Prove tecniche di solitudine
|
Supero un'altura ed ecco apparire in lontananza il mitico faro bianco ritratto in migliaia di cartoline, l'icona dell'estrema punta nord della Nuova Zelanda. La strada carrabile termina un centinaio di metri prima del faro. Un cartello dice end Route 1, ovvero: la strada è finita, sei arrivato in capo al mondo, se vai avanti cadi in mare. Parcheggio l'auto e m'incammino verso il faro. Percorro un vialetto asfaltato in mezzo all'erba. Che controsenso: mi trovo all'interno di una riserva naturale, la strada per arrivare fin qui è sterrata, mi chiedo a chi diavolo possa essere venuto in mente di asfaltare gli ultimi cento metri che, fra l'altro, sono percorribili solo a piedi. La striscia di bitume nero violenta il prato color smeraldo fino alla terrazza rotonda, a strapiombo sul mare, che ospita il mitico faro. Ci sono un sacco di visitatori, molti più di quanti ne abbia incrociati in tutto il mio viaggio fin qui. Fanno la fila per scattarsi a turno una foto ricordo accanto al faro, poi vanno via. Non li capisco proprio. Per me, la magia di questo luogo è la sensazione trovarsi in capo al mondo, al centro fra due mari, osservare la striscia d'acqua in cui il Mar di Tasmania si scontra con l'Oceano Pacifico (a quanto ho letto, dovrebbe essere facilmente individuabile). Mi affaccio alla terrazza, trovo il punto e lo fisso per un tempo interminabile. In mezzo a una distesa infinita di acqua cupa e lievemente increspata, si distingue un tratto all'interno del quale onde altissime schiumano una contro l'altra, si aggrediscono in una prova di forza. - Vinco io, - dice il Mar di Tasmania. - No, vinco io, - risponde l'Oceano. E in questo alterco infinito si danno spallate a suon di flutti e cavalloni. Per godere di una visuale più ampia, mi arrampico su una delle colline che sovrastano il faro. Da quassù la guerra fra i due mari si gusta meglio. Faccio appena in tempo a scattare qualche foto, che il cielo si rannuvola, una fitta nebbia emerge dalla vegetazione circostante e chiude il sipario. Lo spettacolo è finito, non mi resta che tornare alla macchina. Sulla via del ritorno decido di vedere anche la Ninety Mile Beach, novanta miglia di spiaggia e dune di sabbia. Devo spicciarmi, è pomeriggio inoltrato e, sebbene il punto di accesso che mi hanno indicato le ragazze olandesi si trovi a soli venti chilometri da qui, la cartina definisce la strada come una pista, cioè peggiore della ravel road che ho appena percorso. All'altezza di Te Paki, seguo le indicazioni per la Ninety Mile Beach e finisco dentro un bosco di abeti così imponenti e fitti che nemmeno Babbo Natale ne ha mai visti tanti tutti insieme. “Sarà, che questa strada porta al mare...” penso. Proseguo per una decina di chilometri su un terreno molto accidentato. Più vado avanti, più ho l'impressione di essere in alta montagna. All'improvviso, il bosco di abeti termina a ridosso di una duna smisurata, un cumulo verticale di sabbia color oro alto come un palazzo. Parcheggio, scendo e mi guardo intorno. Davanti a me si stende un deserto di dune da far invidia a Lawrence d'Arabia, alle mie spalle la foresta di Babbo Natale. Alla mia sinistra, un ruscello col bordo rivestito di pelliccia verde sparisce dietro le montagne di sabbia e si dirige verso il mare; o, almeno, immagino sia così, perché le dune sono così alte che il mare né si vede né si sente. Sopraggiunge un'altra auto e scendono due ragazze. Una delle due tira fuori dal baule una tavola da surf. Quindi, mi dico, il mare non dev'essere lontano. Mi attrezzo col necessario all'escursione: maglione, cappellino, giacca a vento, zaino, bottiglietta d'acqua e macchina fotografica. Nonostante l'aspetto sahariano di questi cumuli di sabbia, qui fa un freddo birbone. Il cielo è più nero e coperto di prima e tira un vento micidiale. Con fatica scalo la prima duna, quella che fronteggia lo spiazzo dove ho parcheggiato l'auto. “Da lassù godrò una splendida visuale sulle onde e la spiaggia di novanta miglia,” penso. Ma, raggiunta la cima, davanti a me svetta una duna più alta di quella che ho appena superato. Scendo lungo il crinale della montagna di sabbia e riprendo l'arrampicata. Alle mie spalle non vedo più né la strada né la macchina. Solo le cime degli abeti giganti svettano, sempre più lontani. Madama Ansia mi batte una mano sulla spalla e dice: - Se prosegui, perderai ogni punto di riferimento. - Mi guardo intorno. Il panorama è tutto identico: sabbia, sabbia, sabbia e ancora sabbia. Tuttavia, non ho intenzione di mollare. Il mare e le novanta miglia di spiaggia devono essere davanti a me, da qualche parte. Proseguo, supero un'altra duna. - Torna indietro adesso, o non troverai più la strada, - insiste madama Ansia. Sto per darle retta, quando vedo comparire le ragazze con la tavola da surf. Si muovono con passo veloce e sicuro, mi raggiungono, mi superano e spariscono dietro la duna successiva. Lancio un'occhiataccia ad Ansia che arranca col bastone alle mie spalle e le dico: - Mi hai