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Autore: Franco Filiberto
La civetta e la bambina
Romanzo
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La civetta e la bambina
L'uomo dei ghiacci.
Anno 3.280 a.C. Alpi Venoste

Il vento soffia impetuoso, con cattiveria. Le raffiche si susseguono, sollevando dal suolo mulinelli di neve. Neve; ovunque neve e ghiaccio.
Il cielo è scuro e sta riversando su quei monti impervi tutta la sua furia. L'uomo è stremato e la ferita alla spalla fa sempre più male. Anche il costato è dolorante e il bisogno di respirare lo costringe a dilatare il petto e a contorcersi per le fitte. Purtroppo sa che il freddo non perdona; deve trovare un riparo al più presto per avere qualche speranza di sopravvivere.
Continua a salire, con le gambe che stentano a rispondere ai comandi e i muscoli che bruciano. Conosce quei luoghi e ricorda bene che il crinale non è lontano.
Può farcela. Sa che può farcela; stringe i denti e arranca appoggiandosi all'arco che aveva iniziato a costruire. Andare avanti è l'unica cosa a cui riesce a pensare.
Ora il terreno ha meno asperità, la pendenza va pian piano addolcendosi e le grida dei suoi inseguitori, mescolate al sibilare del vento, si sono affievolite fino a cessare.
Il cielo sembra impietosirsi e apre ampi squarci fra le nuvole.
Ha un disperato bisogno di fermarsi un po', solo il tempo di far calmare il dolore, di dare un po' di riposo alle gambe e alla schiena. Si sdraia su un fianco e cerca di toccare la spalla dove si è conficcata la freccia, per sentire se la ferita sta continuando a sanguinare. Sente lo spezzone di freccia, ma il sangue si è quasi fermato.
Il respiro si fa lentamente più calmo e sente che la tensione si sta allentando.
Non deve addormentarsi, non deve assolutamente cedere alla stanchezza che gli morde i muscoli e che si insinua in tutto il corpo.
Ancora pochi attimi e riprenderà la marcia. Solo pochi attimi.
Il vento ha spazzato via le nuvole e, nella volta stellata, milioni di punti luminosi vibrano e sembrano avvicinarsi per proteggerlo. Le gambe non fanno più male, così come la ferita alla spalla. Anche le costole hanno finalmente smesso di tormentarlo. Il cielo sembra illuminarsi, ma forse solo nella sua mente. O forse no; non è la sua immaginazione, ora la vede bene: è una scia splendente che proviene dal lato dove tramonta il sole. Rimane affascinato e stupito: non aveva mai visto niente del genere, niente di così scintillante. Forse è vero, forse una stella sta scendendo su di lui per scaldarlo, per proteggerlo.
Continua a fissare quella luce, come se quel bagliore così intenso potesse celare la sua salvezza.
Poi le palpebre si chiudono e, in una tragica dissolvenza, tutto scompare nel buio più profondo e assoluto. Per sempre.

19 settembre 1991, Alpi Venoste

Helmut ed Erika sono in vacanza in Alto Adige e hanno preso alloggio a Madonna di Senales. La loro idea è di fare un'escursione sulla vetta del monte Similaun, quindi si incamminano sul sentiero che li porterà a 3.599 metri d'altezza. La salita presenta più difficoltà del previsto e i due raggiungono la vetta solo a pomeriggio inoltrato.
- Gli anni si fanno sentire - scherza lei.
- Parla per te - ribatte lui. - In ogni caso mi sembra troppo tardi per continuare. E lo dico più per te che per me! -
Decidono quindi di pernottare nel vicino “Rifugio Similaun” e continuare la loro escursione il giorno seguente: più freschi e riposati affronteranno meglio la fatica.
Si alzano all'alba. La giornata si preannuncia splendida e decidono di scalare la Punta di Finale; giunti in vetta si riposano, beandosi di una vista incantevole. Dopo un'ora circa, si mettono in cammino verso il Rifugio, per prendere i loro bagagli. Sono stanchi ma soddisfatti, la loro escursione è stata piacevole e divertente.
Arrivati nei pressi del ghiacciaio Hauslabjoch, la coppia si imbatte in qualcosa di imprevisto.
- Helmut, che cos'è? - chiede lei, indicando un punto del ghiacciaio.
- Cos'è cosa? -
- Lì. Non vedi? -
Helmut socchiude le palpebre, ma il riverbero di luce sul manto bianco gli impedisce di vedere.
Senza aggiungere altro, si dirigono verso il punto indicato da Erika e ciò che si presenta ai loro occhi li lascia sconcertati.
Si tratta dei resti di un essere umano che emerge parzialmente dal ghiaccio; pensano a un escursionista che ha avuto meno fortuna di loro. Scattano una fotografia per poter successivamente identificare il luogo e riprendono la marcia verso il Rifugio, dove la notizia del ritrovamento viene appresa senza molto stupore. La gente di montagna sa che il ghiacciaio restituisce spesso le sue vittime.
Vengono avvertite le autorità italiane e austriache. Erika ed Helmut ripartono per tornare nella loro casa in Germania. È il 23 settembre 1991.

