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Autore: Dama Berkana
La Ruota d'Argento
Fantasy
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La Ruota d'Argento
Mese di Samon.
Diciassettesima notte.


Sembrava che il mondo stesse per finire.
Era come se tutti gli elementi della natura si fossero stancati della presenza dell'uomo e di ogni altro essere vivente e si fossero uniti in tutta la loro potenza per spazzare via qualunque cosa. A stento si riusciva a capire la differenza tra cielo e terra. Il vento ululava fortissimo, quasi fosse un grido di battaglia, mentre l'acqua scorreva con prepotenza lungo le crepe del terreno. Con un ritmo alternato, come se si trattasse di una danza, il cielo notturno si illuminava a giorno quando lampi e fulmini vi facevano capolino. Ma c'era un'altra fonte di luce che rischiarava quella tremenda notte: il villaggio di Duir, che ardeva spaventosamente. Una pioggia di fulmini lo aveva colpito senza pietà, facendo divampare subito un grosso incendio. Nessuno degli abitanti aveva avuto scampo.
Nessuno, tranne due.
Irven correva a perdifiato nel bosco. Cercava di tenersi quanto più distante possibile dagli alberi per evitare che i fulmini scansati poco prima potessero avere una rivincita su di lui e su suo figlio. Il piccolo Cahal piangeva con tutto il fiato che aveva in corpo. Suo padre lo teneva accucciato tra le braccia, ignorando la richiesta supplicante delle proprie membra di fermarsi a riposare. Doveva trovare un riparo il più presto possibile.
Gocce d'acqua, vento e terra gli annebbiavano la vista e gli appiccicavano ciocche di capelli neri sul viso. Procedeva alla cieca, fino a sbattere contro rocce e detriti causati dalla tempesta. Non erano i suoi sensi a spingerlo avanti, non era l'istinto di sopravvivenza a guidarlo verso il riparo più sicuro.
Era la speranza.
Tutto ciò che gli era rimasto era la speranza che gli Dei non volessero abbandonarlo del tutto e che non volessero strappargli via anche il suo unico figlio. Gli avevano tolto la sua casa, la sua serenità e sua moglie. Non poteva credere che lo avrebbero privato persino di Cahal.
Tutto d'un tratto la terra e il cielo si scambiarono di posto. Il fango si era avvinghiato con ferocia agli stivali di Irven e lo aveva fatto cadere malamente. L'uomo aveva preferito non attutire la caduta pur di proteggere il suo piccolo con entrambe le braccia.
Cahal piangeva sempre più forte, mentre Irven cercava la forza di rialzarsi e riprendere la sua corsa per la vita, ma il dolore causato dalla caduta unito alla stanchezza lo rendevano arduo.
Irven aveva chiuso gli occhi per cercare un briciolo di forza dentro di sé e, proprio quando l'angoscia stava per impossessarsi di lui, percepì che qualcosa era cambiato. Aprì di colpo le palpebre e rimase stupito quando vide quanto surreale fosse la scena lì intorno.
Tutto taceva, tutto era immobile. Acqua e vento si erano improvvisamente fermati. Irven si alzò da terra con cautela, cullando Cahal per cercare di farlo calmare, e iniziò a scrutare con occhi increduli l'ambiente e il cielo.
D'un tratto, il verso di un animale ferito lo fece sussultare e girare di scatto. Proprio davanti a lui, un cervo era steso al suolo. Era agonizzante, doveva essere stato ferito da uno dei tanti rami spezzati, e ora giaceva nei pressi di una vecchia casa abbandonata.
Irven si avvicinò all'animale con prudenza, per non spaventarlo e per capire se potesse fare qualcosa per aiutarlo. Il cervo, però, non si allarmò quando lo vide. Fu l'esatto opposto. Si voltò verso di lui con sguardo deciso, quasi lo stesse aspettando.
Irven non fece molto caso alla sua reazione e si limitò a osservargli la profonda ferita che aveva sul fianco. Capì che non gli restava molto tempo da vivere.
L'uomo era talmente assorto nei propri pensieri che non si accorse del repentino cambio d'atteggiamento del cervo. L'animale, infatti, aveva smesso di lamentarsi nell'istante in cui i suoi occhi avevano fatto contatto visivo con quelli di Cahal. Fu come se il suo lamento non fosse servito per chiedere aiuto quanto per attirare l'attenzione del piccolo.
Ciò che avvenne dopo, fu qualcosa che Irven non dimenticò per il resto della vita.
Il cervo fissò dritto negli occhi Cahal, che aveva cessato di piangere. Passarono alcuni istanti in cui sembrò che l'animale stesse scrutando l'anima del bimbo attraverso i suoi occhi, alla ricerca di qualcosa d'importante. Poi, appena concluse l'indagine, una luce abbagliante rischiarò l'intera radura.
Gli occhi del cervo avevano iniziato a brillare ed emettere un'intensa luce giallastra che si rifletteva nelle pupille di Cahal. A differenza del padre, rimasto accecato dall'improvvisa luminosità e costretto a chiudere gli occhi, il piccolo non distolse lo sguardo nemmeno per un secondo. Era come se quel forte chiarore stesse comunicando con lui e lo stesse cullando. Sembrava quasi l'abbraccio di una madre.
Dopo un attimo, o un'eternità, la stessa luce emessa dall'animale si manifestò negli occhi del bambino, per poi sparire da entrambi. Allora il cervo emise un ultimo respiro, accasciò dolcemente la testa sul terreno e spirò.
Avvenne tutto in un battito d'ali.
Fu come se gli elementi della natura, rimasti in silenzio religioso durante quello strano incontro, si fossero improvvisamente ricordati di ciò che stavano facendo. Per non venire meno all'azione svolta fino a poco prima, si rimisero in moto il più in fretta possibile. Una saetta diede nuovamente inizio allo spettacolo, seguita a ruota dai tuoni, dalla pioggia scrosciante e dal vento impetuoso.
Scosso e confuso da ciò a cui aveva appena assistito, Irven non ebbe il tempo di fare considerazioni sull'accaduto, poiché la tempesta sembrava addirittura più tremenda di prima. Ricordatosi della casa abbandonata vicino alla quale si trovava, si alzò di scatto, stringendo forte suo figlio tra le braccia, e vi si infilò. Seppur vecchia e in parte diroccata, appariva alla stregua di un palazzo reale agli occhi di chi la vedeva come unica fonte di salvezza.
L'alba era ormai alle porte e, se da un lato la tempesta appariva inarrestabile, dall'altro s'iniziavano a scorgere i primi tentativi di separazione delle nubi. Dopo un ultimo rilascio della loro potenza, infatti, decisero di aver fatto abbastanza per quella notte.
Un nuovo giorno stava arrivando, portando con sé la scia di un antico mistero.


