S.R.L. Furfanti allo sbaraglio
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- Il business plan.
Tirava uno scirocco insopportabile, che non dava tregua; il caldo umido percepito era ben oltre i 37 gradi segnati dai termometri delle case di Malaffare, unico centro abitato di una piccola e remota isola di un arcipelago del Mare Nostrum. — E siamo solo a giugno — esclamò Concetta Fora maritata Catanese, mentre osservava una goccia di sudore scendere lenta tra le sue tette strizzate da un reggiseno a balconcino. — Che giorno è oggi? — biascicò Paolo, il marito. Aveva giusto mosso i muscoli necessari per porre la domanda senza faticare. Era stravaccato su una sedia a sdraio, sulla veranda di casa, con i piedi poggiati alla ringhiera. — Non hai il telefono? — L'ho lasciato in ufficio. — Non mi alzo certo io per andartelo a prendere. — Allora dimmi che giorno è, della settimana. — Non lo so, ho perso il conto; ma perché ti interessa? — Per sapere quanti giorni restano per presentare il business plan. Concetta saltò sulla poltroncina di plastica, che scricchiolò: — Ma come, ancora non l'hai presentato? — No, neppure firmato. — E perché? Paolo Catanese non rispose. La catena, placcata oro, che portava al collo, aderente come una seconda pelle, iniziò a stringersi, simile a una cintura infilata nei passanti di un paio di pantaloni diventati larghi: arretrò di un buco, e poi di un altro. Paolo fece finta di niente. Era già capitato che la catena si muovesse, come animata da forza propria, se compiva uno sforzo, se gli si alzava la pressione, se russava nel sonno. Sì, anche nel sonno, perché non se la toglieva mai. La portava da talmente tanto tempo da non ricordarsi neppure lui quando se l'era legata addosso. Gli piaceva troppo la sua maglia fitta, non sapeva come si chiamasse, ma ricordava quella dei collari a strozzo per cani di grossa taglia, altrimenti ingestibili. La catena però si strinse ancora. Paolo infilò due dita, per creare spazio attorno alla pelle sudata e alla gola stretta, quando sentì un - tac - . Forse era riuscito a fermarla. Ora poteva parlare, rispondere a Concetta, ma non poteva dirle che si era dimenticato l'unico incarico ricevuto dall'ideazione di tutta la faccenda. La lasciò continuare: — La scadenza è vicina, 30 giugno 2016: se non la rispettiamo salta tutto; poi, lo senti tu mio padre! Vuoi rischiare che ci cacci di casa? Non so quante volte te l'ho detto e ricordato e ripetuto. Hai riletto, almeno? Hai visto dove ti ho messo le crocette? — Crocette? — Sì, per la firma: dove devi firmare. — Minchia! E che sono, stupido? — La firma va vicino alle crocette: sono cinque. — E che? Le crocette, mi conti? — E poi, le devi cancellare. — Pure?! Si innervosì, Paolo Catanese. Tolse un piede dalla ringhiera, abbassò una gamba, poi l'altra, sollevò il busto e appoggiò i gomiti sulle ginocchia; il cranio pelato, eccessivo rispetto al contenuto, penzolò ciondoloni tra le spalle. Era davvero irritato; quando gli capitava c'era un esercizio rituale in grado di calmarlo: concentrare la propria attenzione sulla catena e aspettare che lei, la catena, prendesse una decisione. Si concentrò: si sarebbe stretta ancora? No, per il momento pareva ferma su quella larghezza non troppo comoda per la verità, ma tale da lasciarlo respirare. Dopo qualche minuto, necessario a verificare che davvero non stringesse, Paolo iniziò a guardarsi intorno, alla ricerca dei pezzettini della sua calma sparsi a terra. Le verande di fianco erano deserte. Molto probabile che tutti fossero chiusi nelle case. La maggior parte di esse erano poco più che baracche costruite anni addietro con materiale di recupero, racimolato qua e là, tra gli scarti di cantiere. Con il tempo, erano aumentate di dimensioni e numero fino ad assumere l'aspetto di edifici abitativi a tutti gli effetti. Una ventina, allineate una accanto all'altra lungo la spiaggia su cui erano sorte, ne occupavano in lunghezza buona parte, le fondazioni gettate nella sabbia e una veranda fronte mare, dove potersi stravaccare a far niente. Era questo il momento di beatitudine che Paolo Catanese si stava gustando e che si era interrotto. Il dovere lo richiamava all'ordine, anche se non