Il commissario Toni Corona si rigirò nel letto come aveva fatto per tutta la notte. Il caldo era stato opprimente e l'umidità, stando ai bollettini meteo, aveva raggiunto livelli record. Dormire non era possibile, così si alzò dal letto e si tolse la maglietta che aveva ampie chiazze di sudore un po' ovunque. Ne prese una asciutta e la indossò, poi andò in cucina, mise sul fuoco la caffettiera e si sedette in attesa. Dette uno sguardo al calendario e il cerchio rosso sulla data del 18 agosto gli fece ricordare che ormai mancavano solo tre giorni al compleanno della figlia; due per andare a comprarle un regalo. Pensò con commozione al giorno in cui quello scricciolo urlante pieno di capelli aveva fatto irruzione nella sua vita e che, fra tre giorni, avrebbe tagliato il traguardo dei 18 anni.
Lo squillo del telefono gli procurò una fitta alla testa, andò in salotto a prendere l'apparecchio e rispose subito per far cessare quel suono molesto.
- Pronto. -
- Buongiorno dottore, l'ho svegliata? -
- Non dormo mai. Che c'è, Gerace? -
- Hanno trovato un cadavere. È già andata la Moro, ma mi ha detto di avvertirla. -
- E tu mi hai avvertito. Ora vuoi anche dirmi dov'è questo cadavere? -
- Via Sacco e Vanzetti, proprio sotto il ponte dell'autostrada. Si trova nella zona... -
- So dov'è. Avverti la Moro che sto andando lì. -
- Chiamo subito, dottore. -
Il commissario chiuse la telefonata e guardò con disappunto la caffettiera che sbuffava. Spense il fornello, ma il liquido scuro continuava a bollire e a spandersi sul piano cottura. Mise la caffettiera nel lavello e fece scorrere l'acqua per raffreddarla, ottenendo una nuvola di vapore dall'odore di bruciato. Aprì la finestra, poi, imprecando fra sé e sé, andò in bagno. Avrebbe fatto una sosta al bar sotto casa.

Parcheggiò l'auto subito dietro la volante e rispose con un cenno al saluto dell'agente che stazionava ai margini della zona delimitata dai nastri. Oltre le case, il sole stava sorgendo e l'aria era già calda. Sarebbe stata un'altra giornata d'inferno. L'ispettore Lia Moro sembrò leggere i suoi pensieri.
- Buongiorno commissario, sembra che anche oggi farà caldo! Venga, il cadavere è lì, vicino a quei rifiuti. -
Il commissario si limitò ad annuire e seguì la collega.
Il corpo era a terra, a circa un metro di distanza da una piccola discarica abusiva. Apparteneva a una donna che giaceva prona con le gambe distese e un braccio ripiegato sotto il corpo all'altezza del collo, come se il cadavere fosse stato fatto rotolare. Indossava una camicetta e una gonna che era sollevata fino quasi alla cintura. Il medico legale aveva appena finito il suo lavoro e, andandogli incontro, lo salutò con cordialità.
- Buongiorno, dottoressa. Può darmi qualche anticipazione? -
La dottoressa Domitilla Decarlo era una donna piuttosto avvenente, sempre elegante e con il sorriso aperto e cordiale, cosa che faceva di lei una mosca bianca nel mondo degli anatomopatologi.
- Volentieri, se posso. Cosa le interessa sapere? -
- Le solite cose. Causa e ora della morte, età... -
La dottoressa lo interruppe: - Venga, non è un bello spettacolo ma è meglio che veda. -
La Decarlo tornò sui suoi passi con il commissario e fece un cenno ai due inservienti che attendevano di portare via il corpo.
- Giratelo, per favore. -
I due obbedirono e ciò che il commissario vide gli fece nascere sul viso un'espressione indefinibile, come se avvertisse un dolore fisico, una fitta. La parte anteriore del corpo era letteralmente coperto di ferite, alcune strette e profonde, altre lunghe e più superficiali, che non avevano risparmiato neanche il volto.
Nonostante non fosse alle prime armi e avesse già avuto a che fare in passato con situazioni del genere, gli venne istintivo distogliere gli occhi da quello scempio.
- Ho contato più di quaranta ferite - commentò il medico, - e molto probabilmente quella mortale è stata quella inferta al collo. -
- Troppo poco sangue. Non è questa la scena primaria del crimine - commentò pensieroso il commissario che aveva ripreso a guardarsi intorno.
- Sono d'accordo, anche se sono del parere che molti di quei tagli siano stati inflitti post mortem. Non c'è sanguinamento, specialmente sul volto e sul petto. Forse un delitto passionale? -
Corona fece un piccolo cenno di diniego. Il movente passionale non lo convinceva. I colpi sembravano essere stati inferti a casaccio, e non erano concentrati sul seno e sui genitali. No, il movente passionale non lo convinceva, anche se quella gonna sollevata...
- A un primo esame non c'è stata violenza sessuale - aggiunse la dottoressa che sembrava aver intuito i pensieri del commissario. - L'età è di circa 55 anni e l'ora della morte, con il caldo di questi giorni, non è facile da stabilirsi. Dipende da molti fattori... diciamo non meno di due giorni. Naturalmente sarò più precisa nel mio rapporto. -
- Documenti, telefono, borsetta? -
- Niente; i ragazzi della scientifica hanno controllato anche fra i rifiuti. Non hanno trovato nulla. Del resto, come ha notato lei, non è stata uccisa qui e l'assassino certo non ha interesse a facilitare le indagini. Quando questa poveretta avrà un'identità, forse, qualche aspetto risulterà più chiaro. Ma questo riguarda lei - concluse la Decarlo, regalando al commissario uno dei suoi sorrisi prima di congedarsi.
Il commissario si avvicinò all'ispettore Lia Moro: - Io rientro in commissariato. Aspetta che abbiano finito e rientra anche tu. Dobbiamo stabilire come procedere. -
Si avviò alla macchina e pensò che un altro caffè ci voleva proprio.

Franco Filiberto

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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