Era incredibile. Non riuscii a fare a meno di sorridere e lei sorrise insieme a me. - Se hai quell'espressione, vuol dire che pensi a qualcosa di bello - disse con una luce meravigliosa negli occhi. Non le risposi, le passai vicino dandole un bacio sulla guancia, sperando che le domande fossero finite. - Ti sei innamorata? - disse quasi sottovoce. - Ma no, mamma, sono solo stanca. Non ti preoccupare. - - Sarà, ma non me la racconti giusta. - Sembrava dispiaciuta. Mi sentii quasi in colpa per non aver condiviso quell'episodio insieme a lei. In fondo era una sciocchezza, niente a cui dare peso. Uno sguardo fugace che aveva alimentato le fantasie di una ragazza. - Buonanotte - mi congedai entrando nella mia camera mentre le mie sorelle chiacchieravano in cucina. Decisi di non chiudere la finestra per consentire un maggiore ricambio d'aria, o almeno così speravo. Invece non tirava un alito di vento. Mi stesi sul letto e mi addormentai subito. Mi svegliai dopo qualche ora e mi ritrovai a fissare il soffitto illuminato dalla luce della luna. Decisi di alzarmi per bere un bicchiere d'acqua fresca sperando che sortisse qualche effetto sul caldo afoso della camera. Qualcosa in quell'uomo mi aveva affascinata a tal punto da non farmi nemmeno dormire. Dovevo smettere di pensare a lui. Non riuscivo a trovare pace, mi girai verso l'orologio della cucina e in penombra vidi le lancette, segnavano le cinque e trenta. Mi rassegnai e mi diressi verso il balcone, la brezza cominciò a soffiare timida tra i capelli e feci un respiro profondo assaporando il profumo della notte. Il cielo era limpido, la luce sfumava dal nero pece al rosa chiaro, ma la mia attenzione venne catturata dalla luna che si preparava a lasciare il posto al sole. Nel silenzio più assoluto il cicaleccio sembrava quasi assordante. Appoggiata alla ringhiera scrutavo l'orizzonte respirando a pieni polmoni e la mia mente cominciò a svolazzare tra i pensieri più assurdi, che vennero interrotti dal rumore della porta del bagno. Mia madre era già sveglia. Rientrai di corsa in casa, sembrava un forno, sbuffai e mi trascinai in camera, recuperai un vestito fresco e stirato e sgattaiolai in bagno. Accesi la luce sopra lo specchio e mi sorpresi nel vedere una giovane donna con gli occhi strizzati e i capelli arruffati. Facevo fatica a riconoscermi. Ma dopo una bella doccia e con un tocco di rossetto sulle labbra tornai come nuova. Volevo essere bella perché dentro di me speravo di rivedere l'uomo elegante delle poste. Mi resi conto che quella mattina ci avevo messo più del solito a prepararmi e mi precipitai fuori casa senza nemmeno fare colazione. Camminavo velocemente. Le strade cominciavano a popolarsi di lavoratori e dalle caffetterie arrivava l'odore di brioches appena sfornate. Mi sarebbe piaciuto fermarmi a un tavolino fuori a gustare una bella colazione, ma ero in ritardo e io odiavo essere in ritardo. Il tragitto fino al mio ufficio mi sembrò lunghissimo. Passando davanti alle Poste buttai uno sguardo all'interno nella speranza di rivederlo. Niente. La giornata mi sembrò infinita. Finalmente tornai verso casa. Ormai il pensiero dell'uomo elegante stava svanendo nella mia testa quando a un certo punto lo vidi. Era seduto al tavolo della caffetteria di piazza Castello. Il cuore mi batteva forte, come se ruzzolasse avanti e indietro a ogni passo, e la testa sembrava pesarmi sul collo come un macigno. Una goccia di sudore si infilò prepotentemente sotto al vestito passando dalla nuca alle scapole, per finire sul tessuto che ormai si era appiccicato alla schiena. Lui era lì seduto, con le gambe incrociate e il giornale tra le mani. Davanti aveva una tazzina di caffè e un bicchiere d'acqua. Non mi aveva vista, oppure sì e faceva finta di niente. Quei pochi metri che ci separavano sembravano non finire mai, credevo di camminare nel vuoto. Improvvisamente distolse lo sguardo dalla pagina del quotidiano e mi rivolse un meraviglioso sorriso. Ricambiai e quando si alzò in piedi il mio cuore si fermò. - Buonasera signorina, che piacere rivederla. - - Buonasera a lei - dissi quasi correndo. Le guance mi andarono a fuoco. Una parte di me sarebbe voluta rimanere a quel tavolino insieme a lui a parlare per ore. Ma non potevo, dovevo tornare a casa. Poi sicuramente quell'uomo così distinto e così bello era già impegnato e, a parte qualche sorriso a una ragazzina sognante, non ci sarebbe stato nient'altro. Dovevo tornare con i piedi per terra.
