La ruota.
Dal vetro appannato si vedeva appena la lunga fila di auto scure sulla strada bianca. La neve scendeva così fitta da attaccarsi agli stop dell'auto davanti a noi, così copiosa da incollarsi anche al vetro anteriore della nostra auto, tanto che il tergicristallo faticava a pulirla. Mio padre con una mano passava il panno sul vetro e con l'altra teneva ben saldo il volante. Teso e silenzioso guidava, mentre io saltavo sul sedile posteriore, incapace di contenere la gioia. - Siamo arrivati, papà? - chiesi. - Stai buono, Edoardo - mi sgridò mia madre, spostandosi in cerca di una posizione più comoda, massaggiandosi il pancione. - Oddio, Giorgio! Quanto manca ancora? - - Sì, sì! quanto manca, papà? - Nessuna risposta. Mio padre frenò e sterzò brusco, per accaparrarsi il primo parcheggio disponibile. Scese rapido e corse ad aiutare mia madre, poi mi aprì la portiera e io uscii con un balzo. Mi affrettai a superarli. - Apro io la porta! - dissi, lanciandomi verso l'entrata, senza accorgermi di una spessa lastra di ghiaccio, nascosta da un sottile strato di neve. - Attento! - urlò mia madre. Evitai di cadere per un pelo e li aspettai all'ingresso. - Cosa ti è saltato in mente! - sbraitò lei, mentre mio padre mi faceva l'occhiolino, attento a non farsi scoprire. Ascensore, terzo piano, ginecologia ostetricia, il bacio di mia madre e poi l'attesa. Per un po' dondolai le gambe seduto sulla panchina verde della sala d'aspetto. Alternavo gli occhi tra la porta e la finestra, mentre fuori continuava a nevicare e il cielo era ormai buio. Trovai nella tasca la mia macchinina preferita. La feci correre sulla panchina, mi alzai e continuai il viaggio lungo il muro, seguendo una striscia colorata che mi guidò fino alla porta della sala parto. - Quanto ci mette a nascere? - chiesi. - Vuoi stare un po' fermo? - esclamò mio padre, venendo a recuperarmi per ricondurmi verso la panchina. - Hai fame? - cambiò discorso. Mi accarezzai lo stomaco brontolante, ripensando alla pasta lasciata sul piatto, prima di uscire. Ne sentivo quasi il profumo: pomodoro, basilico e una bella grattugiata di grana. Scossi la testa con energia. - Voglio restare qui - dissi impettito. Mio padre sorrise e mi scompigliò i capelli con una carezza. La porta della sala parto si spalancò. Vidi un medico e un infermiere trasportare a passo svelto un'incubatrice coperta da un telo verso l'ascensore. Arrivò un'infermiera e mio padre si alzò di scatto, raggiungendola prima che si avvicinasse. - È una bimba... - gli disse. Continuò a parlare, il viso serio, la voce gentile. Mio padre impallidì, vacillò e afferrò con una mano lo stipite della porta. Impaurito, mi aggrappai alla sua gamba. Trascorsi gli anni successivi tra nonni, parenti e amici. Vivevo letteralmente con la valigia sempre in mano e la sensazione di essere un pacco da depositare. Non che i miei genitori mi facessero mancare qualcosa, mi volevano bene, ma erano così presi tra visite mediche, ospedali e terapie da non rendersi conto di ferirmi. Dentro provavo una sorta di malessere e lo dimostravo anche fuori, ribelle e irrequieto, facevo dannare chiunque mi stesse accanto. Ogni cosa sembrava scivolarmi addosso, stavo con gli amici e questo sembrava bastarmi. Quando tornavo a casa, mi rifugiavo nei videogiochi, attirando le ire dei miei genitori. Ormai ero all'ultimo anno delle elementari, mia sorella al primo. Quel giorno la campanella suonò più squillante del solito, o così mi sembrò. Uscimmo tutti in cortile con l'energia di chi evade di prigione, rumorosi, allegri, con i sogni e i giochi dell'estate negli occhi. Il sole era ancora tiepido, ma le foglie avevano già cominciato a cadere. Ero seduto sugli scalini che portavano alla palestra con i miei amici. Il nostro punto di incontro fin dalla prima elementare. - Hai visto? - esordì Massimo. - Visto cosa? - gli chiese Sergio, il mio compagno di banco e amico d'infanzia. - Abbiamo una mongoloide quest'anno a scuola. - - Una mongo-che? - esclamò Sergio, scuro in volto. Era l'unico a sapere che mia sorella aveva la sindrome di Down e non gli ci era voluto molto per capire che Massimo stava parlando proprio di lei. Sergio mi guardò e io girai rapido la testa, fingendo di non aver sentito, ma ogni risatina, ogni commento, era come una coltellata nello stomaco. Provai rabbia, non so bene se contro i miei amici o contro la mia incapacità di reagire. - Presa! - La voce allegra di mia sorella mi indusse ad alzare lo sguardo verso il cortile. Noemi rideva felice afferrando una foglia caduta dall'acero. Un sorriso mi sfiorò le labbra, sorriso che morì l'istante dopo. - “Presa! Presa!” - mi girai e vidi i miei compagni saltellare sul posto, tirandosi la pelle ai lati degli occhi. Strinsi i pugni, avrei voluto colpirli e sparire allo stesso tempo. Avevo lo stomaco sottosopra e quasi sobbalzai al suono della campanella. Gettai la merenda mangiucchiata nel cestino e rientrai in classe. Appena mezz'ora dopo, la bidella bussò alla porta. Parlò con la maestra, che mi chiamò e mi chiesi subito cosa avessi combinato. - Edoardo, tua sorella non vuole più rientrare in classe. Vedi se ci riesci tu. - Sentii le guance avvampare. Udii ridere alle mie spalle. Non avevo bisogno di guardare per sapere che si trattava di Massimo. Il silenzio del cortile era spezzato dalle urla di mia sorella, aggrappata all'albero in lacrime. Scuoteva la testa e batteva i piedi. L'assistente tentava di tranquillizzarla, farle allentare la presa sul tronco, ottenendo l'effetto contrario. - Noemi - la chiamai, ma non mi sentì nemmeno. Mi grattai la testa guardandomi in giro, privo di idee. Poi, raccolsi un po' di foglie e mi avvicinai a lei. - Tieni, devi metterle nello zaino. Così le porti a casa. - Noemi scosse la testa e si girò dall'altra parte, continuando a singhiozzare. - Dai! Queste sono le più belle, le appendiamo alla parete in camera tua. - I singhiozzi si affievolirono, sembrò ascoltarmi. - Come un albero sopra il tuo letto - aggiunsi, tendendo le mani colme di foglie verso di lei. - Un albero? - disse girandosi, fissandomi con i suoi bellissimi occhi azzurri, arrossati dal pianto. Le sorrisi e annuii con la testa. Il suo viso si illuminò e lasciò l'albero. Prese le foglie d'acero, attenta a non romperle, e seguì l'assistente con il suo bottino. Tornai anch'io in aula, sperando di non dover rivivere ancora quell'esperienza. Qualche ora dopo, quando bussarono alla porta, sobbalzai sulla sedia, ma era solo un avviso. Mi chiesi se sarei arrivato alle medie con i nervi ancora tutti interi.
Letizia Finato
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