aveva voglia di andare in ufficio. Lo pensò quasi in sordina, per paura che la catena lo sentisse e cambiasse idea, ma la catena non si spostò. Decise di compiere un'azione azzardata: alzò lo sguardo verso il mare; pareva quasi che una nebbia lattiginosa vagasse sull'acqua e avanzasse lenta verso terra. La guardò senza vederla. Era la caligo, davvero insolita in giugno; ma intanto, lui che ne sapeva? E soprattutto, cosa gli importava della leggenda degli spiriti arrivati dal mare a raccogliere le anime rimaste intrappolate fra la terra e la vita ultraterrena, portarle via cullandole sull'acqua per stemperare la loro paura, come fossero ancora nel grembo materno, e traghettarle, così, verso la pace. Aveva defunti cari, lui? No. Quindi, non gli importava proprio niente. Gli dava solo fastidio, quella nebbia; perché non vedeva bene l'unico monumento di Malaffare: una grande feritoia, una specie di finestra aperta in una volta in calcestruzzo piantata nella sabbia, opera prima e unica di un artista locale secondo il quale, guardandoci attraverso ed esprimendo i propri più intimi desideri, questi si sarebbero presto realizzati. Leggenda di Malaffare mai verificata. Oltre quella feritoia, fuori dalla finestra, c'era il mare e Paolo Catanese avrebbe voluto tuffarsi, per rinfrescarsi. Una nuotata in stile Montalbano? No, dal momento che mai era riuscito a imparare a nuotare; si pucciava dove poteva poggiare i piedi sul fondale, restando ben fuori con la testa, catena placcata oro in bella mostra e al riparo da schizzi pericolosi per la sua integrità, cioè dove l'acqua era più bassa di lui, un metro e mezzo o poco più. Con il personaggio televisivo aveva in comune solo il cranio pelato, però non ci teneva, anche perché a lui Montalbano stava antipatico in quanto commissario: credeva esistesse davvero, da qualche parte, lì vicino, e temeva di incontrarlo prima o poi anche al suo paese, arrivato per un'indagine delle sue. Per fortuna, si consolava, da parecchio non c'erano stati morti ammazzati a Malaffare; quindi, non c'era ragione che venisse a mettere il naso dove non doveva e si poteva continuare a trafficare tranquilli. Neanche immaginava, Paolo Catanese, che “Montalbano sono” fosse l'invenzione letteraria di un noto scrittore. Gli sfuggiva il senso dell'aggettivo “letterario” e, quanto a invenzioni, era scarsino nonostante fosse scaturita proprio da quel suo cranio l'idea iniziale del business plan. — In nuce, l'idea è mia — si ripeteva. Senza rendersene conto, lo disse anche in quel momento, mentre Concetta parlava, parlava, parlava e lui non ascoltava: — In nuce, l'idea è mia. — Ancora con questa storia? Ma allora non mi ascolti! — L'idea è mia e la gestisco io, come mi pare e piace. — Peccato che i soldi li ha messi qualcun altro, però. — Senza la mia idea, che se ne facevano dei soldi? — Magari, dell'altro. — Grazie alla mia idea, ne faranno molti di più. — Se non presenti il progetto, non credo proprio. — Va bene, ora vado in ufficio. Rileggo, firmo e domani presento. Sei contenta? La catena scattò di nuovo: - tac - ; era un poco più stretta: forse aveva avvertito nel “va bene” o nel “sei contenta” una sfumatura infastidita, risentita o addirittura ribelle? — Basta che lo fai — gli rispose Concetta — e poi ti ricordi di farlo anche là, perché qui non basta. Quindi, ti devi organizzare per tempo. Rovistò nella borsetta, trovò le chiavi dell'auto e se ne andò per compere. Giusto ciao gli disse, prima di andarsene, dondolando su un pericoloso tacco 12. — Chissà cos'altro deve comprare! A Malaffare poi, quasi non ci sono negozi e lei, se l'abito non è di boutique, comprato in rete o in tv, non se lo mette addosso. Dovrò indagare perché, queste compere, troppo frequenti sono. Parlottò tra sé entrando nel suo ufficio: quattro pareti in lamiera zincata, sul cui ingresso era attaccato con lo scotch un foglio di quaderno con la scritta “Office”; nato come sgabuzzino sul retro della casa di famiglia dei Fora nella quale Paolo era ospite ma che considerava propria, era diventato il suo pensatoio, il luogo in cui aveva pianificato tutte le sue iniziative imprenditoriali.
Karla Offembach
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