Arrivò settembre, le giornate erano ancora calde, ma l'afa era meno opprimente. Le settimane trascorrevano tutte uguali. Continuavo a sognare, ma dell'uomo con il completo grigio ormai era rimasto un ricordo sfocato e anche l'emozione nel ricordarlo si era raffreddata. Mi fermai nella bottega sotto casa per comprare un po' di pane e di formaggio per la cena. Il fornaio mi conosceva da tanti anni e mi chiamava affettuosamente - bimba - . Mi piaceva quell'uomo, era simpatico e gentile e ogni tanto mi regalava una caramella. Nonostante fossi diventata una donna, ai suoi occhi ero rimasta la piccola bimba con i ricci che andava a comprare il pane con la mamma. Quella notte i pensieri si rincorrevano frenetici e dormii ben poco. L'indomani mattina ero molto stanca e mi sedetti a tavola a fare colazione con mia mamma e le mie sorelle che erano finite a parlare della febbre Spagnola e di come avesse distrutto tante vite, tra cui quella del nostro amato padre. In realtà le ascoltavo distrattamente perché assorta nelle mie riflessioni. Dopo l'ennesima giornata di lavoro, mi incamminai verso casa percorrendo la solita strada e scrutando i soliti volti, quando tra la gente mi sembrò di vedere il suo viso. Era molto alto e si distingueva tra gli altri uomini che lo precedevano. Mi aveva vista e mi fissava. Per fortuna dovevo entrare nel negozio poco lontano così avrei evitato l'imbarazzo di incrociarlo. Ma lui si fermò davanti alla vetrina a guardare gli oggetti esposti, quando fui vicina mi scrutò e mi sorrise come solo lui sapeva fare. - Buonasera signorina, deve entrare? - mi chiese spostandosi verso di me. - Buonasera, sì, dovrei comprare alcune cose - risposi cercando di non guardarlo negli occhi per evitare che si accorgesse del mio imbarazzo. - Mi permetta - disse aprendo la porta del negozio. Ed entrò dopo di me. Girai nervosa tra gli scaffali e, preso quello che mi serviva, mi diressi alla cassa. Lui era ancora con il naso all'insù a curiosare nel negozio. Ogni tanto incrociavo il suo sguardo furtivo ma discreto. Si precipitò ad aprirmi la porta per farmi uscire. - Prego - disse. - Grazie mille - risposi imbambolata. - Quelle borse sembrano pesanti, posso aiutarla a portarle fino a casa? - chiese mentre indicava le sacche piene. In realtà non erano pesanti ma presa dall'emozione gli risposi d'istinto. - Molto gentile da parte sua - dissi affidandole alle sue mani. Mi sfiorò e quell'emozione che avevo dimenticato tornò prepotente dentro di me come un vulcano pronto a esplodere. Cominciammo a camminare fianco a fianco. All'inizio ci fu un lungo silenzio, poi mi chiese: - Abita da queste parti? - - Sì, siamo quasi arrivati. Abito nel condominio dietro l'angolo, in fondo a questa strada. - Speravo che mia madre non fosse sul balcone perché mi avrebbe ricoperta di domande. Durante il tragitto mi girai a guardarlo spesso, era davvero un bell'uomo e aveva un fisico statuario sotto il completo sempre impeccabile. Non sapevo cosa dire e la prima domanda che mi venne in mente fu: - Di cosa si occupa nella vita? - - Sono un ingegnere civile - disse girandosi verso di me. - E lei? - Feci un respiro profondo prima di rispondere. - Lavoro in un ufficio in centro - risposi vaga. Non volevo dargli troppe informazioni. Avrei voluto raccontargli tutta la mia vita ma in fondo non lo conoscevo. - Posso sapere il suo nome? - - Mi chiamo Luisa - dissi con un filo di voce. - Piacere, io sono Raffaele. - Prese la mia mano, la sua stretta era calda e morbida, l'avvicinò alla bocca senza toccarla. Sentii il suo respiro sulle dita e lui socchiuse gli occhi come per fissare quell'attimo nella mente come una fotografia. Non ero mai stata innamorata, ma quel giorno quando entrai in casa non riuscivo a smettere di