fatto angosciare per nulla. Guarda quelle due surfiste. Il mare non può essere lontano. - Seguo le ragazze cercando di tenere il loro ritmo. La duna successiva è alta quanto un condominio di dieci piani. Una cresta semicircolare corre su un fianco dalla cima alla base, le ragazze iniziano la scalata da lì. Le tallono a testa bassa con gli occhi fissi sui piedi che fanno tre passi avanti e due in scivolata all'indietro. La scalata richiede quasi un'ora, ed è resa più difficile dal vento malefico, che alza accecanti nuvole di rena. - La spiaggia è oltre questa duna, vedrai, - dico a madama Ansia. Raggiunta la vetta, mi viene un colpo. Davanti a me si stende il deserto del Sahara. Molto, molto in lontananza intravedo una foschia brumosa, il mare suppongo. Sempre ammesso che lo sia, è lontano anni luce. Ansia ride compiaciuta. Vedo le due surfiste sdraiarsi sulla tavola e lanciarsi giù, lungo un fianco della duna. Viaggiano come un missile, pochi secondi e sono in fondo, due puntini in mezzo a un ciuffo di arbusti e piante grasse. La tempesta di sabbia riduce la visibilità, ma ho l'impressione che una delle due si sia scontrata con un cespuglio di rovi e si sia fatta male. - Ben vi sta! - urlo ad alta voce. - Se faceste surf sull'acqua certe cose non vi succederebbero, e io non vi avrei seguito fin qui inutilmente. - Nonostante l'incidente, le ragazze non sembrano averne avuto abbastanza. Le vedo risalire di nuovo la stessa duna. Per me, invece, l'esperienza termina qui. Torno indietro. Mi volto. Gli abeti giganti non si vedono più, le mie impronte sulla sabbia sono state cancellate dal vento e le montagne di sabbia che mi circondano a trecentosessanta gradi si somigliano tutte. Niente più punti di riferimento. In una situazione come questa, se sbagli direzione puoi girare in tondo all'infinito senza nemmeno accorgertene. - Che ti avevo detto? - sogghigna madama Ansia. Un rivolo di sudore gelido mi scorre dalla nuca fin dentro le mutande. Nessuno sa che mi trovo qui. Sono sola, completamente sola. Con me ho il telefono, ma per chiamare chi? I miei genitori Italia? Immagino la telefonata: - Ciao mamma, ciao papà, vi volevo dire che mi sono persa. Dove sono? Boh, da qualche parte nei pressi della Ninety Mile Beach. Sì, lo so che è lunga centocinquanta chilometri ma, se mi sono persa, non posso essere più precisa. Se ho una macchina? Certo, ma in questo momento non ho la più pallida idea di dove sia. - Decido di fissare un riferimento inesistente, un punto davanti a me, e cerco di muovermi in linea retta. Continuo a salire e scendere dalle dune per una buona mezz'ora. A ogni passo, sento il bastone di madama Ansia conficcarsi nella sabbia alle mie spalle. Grazie a lei altre paure mi assalgono, oltre quella di non farcela: “E se arrivo al parcheggio e l'auto non c'è più? E se mi slogo una caviglia? E se vengo morsa da uno scorpione (nella sabbia ce ne sono diversi)?” Immagino me stessa dispersa o ferita (o tutt'e due) mentre cala la notte. Alla fine scorgo le cime degli abeti giganti. Felice come non mai, corro in quella direzione ed ecco apparire la mia utilitaria blu con l'adesivo Hertz. Quando la raggiungo sono così felice che bacerei il parabrezza. Apro la portiera, mi siedo al posto di guida e riprendo fiato. Madama Ansia non c'è più, spero sia affogata nella sabbia. Infilo la chiave nel cruscotto, metto in moto e mi allontano prima che la stronza mi riacciuffi. Guido spedita in direzione di Waitiki Landing. Non vedo l'ora di buttarmi sotto una doccia calda.
Più tardi, dopo essermi rinfrescata e cambiata i vestiti, mi preparo qualcosa da mangiare nella cucina comune. Di pesce fritto e hamburger, anche se preparati da veri maori, ne ho abbastanza. In cucina sono del tutto sola. Prendo il lettore cd, mi verso un bicchiere di vino e mi sistemo a uno dei tavoli all'aperto. È calata la notte. Una luna paffuta e gonfia galleggia sopra di me. Non ci sono luci di qualche centro abitato o lampioni a disturbarne la luminosità. L'aria profuma di bosco e di terra, gli unici rumori che sento sono il vento che increspa le fronde degli alberi e il verso di qualche uccello notturno. “Sono in Nuova Zelanda!” vorrei urlare al nero che mi circonda. È come se me ne rendessi conto per la prima volta. Finisco di mangiare e mi rollo una sigaretta. Nel lettore cd ho messo i Blues Latino. Infilo gli auricolari e premo play. La band canta Soledad. Sollevo lo sguardo al cielo. Le nuvole di oggi pomeriggio hanno ceduto il posto a un sipario di velluto blu ricamato di pietre scintillanti. Mi alzo e passeggio sul prato pennellato d'argento. L'erba è morbida e leggermente inumidita dalla notte. Sono così felice che seguo il ritmo della musica negli auricolari. Con gli occhi fissi al cielo, accenno dei passi di latino-americano, stendo le braccia verso la luna e la invito a ballare con me. “Felicitudine,” penso. Sì, è proprio lei, la felicità nella solitudine, ed è venuta a trovarmi.
Eleonora Scali
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|