
La prima cosa che notarono fu l'odore, completamente diverso da quello della cantina. Riempiva narici e polmoni come acqua in una bottiglia, sapeva di umido che trasuda dalla roccia. L'aria era immobile, come se si fosse assopita per mille anni, e l'oscurità così densa che la torcia di Catia puntata in avanti non illuminava più di un paio di metri. Lo stesso ronzio che Marco e Catia avevano avvertito la prima volta ora era più forte, più penetrante, e sembrava giungere dalle pareti. Il passaggio era angusto, scomodo persino per un bambino di cinque anni; si resero immediatamente conto che per procedere avrebbero dovuto camminare in fila indiana, leggermente curvati. - Passami la torcia, vado avanti io - disse Marco. Catia non fece obiezioni. - Tu Paolo, riprendi la chiave, non lasciamola sulla porta. - Paolo obbedì. Poi lentamente, cominciarono ad avanzare. Il pavimento era formato da un misto di terra e pietrisco, un po' sconnesso ma complessivamente calpestabile. Le pareti erano di roccia e parevano stringerli in una morsa da quanto erano strette; con le spalle potevano toccare entrambi i lati. Colonie di insetti accecati dall'oscurità correvano zigzagando in quello che era il loro habitat, sorpresi e terrorizzati dalla comparsa di esseri viventi di cui non avevano mai sospettato l'esistenza. Dopo qualche metro la strada curvava decisamente a sinistra e il tunnel diventava più alto; appena svoltarono la torcia illuminò una lastra di pietra adagiata a terra, spessa una decina di centimetri e grande al punto che, se fosse stata eretta, avrebbe chiuso interamente il varco. Marco le si fermò davanti. - Che cos'è? - chiese Paolo sbirciando alle spalle dei suoi amici. - È qualcosa che era stata messa qui per ostruire il passaggio - rispose Marco. - Ah davvero? E chi ce l'ha messa? - - La vera domanda non è chi ce l'ha messa, ma chi l'ha abbattuta - rispose Marco inginocchiandosi. Esaminò la pietra con la luce della torcia, rivelando gli strati di polvere secolare depositati sopra. - Lì c'è qualcosa - disse Catia. - Dove? - - Più in alto. Guarda. - Marco fece scorrere la torcia in avanti. A un certo punto illuminò qualcosa nascosto sotto il pulviscolo, un'incisione. Ci soffiò sopra chiudendo gli occhi, poi la pulì meglio con la mano libera, rendendola leggibile. - Che c'è scritto? - chiese Paolo. - Tempus decipit illum qui imperare illud putat. - - E che vuol dire? - - È latino - rispose Catia. - Tempus sta per tempo, il resto non ho idea di cosa significhi - rispose Marco. - Latino? Vuoi dire che questa pietra sta qui da duemila anni? - - Chi lo sa - rispose Marco rialzandosi in piedi. Estrasse il telefonino dalla tasca e scattò una foto all'incisione. - Sentite, ma siete sicuri che questo sia il sottopassaggio che stavate cercando? A me non sembra proprio una via di fuga. È stretta, bassa, se qualcuno doveva scappare in fretta era spacciato in partenza. E poi questa pietra, che senso ha? Se è tanto antica vuol dire che stava qui prima che venisse costruito il castello, e quindi anche lo stesso tunnel - disse Paolo. - Beh, magari l'incisione non è così vecchia, non per forza una frase in latino dev'essere stata scritta in epoca romana. Potrebbe essere molto successiva - rispose Marco. - Giusto - gli fece eco Catia, sebbene non ne fosse molto convinta. Anche a lei pareva strano che qualcuno avesse costruito un passaggio segreto tanto scomodo. C'era inoltre un'altra questione ad allarmarla, alla quale Marco sembrava non aver affatto pensato: il castello era distante almeno cento metri dall'ex casa dei suoi genitori, ciò significava che avrebbero dovuto camminare a lungo per trovare l'uscita, ammesso che ci fosse. La prospettiva di passare tanto tempo là sotto le faceva accapponare la pelle. Ci sarebbe stato ossigeno a sufficienza per tutti e tre? E se dall'altra parte ci fosse stata un'altra porta blindata? Era incredibile che nessuno di loro avesse accennato a questa eventualità, tutt'altro che improbabile. La mente le suggerì l'immagine di loro tre intrappolati sotto quel cunicolo, mentre