sorridere, il cuore scoppiava di gioia e mi sentivo come una principessa dei romanzi. Avevo trovato il mio principe. Avrei voluto affacciarmi al balcone e urlare al mondo intero che ero follemente innamorata di Raffaele e, soprattutto, che non riuscivo più a tenere per me tutta quell'emozione. Volevo condividere la mia felicità con mia madre e le mie sorelle. Io ero la più piccola delle quattro e loro cercavano di proteggermi come avevano sempre fatto sin dall'infanzia. Ma ormai ero una donna e decisi di aspettare qualcosa di più concreto per comunicare alla mia famiglia il mio legame con quell'uomo affascinante. Mia madre come al solito aveva capito che c'era qualcosa di nuovo e che non le avevo raccontato tutto. Il mio sorriso e la mia aria sorniona le avevano fatto intuire che il mio comportamento era dovuto a un uomo. Anche lei era stata innamorata prima di me e sapeva bene quali erano i sintomi della febbre d'amore. Giravo per casa canticchiando e mia madre e le mie sorelle si scambiavano occhiate complici e ridacchiavano di me e della mia ingenuità. Ogni giorno prima di andare al lavoro cercavo di farmi bella il più possibile, sperando di incontrarlo. Sapeva dove abitavo e conosceva il mio percorso quotidiano per recarmi in ufficio. Non mi aveva ancora dato un appuntamento e i nostri incontri erano sempre casuali. Sapevo che di casuale c'era ben poco, anche lui cercava di vedermi con le scuse più strane e questo mi bastava e mi faceva stare bene. Passeggiavamo vicini, mi accompagnava a casa e ormai parlavamo apertamente di molte cose. Io gli raccontavo della mia famiglia, di come l'epidemia di Spagnola avesse cambiato le nostre vite e di quella che era stata la mia infanzia nella bellissima terra pugliese. Lui amava ascoltarmi. Un giorno mi disse: - Adoro sentirla parlare della Puglia e della sua città, la descrive in modo così dettagliato che se chiudo gli occhi mi sembra di essere seduto sulla spiaggia di fronte al mare. - Ogni volta che mi faceva un complimento mi sentivo bruciare le guance. Lui si era accorto di questa mia debolezza e sembrava farlo di proposito. Passò qualche settimana e, oltre a qualche passeggiata e qualche sguardo imbarazzato, non si pronunciò mai sui suoi sentimenti. Fino a quel giorno. Uscita dal lavoro, percorrendo la strada di casa, lo vidi appoggiato al muro con la gamba destra accavallata sulla sinistra, mentre con aria imperscrutabile mi guardava e sorrideva da lontano. Stava fumando una sigaretta e il fumo lo avvolgeva regalandogli un aspetto ancora più misterioso. Quando fui vicina vidi il mio riflesso in una vetrina e mi resi conto che stavo sorridendo senza nemmeno accorgermene, avevo un'aria così felice. Una volta di fronte a lui mi resi conto che la sua espressione era diversa dal solito. Sembrava teso. Forse era solo una mia impressione e decisi di non chiedere niente. - Buonasera Luisa. - - Buonasera. - - Una magnifica serata, non trova? - - Decisamente bellissima - risposi e mi resi conto di essermi irrigidita. - Posso farle compagnia sulla strada di casa? - - Mi farebbe piacere. - Ci incamminammo vicini senza mai sfiorarci, mi raccontò della sua giornata e io gli raccontai della mia. Arrivati sotto casa mi resi conto che mia madre era sul balcone con mia sorella, erano perse in chiacchiere. Per un attimo mi bloccai, non sapevo se continuare o tornare indietro e salutare Raffaele dietro l'angolo. Troppo tardi. Mia sorella si stava sbracciando, mia madre mi guardò sorpresa, salutando timidamente con la mano il mio accompagnatore. Lui ricambiò con un sorriso. Non ebbi nemmeno il tempo di pensare che subito lei sbucò da dietro il portone. Mi girai verso Raffaele pensando che fosse in imbarazzo per quella situazione. Invece aveva un'aria