CAPITOLO 1

I SEGRETI DI ARAMO




Cinque anni dopo


La fresca brezza marina danzava tra le onde dell'oceano. Il vento ne trasportava l'odore di salsedine in tutte le direzioni, mischiandolo con la pungente fragranza di pino che permeava la foresta di Aramo. Il tiepido sole primaverile baciava una a una le piante dai mille colori, facendole brillare e cantare.
Tutta Aramo cantava.
Cinguettii, squittii, scricchiolii si diffondevano in ogni dove e rendevano quel pomeriggio tanto sereno quanto vivo. C'erano pace, serenità e quiete, dato che la natura parlava con il suo solito timbro di voce.
Quello di una madre.
Ed era proprio a sua madre che Cahal stava pensando.
Le sottili dita del bambino stringevano con forza il grosso medaglione circolare che portava appeso al collo. Con la schiena poggiata al muro della casa diroccata nella foresta, Cahal teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
“Questo me l'ha lasciato tua mamma Keelia, piccolo mio. Voleva che lo avessi tu. Voleva che ti ricordasse che lei ti sarà sempre vicina e che il suo amore non ti abbandonerà mai. Lo custodirai gelosamente, vero? Sì che lo farai, perché sei un bravo bambino... un bravo bambino...”
Le ultime parole di Irven risuonavano nella mente del piccolo come un eco lontano, ed erano cariche di affetto e malinconia. La stessa malinconia che stava provando Cahal.
Con la mano sinistra continuava a tenere stretto il medaglione, mentre la destra aveva allentato la presa, e ne stava accarezzando dolcemente la superficie.
Quanto gli mancava sua madre. Non che ne avesse memoria, era appena un neonato quando lei morì. Tuttavia, percepiva ugualmente la sua assenza. Avrebbe tanto voluto che non fosse la natura intorno a lui a cantare con le parole di una madre, ma che fosse la propria, a farlo.
Sì, il vuoto dentro al suo cuore era grande. Gli mancava sua madre. E gli mancava suo padre.
Che un giorno tutto il dolore sarebbe sparito? A pensarci in quel momento sembrava impossibile.
«Cahal! Ero sicuro di trovarti qui!»
Il piccolo dai capelli neri e mossi si voltò verso il nuovo arrivato e sul suo sguardo spento si accese un impercettibile scintillio.
«Avanti, alzati di lì! Devi venire subito con me, devo mostrarti una cosa incredibile!»
Il bambino che aveva parlato era arrivato correndo all'impazzata e c'era mancato poco che non ruzzolasse sopra di lui. Si era fermato appena in tempo e se ne stava con le mani nei fianchi a fissare con i suoi occhi curiosi il volto dell'amico, ignorando il fiatone. Aveva morbidi capelli biondi che sembravano aver catturato la luce del sole nascente per collocarla all'interno di una figura tanto piccola quanto regale. Non c'era bisogno di dire che fosse un principe, poiché l'aura che emanava parlava da sé.
«Che c'è? Non sei curioso di sapere cos'ho trovato?» chiese il biondino cominciando a saltellare sul posto.
Cahal prese un gran respiro e, lasciando del tutto la presa sul medaglione di sua madre, si mise in piedi. Tre anni di differenza lo separavano dal principe, eppure sembrava molto più piccolo in confronto. Era più basso di svariate spanne e il suo viso rispecchiava alla perfezione quello di un bambino di sei anni, mentre il suo amico appariva più maturo.
«Non molto, a dir la verità, Ailim.»
«Fantastico! Allora andiamo subito, non perdiamo altro tempo!» rispose afferrandolo per un braccio e trascinandolo con sé.
«Ma io veramente ho detto che...» tentò di replicare invano.
«Sì lo so che non vedi l'ora! Ma tranquillo, non è molto lontano da qui!»
Cahal lasciò stare qualsiasi altra opposizione. Sapeva che l'amico non gli avrebbe dato retta. Era il suo modo di volerlo aiutare, di non lasciarlo solo. Di farlo sentire amato.