in superficie la vita scorreva come ogni giorno e il mondo era ignaro della loro sorte. Scacciò con forza quel pensiero, utile solo a scatenarle il panico. - Procediamo? - disse Marco strappandola alle sue riflessioni. - Io sarei per fare dietrofront - ammise Paolo. - Ma se proprio volete andare avanti... - - E dai, ormai siamo in ballo. - - E allora balliamo - disse Catia sospirando. Proseguirono in silenzio per un po', ciascuno immerso nei propri pensieri e nelle proprie paure. La via procedeva deviando un po' a destra e un po' a sinistra e lo spazio intorno a loro sembrava diventare di volta in volta un po' più ampio. Dopo una trentina di metri, potevano camminare senza toccare le pareti. Paolo sbadigliò. - So che sembra assurdo, ma mi sta venendo sonno. - - Non vorrai mica addormentarti qui? - disse Marco. - Anch'io comincio a sentirmi un po' stanca - ammise Catia. - E poi questo maledetto ronzio di sottofondo mi sta facendo impazzire. - - Sì, è fastidioso, ma dobbiamo resistere. Cercate di pensare a qualcosa di bello. - - La cosa più bella che mi viene in mente è il momento in cui usciremo da questa trappola - disse Paolo. - Ok, statemi a sentire - disse Marco rivolgendosi ai suoi amici. Puntò la torcia in avanti, illuminando il percorso. - Vedete là in fondo? La strada finisce, c'è uno slargo o qualcosa del genere. Ce la fate ad arrivare fin lì? - . - Saranno una ventina di metri - valutò Paolo. - Direi che ce la faccio, al limite mi porti in spalla. - - Io non vedo nessuno slargo - disse Catia. - Fidati, c'è. Venite. - Ripresero ad avanzare. Marco guidava la fila e procedeva lentamente, cercando di concentrare i propri pensieri: anche lui cominciava ad avvertire un certo torpore. In effetti, era come se quel posto stesse cercando di farli desistere; per quanto assurdo potesse sembrare, qualcosa lavorava contro di loro. A ogni passo le gambe parevano più pesanti e mentre la strada proseguiva ad allargarsi, i venti metri diventavano cinquanta, cento, duecento. Il rumore, che ormai non era più un debole ronzio, continuava a salire d'intensità, penetrando fino al cervello. Ci sta ipnotizzando, pensò Marco. - Quanto manca? - domandò Paolo con voce affannata. - Ci siamo quasi. - - Quasi quanto? - - Un paio di metri. - Facendo appello alle ultime forze Marco scattò in avanti, ritrovandosi improvvisamente in una specie di grotta i cui confini erano resi illimitati dalla profonda oscurità in cui erano immersi: neppure la luce della torcia sembrava in grado di penetrarla. Lo stesso soffitto pareva salire ben oltre il livello della cantina da cui erano partiti. Abbiamo camminato in discesa? si domandò distrattamente Marco; ma era un pensiero passeggero, dimenticato l'attimo dopo essere stato formulato. Catia e Paolo lo affiancarono ai lati. - Che diavolo è questo posto? - chiese Paolo. - Non ne ho idea - rispose Marco. La luce della torcia che aveva in mano vagava nelle tenebre, alla ricerca del punto in cui la strada proseguiva. - Non è possibile che mi senta così stanca - disse Catia. - Non è normale. - Si accovacciò a terra, gomiti sulle ginocchia, sperando di recuperare le forze. - E quello cos'è? - disse Marco all'improvviso. La torcia puntava dritto davanti a loro illuminando un oggetto dai contorni indefiniti, che parevano muoversi come se fossero liquidi. - Ok, lo ammetto, ho paura - dichiarò Paolo. - A chi lo dici - concordò Marco. Si avvicinarono. A un paio di passi di distanza l'oggetto rivelò la sua natura di strano piedistallo in pietra, alto all'incirca un metro. Sorreggeva una spessa lastra di marmo poggiata in orizzontale, sopra la quale erano distribuite delle palle grigie di varia grandezza, la più grande delle quali si trovava esattamente al centro. - Vi-vi ricorda qualcosa? - domandò Marco. Ormai faceva fatica anche a parlare, sentendosi sopraffare dalla stanchezza. - Il quadro in cantina - rispose Catia. - Proprio quello - concordò Marco. - Scusate, io... - attaccò Paolo, ma non riuscì a finire la frase. Crollò a terra privo di sensi.
Cristiano Roscini
|