tranquilla e compiaciuta. C'erano molti anni di differenza tra di noi e pensavo che mia madre avrebbe obiettato. - Buonasera - disse lei senza perdere tempo. - Buonasera signora, è un piacere conoscerla. Mi sono permesso di accompagnare sua figlia a casa. Spero non le dispiaccia. - Mia madre era una donna di mentalità molto aperta per quell'epoca e rispose senza pensarci. - La ringrazio per il riguardo verso mia figlia. Lei è un uomo molto gentile. - - Signora, non vorrei sembrare impertinente, ma vorrei chiedere a lei e alle sue figlie di essere mie ospiti a teatro per la rappresentazione di Madama Butterfly, che si terrà venerdì sera. - Nel mio cervello scese il buio totale, non riuscivo a pensare e la mia bocca era paralizzata. Non sapevo cosa avrebbe risposto mia madre ma la sua espressione era distesa e non mi sembrava contrariata. Inspirò a lungo e poi gli rispose: - La ringrazio davvero molto. Sarebbe un onore venire a teatro con lei e le mie figlie. - - Bene, allora è deciso. Ci rivedremo venerdì alle otto davanti al teatro. - Guardò mia madre negli occhi e si scambiarono un cenno con il capo in segno reverenziale, quasi fosse un inchino. Quando andò via, lo salutai guardando per terra. Mentre salivamo in casa io e mia madre rimanemmo in silenzio. Entrammo e lei si sedette al tavolo della cucina. Io la guardai per cercare di capire cosa stesse pensando. Nonostante l'età e i dispiaceri che aveva avuto nella vita, era ancora una donna bella e affascinante e la sua classe mi faceva invidia. Sembrava una farfalla libera ed elegante. Mi sedetti di fronte a lei e la guardai senza emettere un suono. - Racconta - mi disse. Non sembrava arrabbiata, la sua era pura curiosità e voglia di sapere qualcosa in più sull'uomo che aveva rapito il cuore di sua figlia. Esplosi come una bomba a orologeria e cominciai a raccontare con aria sognante ogni singolo momento vissuto con Raffaele e, mentre parlavo, lei mi fissava con gli occhi luccicanti. - Ah, l'amore! - disse quando ebbi terminato. - Cosa ne pensi, mamma? - Le chiesi ansiosa. - Non lo so, l'ho visto solo qualche minuto. Mi sembra un uomo distinto e riservato. È parecchio più grande di te, o sbaglio? - - No, mamma, non sbagli. Ci sono diciassette anni di differenza fra noi, ma sembra molto più giovane della sua età. Non trovi? - - Effettivamente non avrei pensato ci fossero quasi venti anni di differenza. Si vede che è più grande di te, ma porta decisamente bene i suoi anni. - - Mamma, credo di essere innamorata di lui. - - L'amore è una cosa meravigliosa, figlia mia, ma ti chiedo di stare attenta e di non farti mancare di rispetto. - - Certo, mamma. Raffaele è un vero galantuomo. - - Bene. Questa è la cosa più importante. Spero che sarete felici. - Quella sera a cena parlammo sempre di Raffaele e dei nostri incontri, mi piaceva raccontare mentre le mie sorelle mi ascoltavano sognanti, come se stessi leggendo loro un libro di avventure. Finalmente arrivò quel venerdì. Eravamo tutte bellissime ed eleganti. Cinque donne meravigliose e splendenti in abito da sera. Quando arrivammo davanti al teatro, Raffaele rimase a bocca aperta. Sbarrò gli occhi e ci venne incontro frastornato. Si presentò alle mie sorelle e io sembravo un pavone. Ero così orgogliosa del mio - principe - . Quella serata non la dimenticherò mai. Fu una delle più belle e spensierate della mia vita. Essere accanto all'uomo di cui mi ero innamorata e condividere quella immensa gioia insieme alla mia famiglia mi regalò attimi di forte emozione. Tornai a casa con il cuore in gola. Anche mia madre e le mie sorelle erano contente e non smettevano di commentare la serata. In quell'occasione scoprii che andare a teatro mi piaceva moltissimo e in seguito ci furono altre occasioni.
