Bisognerebbe fermarsi a quell'istante in cui tutto ha inizio. Quello che ha un senso prima di ogni altro.
- Dimmi la verità. - mi ha detto, guardandomi dritta negli occhi. - È quello che ho sempre fatto. - le ho risposto, seccato.
Era come un vecchio disco su cui la puntina girava in loop. D'un tratto la musica si fermava e iniziava un suono stridulo, stonato, ridondante, fastidioso. Ormai le discussioni erano diventate sempre più frequenti, più accese nei toni e prive di desiderio reale di dialogo, senza chiarezza. Fra noi non esisteva minimamente l'ascolto: eravamo arrivati a quel punto in cui non era più importante la verità. Qualsiasi essa fosse, sarebbe stata inevitabilmente un nuovo terreno di scontro, con un cambio di fronte ben alternato. Nessuna tregua, non una bandiera bianca issata in segno di resa. Solo ed esclusivamente una momentanea ritirata dalla battaglia. Gli interrogatori, così li chiamavo, da qualche tempo a questa parte. Ci mancava solo una lampada puntata contro il mio viso ma, per dirla tutta, i suoi occhi che mi trafiggevano la sostituivano benissimo. Eretta, con il palmo delle mani appoggiate sul tavolo, la testa chinata verso di me e quel suo sguardo fisso. La Santa Inquisizione non avrebbe retto al confronto con lei e, per quanto mi riguardava, nessuna indulgenza sarebbe stata disponibile per le colpe di cui venivo accusato. Forse nemmeno il rogo sarebbe bastato come soluzione per porre fine al nostro conflitto. L'effetto purificante del fuoco non le avrebbe dato soddisfazione. Anzi, con tutta probabilità, credo che la fiamma avrebbe sortito solo l'effetto di alimentare il suo dubbio rendendolo eterno e la controparte - sempre io - ormai incenerita, non avrebbe più avuto nessuna possibilità di reagire a un nuovo scontro su quello stesso campo di battaglia. Il nostro era un combattimento fatto di assalti continui e non facevamo che girare sempre intorno alla stessa domanda, la quale, peraltro, originava sempre la medesima risposta. Mai appagante, ovvio, al punto da non poter decretare una resa reciproca, ma solo il battere la ritirata di uno dei due fronti. Una ritirata strategica, funzionale alla preparazione della nuova battaglia, s'intende. Lo stesso Sun Tzu avrebbe riscritto gran parte della sua opera, “L'arte della guerra”, se solo avesse potuto osservare quanto illogica fosse questa strategia che, a parte il tempo perso, ci conduceva al nulla di fatto. Una strategia efficace avrebbe dovuto prevedere il modo corretto per evitare di confliggere. Noi, al contrario, con le nostre parole e con i nostri dubbi, tendevamo a creare ulteriori problemi e li stavamo persino alimentando. La sola differenza era data dalla distanza tra noi due. Che dire, aumentava ripetutamente dopo ogni scontro. Non eravamo più capaci di tornare ad una situazione pacifica. Succedeva a tutti di attraversare un momento di crisi nella coppia - pensavo - ma ero altresì convinto che entrambi avessimo raggiunto un certo grado di maturità emotiva. Un livello tale di conoscenza, l'uno dell'altra, così elevato da farci affrontare e risolvere insieme qualsiasi problematica. I momenti di tensione o quelli che possono generare fraintendimenti, di solito, erano abbastanza comuni – alcuni si presentavano nel quotidiano - ma, negli anni, il nostro rapporto e la complicità ci avevano sempre aiutati a superarli senza molte difficoltà. Grazie a questo, fino a qualche settimana prima, ero anche convinto che la nostra relazione ne avesse tratto beneficio. Ero sicuro che le avversità avessero consolidato il nostro legame. Sbagliavo, invece. Ogni esperienza è un fatto a sé e, nei sentimenti più che mai, tutto è governato dal caos. Un caos in cui l'unica cosa certa era l'imprevedibilità degli eventi. Le emozioni, positive o negative, erano incontrollabili e creavano, oltre ai momenti felici, quelli da inserire nell'album dei ricordi, dubbi e timori che avevano un solo scopo: distruggere. Così, dopo l'ennesimo e di certo non ultimo interrogatorio, mentre lei si spostava verso il soggiorno sussurrando