Qualche settimana più tardi successe una cosa che non mi aspettavo. Tornai a casa dall'ufficio e, girato l'angolo di casa, rimasi delusa. Era qualche giorno che non vedevo Raffaele. Nessun biglietto, nessun incontro - casuale - . Niente. La paura mi assalì stringendomi la gola e per un attimo mi sembrò di soffocare. Il terrore di essere stata presa in giro mi prese allo stomaco. Mi fermai davanti al portone fissando una crepa nel muro. Feci dei lunghi respiri profondi. Mi sforzai di sorridere e salii in casa. Aprii la porta. - Mamma, sono a casa. - - Bentornata, amore. Guarda chi ci è venuto a trovare! - Per un secondo pensai alla vecchia vicina che ogni tanto scendeva a fare due chiacchiere con mia madre. Mi piaceva molto quella signora, ma in quel momento non ero molto in vena di fare conversazione. Arrivai in cucina a testa bassa per cercare di non incrociare lo sguardo di mia madre, quando all'improvviso i miei occhi si posarono su un paio di mocassini di cuoio che conoscevo bene. Una vampata mi assalì. Raffaele era a casa nostra, seduto nella nostra cucina. Rimasi impalata davanti alla porta, guardandolo con gli occhi sgranati. Mia madre si accorse del mio disagio e intervenne prontamente. - Vieni, amore mio. Perché non ti siedi qui con noi? Raffaele ci vuole parlare. - Mi accomodai vicino a mia madre, lui era di fronte a noi. Fece un bel respiro e disse: - Luisa, sono venuto a casa vostra per chiedere a sua mamma il permesso di sposarla! - In quel momento il mondo si fermò. Le orecchie si tapparono e lo stomaco fece quattro o cinque capriole. - Di sposare me? - chiesi stupidamente. Mia madre e Raffaele sorrisero e si guardarono complici. - Sì, Luisa, sarebbe un onore se volesse diventare mia moglie. - Volevo urlare di gioia. Pensavo mi crescessero le ali dietro la schiena. - Mi farebbe molto felice diventare sua moglie. - Si alzò e mi abbracciò sollevandomi da terra. Mia madre aveva gli occhi gonfi di lacrime e teneva le mani giunte al petto. Raffaele mi mise giù delicatamente e senza staccarmi gli occhi di dosso frugò con la mano nella tasca destra. Ne estrasse una scatolina di velluto rosso scuro che tenne chiusa per qualche attimo, il tempo di scrutare nei miei occhi la meraviglia, di cogliere nel mio volto quell'espressione di sorpresa che si aspettava. L'aprì piano. Staccai gli occhi dai suoi e li posai su quel gioiello bellissimo e scintillante che mi lasciò senza fiato. Una fascetta tempestata di diamanti che diffondeva una luce quasi irreale. Non avevo parole, ero frastornata, talmente sorpresa da non riuscire a esprimere in nessun modo quello che stavo provando. Lui mi scrutava discreto e, prima che potessi dire qualcosa, mi sollevò da quel momento imbarazzante: - Luisa, amore mio, mi vuoi sposare? - Era la prima volta che mi dava del tu e mi chiamava amore. Non capivo più niente, il cuore mi batteva talmente forte che credevo uscisse dal petto. Le parole si incastrarono insieme ai pensieri. Pronunciai un - Sì - timido ma deciso. Ero convinta di quell'amore discreto ma coinvolgente, mi sentivo protetta tra le braccia di quell'uomo che mi ricordavano quelle di mio padre, nelle quali mi tuffavo quando ero triste. Avevo bisogno di sentire quella protezione che solo una figura maschile in quel periodo della mia vita avrebbe potuto darmi. Lo abbracciai teneramente, ma allo stesso tempo provai una grande attrazione, sentivo che stavo cambiando, che oltre ai sentimenti c'era qualcosa di più. Ricacciai subito quel pensiero e arrossii. Tutti pensarono che fosse legato all'imbarazzo del momento e io ero felice che certe sensazioni rimanessero solo mie. Tolse dalla custodia quella meraviglia e mi infilò al dito quell'anello di finissima fattura. - Ti piace? - mi chiese scrutando la mia espressione. - È stupendo. - Le mie sorelle capirono il mio disagio e mi vennero intorno senza dignità, facendo mille commenti positivi su quell'oggetto che avevano visto solo nelle vetrine scintillanti dei gioiellieri. Cinguettavano come passeri su un ramo e a turno mi abbracciarono, condividendo con me quel momento speciale. Mia madre mi guardava stando in disparte. Fui io ad andare verso di lei avendo la sensazione che con quel sorriso volesse esprimere tutta la sua comprensione, la gioia di vedermi felice. L'abbracciai teneramente, ma non fui capace di dire neanche una parola. Indietreggiando come un gambero, quasi avendo pudore di girarle le spalle, tornai da Raffaele. Lui mi afferrò una mano e la strinse nella sua, mi guardò per un attimo e poi si rivolse a mia madre: - Con il suo permesso, signora, vorrei fare due passi con sua figlia. - - Certo, andate pure, ma la riporti a casa per cena. - Scendemmo in strada. Facemmo qualche passo, lui si fermò di fronte a me e mi prese le mani. Quel contatto inaspettato mi fece sussultare. - Va tutto bene? - mi chiese preoccupato. - Sì, sono così emozionata! - - Anche io lo sono, non ho mai incontrato una donna come te, così bella ed elegante. Sembri una ragazza insicura e invece conoscendoti ho capito che sei una meravigliosa donna indipendente e forte. Con te al mio fianco sono sicuro che sarò l'uomo più felice del mondo. - Smise di parlare per qualche secondo, sembrava volesse esplorare la mia anima attraverso gli occhi, poi improvvisamente guardò le mie labbra. Il cuore sembrava un tamburo in una banda, pensavo che ormai riuscisse a sentirlo anche lui. Mi scostò una ciocca di capelli davanti agli occhi e mi sfiorò prima la fronte, poi la guancia. Avrei voluto baciarlo, ma non potevo. Lui fece un passo indietro e disse: - Devo dirti una cosa importante. Mi è stato chiesto di trasferirmi a Mogadiscio, in Somalia, per la realizzazione della rete stradale nelle colonie italiane. Potrei partire a giorni. - Si fermò per cercare di capire la mia espressione che da sognante era diventata improvvisamente preoccupata. - Devo chiederti se sei disposta a trasferirti con me in Somalia e a lasciare la tua famiglia. So che non è facile, ma spero di ritornare in Italia entro qualche anno. - Ero scioccata. Non mi aspettavo tutte quelle notizie in una giornata. - Io sono innamorata. Vorrei seguirti in questa impresa, ma vorrei prima discuterne con mia mamma e le mie sorelle. Ci vorrei pensare questa notte, domani ti darò una risposta. - - Certo, capisco che non sia una decisione semplice e devi avere il tempo necessario per riflettere. - Tornammo sotto casa, non ci eravamo allontanati molto, ma lui era un cavaliere e aspettava sempre che entrassi nel portone prima di andare via. Mi diede un bacio sulla fronte e mi disse: - Spero davvero di poter condividere il resto della mia vita con te. - Parlai a lungo con mia madre fino a tardi, ma alla fine lei mi disse quello che mi diceva sempre: - Decidi tu, bimba mia, l'importante è che tu sia felice. - Quella notte fu infinita. Mi rigiravo nel letto tormentata dai pensieri che si accalcavano nella mia testa. Era una scelta difficile. Ero spaventata. Avevo già vissuto il trasferimento in un'altra città, ma questa volta era completamente diverso. La mia famiglia sarebbe rimasta in Italia e io sarei partita per un continente sconosciuto in una città troppo lontana. Mi sembrava di impazzire e la testa mi scoppiava. Improvvisamente mi resi conto che fuori dalla mia camera c'era mia sorella Arcangela che mi guardava scuotendo la testa con la sua solita aria furbetta. - Posso? - mi chiese prima di entrare in camera e di sedersi in fondo al letto. - Vieni, tanto non riesco a dormire. - - Immagino, non è una decisione semplice quella che devi prendere, sorellina. Io però ti posso dire che non ti ho mai vista così felice e credo che quello tra te e Raffaele sia amore vero. Se è così, dovresti sposarlo e partire con lui. Non ti preoccupare, noi ce la caveremo benissimo e staremo vicine alla mamma. Tu vai, ci scriveremo ogni giorno, cosi sarà come se fossimo in Africa con te. - Non riuscii a trattenere le lacrime che iniziarono a sgorgare incontrollate. Abbracciai forte mia sorella e anche lei si abbandonò al pianto. Mia madre ci sentì singhiozzare e si affacciò. Vedendoci piangere capì che avevo deciso di andare via. Senza proferire parola si sedette sul letto insieme a noi e ci abbracciò forte. Era straziante l'idea di non rivedere per anni la mia famiglia, ma una nuova avventura mi aspettava ed ero elettrizzata.
L'indomani corsi incontro a Raffaele e gli annunciai che avevo deciso di sposarlo e di andare in Africa insieme a lui. - Luisa, amore mio, mi hai reso l'uomo più felice della Terra. Devo però dirti che andrò via domani. La mia partenza è stata anticipata. Ci sposeremo per procura. Penserà a tutto mio fratello. - Quella notizia mi aveva destabilizzata. Non pensavo che quel giorno fosse così vicino. Speravo di partire insieme a lui e invece avrei sposato uno sconosciuto per procura e avrei affrontato un viaggio lunghissimo da sola. Lui si rese conto che tutto ciò che mi aveva appena detto mi spaventava molto. Mi abbracciò e, passandomi una mano tra i capelli, mi sussurrò: - Andrà tutto bene. Sei una donna incredibilmente forte. Riuscirai a superare queste difficoltà e a raggiungermi in Africa al più presto. - Lo sentii ancora più vicino e avrei voluto che quell'abbraccio durasse per sempre. - Non ti dovrai preoccupare di niente. Penserò a tutto io. Vedrai, sarà tutto perfetto. Ti fidi di me? - Riuscii a rispondere solo un - Sì£ strozzato e con le lacrime agli occhi lo salutai. Non lo avrei rivisto per parecchio tempo.