qualche complimento – che poi il volerlo definire complimento era un eufemismo – me ne restavo seduto al tavolo della cucina, in silenzio. Una consuetudine, questa, che si ripeteva dopo ogni prova di forza, per mettere fine a quello che non era nemmeno più definibile come tentativo di chiarimento ma, piuttosto, una lotta senza esito certo. La televisione, accesa a volume alto nel soggiorno, copriva o – in parte - mitigava gli ultimi echi della discussione appena terminata, quasi a voler ribadire che non era ancora finito nulla e che il bello – se “bello” si poteva definire - presto o tardi sarebbe arrivato. - Certo, così è semplice. - aveva detto lei, dal soggiorno, alzando la voce per cercare di superare il volume della televisione. Insomma, semplice non direi. Se fosse stato semplice, a questo punto, si sarebbe già risolto tutto. Mi mancava completamente la voglia di rispondere e di addentrarmi in una nuova discussione: sarebbe stata una di quelle solite, già fatte e rifatte. Solamente un nuovo scontro che, come sempre, non avrebbe portato a nulla, né vinti, ma nemmeno vincitori. In realtà, oramai, l'unica cosa chiara era che ci stavamo separando sempre di più da un possibile confronto finalizzato alla riappacificazione. Entrambi ci eravamo trincerati ostinatamente dietro alle rispettive barricate, in compagnia del nostro drappello di ragioni presunte. Che poi, già il volerle chiamare “ragioni” era l'assurdo. Da parte mia, dopo l'ennesima schermaglia, sentivo svanire dentro di me il desiderio stesso di chiarire perché tutto por-tava irrimediabilmente al medesimo punto. Esplosioni di rabbia nelle quali, troppo spesso, usavamo le parole per causarci ferite profonde, per orgoglio o per chissà quale altra assurda motivazione, e non riuscivamo a tornare indietro. Oppure, proprio come ora, ognuno finiva per occupare una parte della casa, stile rifugio. Insomma, assomigliava più ad una gabbia, una prigione dove gli spazi e le sbarre invisibili diventavano sempre più stringenti e soffocanti. Ci dominava un senso di costrizione, prevaleva l'imbarazzo nel fare qualsiasi movimento o spostamento all'interno di casa nostra. Le mie dita, intanto, tamburellavano nervosamente sulla superficie bianca del tavolo, dando cadenza a quel moto on-doso di burrasca dei pensieri che non volevano, o meglio non riuscivano più a trovare il modo per tramutarsi in parole. Il rumore del motore del frigorifero mi aveva distolto per un attimo dal turbine di pensieri, che non avevano la minima idea di quale potesse essere la nostra destinazione finale. Tra me e quell'apparecchio del freddo a due ante, dotato di erogatori di acqua e di ghiaccio, esisteva un percepito in precario equilibrio tra l'odio e l'amore. Meglio bere un caffè, pensavo. Il silenzio era stato interrotto dalla macina che preparava la miscela e che, per un atti-mo, aveva annullato la possibilità di ascolto di frasi ulteriori, provenienti dall'altra stanza. Cercavo solamente di calmarmi mentre continuavo a pensare a quale potesse essere la cosa migliore da fare, giunti al punto in cui eravamo riusciti a portare l'intero nostro rapporto. I miei pensieri correvano, si intrecciavano cercando soluzioni. Una simulazione che prevedeva come opzione anche quella di uscire dalla porta per andare a fare una passeggiata. Pare che camminare aiuti a portare ordine e a risolvere più facilmente i problemi, mi dicevo. Sicuramente, per trovare una soluzione a tutto, avrei dovuto quantomeno mettere in conto di dover intraprendere il Cammino di Santiago. Eppure l'amavo e la amo ancora – pensavo - guardando dentro alla tazza del caffè, come se dalla sua superficie nera e fumosa potesse magicamente apparire una risposta. Credevo che anche lei provasse lo stesso sentimento per me. Però, oggi, a guardarci, chiunque avrebbe potuto chiaramente affermare il contrario. Chiunque, e mi arrovellavo. Eccoci qui, siamo noi, quelli che prima di oggi non avevano mai badato ai giudizi esterni. Rido
Fabrizio Bozzini
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