Raffaele era un uomo di parola e aveva organizzato tutto alla perfezione. I documenti per il matrimonio erano pronti e il viaggio era già organizzato. Passarono circa tre settimane e arrivò il grande giorno. Eravamo tutte emozionate in casa, ma quella situazione mi sembrava surreale. Mia madre mi aveva confezionato un vestito da sposa molto semplice ma quando me lo misi rimasero tutte a bocca aperta. - Sembri un angelo - mi disse, mentre le mie sorelle mi guardavano compiaciute. Ci recammo in comune e ad aspettarmi, anziché il mio bellissimo sposo, c'era suo fratello. Lo avevo visto solo una volta. Era più giovane di Raffaele di qualche anno ed era un bell'uomo anche lui. In volto si assomigliavano ma i colori dei capelli e degli occhi li rendevano molto diversi. Raffaele era moro con gli occhi neri, mentre suo fratello era quasi biondo con gli occhi chiari. Aveva un viso molto solare e quando mi vide vestita di bianco i suoi occhi brillarono. Durante la cerimonia immaginai Raffaele accanto a me. Era strano e frustrante ma adesso che ero sua moglie volevo solo correre da lui per iniziare la nostra vita insieme. Finita la celebrazione, corsi a casa a preparare le valigie. Sarei partita cinque giorni dopo. Mi aspettavano due settimane di nave. Chissà quante avventure avrei vissuto insieme al mio sposo! Quel viaggio era solo l'inizio. Entrai in camera e con ancora il vestito da sposa indosso mi lanciai sul letto, cominciai a saltare come facevo quando ero bambina, le mie sorelle e mia madre facevano da spettatrici, sbalordite da quell'impeto di felicità. Finché non si udì uno schiocco secco. L'asse del letto cedette sotto i miei balzi. Le mie sorelle scoppiarono all'unisono in una fragorosa risata. Io mi sentii tremendamente in colpa. Mia madre aveva smesso di ridere. Mi guardò e disse: - Non ti preoccupare, la faremo aggiustare dal nostro vicino che si diletta in piccoli lavori di falegnameria. Adesso però scendi prima di distruggere tutta la casa. - Mia madre decise di accompagnarmi al porto di Genova mentre le mie sorelle sarebbero rimaste a occuparsi della casa. Prima di partire le abbracciai a lungo e piangemmo tutte insieme. Non ci eravamo mai separate. Erano tristi nel vedermi andare via ed erano molto preoccupate per il viaggio che dovevo affrontare da sola. Ma sapevano che sarei stata in grado di sostenere con grande coraggio le sfide che mi si sarebbero presentate davanti. Durante il percorso mia madre mi dispensò consigli di ogni tipo, da come vestirmi a come comportarmi, e mi fece promettere che le avrei scritto ogni giorno. - Te lo prometto, mamma. - - Brava, bimba mia - disse accarezzandomi una guancia. Tirò fuori dalla borsa una busta. L'aprii delicatamente cercando di non rompere la carta. All'interno c'erano una lettera e due foto di famiglia. Nella prima c'era anche mio padre e noi eravamo ancora delle bambine. L'altra ritraeva quattro donne fiere ed eleganti con i cappelli in testa. Non avevamo molte fotografie in casa, quelle due erano esposte sulla mensola dell'ingresso. Con uno sguardo dolce mi disse: - Così ci porterai sempre con te. - Nella lettera mia madre era riuscita, per quanto possibile, a mettere nero su bianco i grandi sentimenti di amore e orgoglio che provava per le sue figlie. Mentre leggevo una lacrima cadde sul foglio facendo sciogliere l'inchiostro di qualche parola. Si asciugò formando una macchia che sembrava un fiore. Misi dentro la borsa quel piccolo tesoro.
Arrivate a Genova, il vento dal mare ci investì con il suo profumo e la mia anima si riempì di speranza. Mi mancava la brezza marina e, a giudicare dal viso di mia madre, mancava anche a lei. Chiudemmo gli occhi e rimanemmo qualche istante a godere di quel venticello gradevole. Ci incamminammo verso il porto. C'erano parecchi militari e operai, ma di donne se ne vedevano poche, molte erano le mogli dei passeggeri che da terra li salutavano con un fazzoletto bianco. Mi feci coraggio e avanzai sulla banchina. Mi fermai a chiedere a un signore quale fosse la nave per Mogadiscio. Mentre mi indicava la direzione con il dito, la vidi. Era una nave enorme. Non avevo mai visto niente del genere. Abitando vicino al mare ero abituata a vedere barche e navi, ma non avevo mai visto un piroscafo. Mi sentii una piccola formica in confronto a quel titano di ferro. Sul ponte della nave spuntavano due enormi ciminiere che sembravano sigari accesi. Sul molo c'erano tantissime persone che ammiravano estasiate quel gigante dei mari. La nave era approssimativamente divisa per classi. Non era uno di quei lussuosi transatlantici che partivano per l'America, ma aveva comunque il suo fascino e gli interni della prima classe erano raffinati ed eleganti. Sulla fiancata dello scafo si leggeva a caratteri cubitali il nome - Colombo - . Diedi un ultimo sguardo al biglietto che stringevo tra le mani e controllai il nome dell'imbarcazione. Corrispondeva. Oltre a nome, cognome e prima classe, il biglietto riportava la scritta - linea celere n. 153 Tirreno-Africa Orientale Italiana con partenza da Genova e scalo a Napoli (secondo giorno), a Port Said (quinto giorno), a Suez (sesto giorno), a Massaua (nono giorno), Assab (dodicesimo giorno) e a Gibuti (tredicesimo giorno), ultima tappa Mogadiscio (quattordicesimo giorno). Quello era il mezzo che mi avrebbe portata da mio marito. Ero impressionata dalle dimensioni di quella nave e anche mia madre era rimasta senza fiato con il naso all'insù. La banchina brulicava di gente. Molti uomini in abito elegante, ufficiali e marinai in candide divise bianche e cappelli che li rendevano affascinanti agli occhi delle giovani donne. Famiglie che aspettavano di essere riunite ai propri cari e coloro che aspettavano di iniziare una nuova vita lavorativa nella grande colonia italiana. Mentre mi giravo per salutare mia madre, l'imbarcazione emise un suono assordante e io feci un salto per lo spavento. Si accorse che ero molto tesa, ma non disse niente. Mi abbracciò e mi augurò buona fortuna dicendomi una frase che mi ripeteva da quando ero bambina: - Ricordati della forza del sole, della meraviglia della luce che all'alba scaccia il buio; per quanto possa essere tenebrosa la notte, il giorno arriverà e il sole splenderà in alto nel cielo. - Adoravo quella metafora. Mi regalava una forza straordinaria e mia madre lo sapeva. L'aveva scritta anche nella lettera per ricordarmi sempre di essere coraggiosa e di affrontare ogni peripezia a testa alta. Quel giorno un pezzo del mio cuore rimase su quella banchina. Una volta salita sulla nave, sistemai i miei bagagli in cabina, misi le fotografie sul comodino e mi diressi subito sul ponte. Volevo vedere mia madre che mi salutava con il fazzoletto. Ci misi un po' a riconoscerla in mezzo a tutta quella gente. Ma il suo vestito a fiori mi aiutò nella ricerca. Una volta individuata, iniziai a sbracciarmi e a mandarle baci. Lei agitava un fazzoletto bianco e da lontano non riuscivo a vederla in volto ma ero sicura che le lacrime le stessero scendendo sulle guance. Le procedure di imbarco dei passeggeri durarono parecchio per le ispezioni sanitarie e il controllo dei titoli di viaggio. Dopo diverse ore, salpammo e senza neanche accorgermene eravamo già in mare aperto. Abbandonai il ponte per stendermi in cabina. Ero molto stanca. Quegli ultimi giorni erano stati pieni di emozioni e mi sentivo esausta.
Passarono un paio di giorni tranquilli, adoravo passeggiare sul ponte assaporando gli spruzzi d'acqua salata sul mio volto. Mi incantavo per ore a guardare la prua della nave rompere quel tappeto di velluto blu scoppiettante. Lo sciabordio delle onde sulla fiancata della nave era ipnotico. Un giorno strizzai gli occhi perché vidi qualcosa avvicinarsi all'imbarcazione, erano delfini. Rimasi sbalordita da quelle creature danzanti e vivaci. Mi tornarono alla mente i racconti dei pirati che solcavano i mari e cominciai a viaggiare con l'immaginazione.
Chiara Cruciani
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