I due si addentrarono sempre più nella foresta, evitando ogni rampicante e qualunque fossa potesse farli scivolare. Conoscevano bene quella zona di Aramo, vi passavano la maggior parte del tempo, ed era grande. Molto grande, per due bambini così piccoli.
Ma ad Ailim non bastava.
Ailim voleva esplorare, scovare anfratti misteriosi e segreti. Voleva sapere, sapere, sapere. Era più curioso di qualsiasi altro ragazzino e, data la sua posizione a corte, poteva permettersi di girovagare per il regno come e quando voleva.
O almeno, quello era ciò che desiderava lui. In realtà, era l'esatto opposto. Suo padre, re Quert, rimproverava di continuo le sue fughe dalle guardie che avrebbero dovuto tenerlo sotto controllo. Ailim sosteneva di essere perfettamente in grado di badare a se stesso entro il perimetro del regno e che non c'era motivo di preoccuparsi. Certo, uscire dai confini di Ohn era impensabile alla sua età, quindi il principe lasciava quelle avventure per gli anni a venire. Per il momento, la foresta di Aramo bastava. Bastava eccome, dato che non l'aveva ancora esplorata tutta.
Dopo circa dieci minuti di camminata, i due si ritrovarono in un ampio spazio verde. Da un lato gli alberi formavano una sorta di recinto, oltre il quale era confinato il bosco, mentre dall'altro la vegetazione si faceva via via più rada fino a lasciar intravedere l'oceano in lontananza.
«Bene, siamo arrivati!» Ailim si decise a lasciare il braccio dell'amico e si avvicinò al tronco dell'albero più grande che c'era. «Stai a vedere, Cahal!»
Passarono alcuni secondi in cui il principe rimase imbambolato davanti alla corteccia con un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia, mentre Cahal lo fissava con fare interrogativo.
Non succedeva niente.
«Ehm... cosa... cosa dovrei vedere?» si decise a chiedere.
«Ssh! Ora arriva, non essere impaziente!» ma sembrava più una frase detta a se stesso che all'amico. Ailim, infatti, non riusciva a tenere ferme le mani.
«Se lo dici tu...» gli sussurrò di rimando.
Poi, finalmente, qualcosa si mosse.
«Eccola!» Ailim mise le mani a coppa e le avvicinò maggiormente all'albero.
Una palla di pelo, folta e marroncina, scese giù dalla corteccia e saltò fra le mani del principe, fissandolo con i suoi grossi occhi neri. A quel punto, Ailim si girò raggiante verso l'amico e gli mostrò orgoglioso l'animale che teneva in braccio.
«Guardala, non è bellissima? L'ho trovata mentre ti cercavo e me ne sono innamorato!»
Ailim si era avvicinato a Cahal, che era rimasto impietrito sul posto, e aveva iniziato ad accostare lo scoiattolo per mostrarglielo meglio.
«Non avvicinarti!» gridò il piccolo scuotendo i capelli neri.
«Ma, Cahal, guardala, è un adorabile scoiattolino! Non ti farà del male.»
«No, no! Mi fa paura», Cahal indietreggiò coprendosi il volto.
Il principe si fermò deluso e lo guardò con tristezza.
«Scusa, non volevo spaventarti... Pensavo che Marvina ti sarebbe stata simpatica.»
Cahal percepì la voce del principe incrinarsi, pronta a far spazio alle lacrime. Si tolse lentamente le mani dal viso e scrutò quello di Ailim. Il bambino aveva puntato lo sguardo sulla testa dello scoiattolo e stava lottando con tutte le sue forze per non piangere.
Il medaglione di Keelia si fece improvvisamente più pesante e Cahal vi portò d'istinto una mano sopra. Lo accarezzò e, come se il pendente gli avesse infuso coraggio, si avvicinò a passo risoluto verso l'amico.
«Le hai dato un nome» disse a un palmo dalla palla di pelo.
Ailim alzò lo sguardo e, tirando su col naso, fece cenno di sì.
«Marvina. Significa “amico rinomato”.»
«“Amico rinomato”? Che cosa vuol dire “rinomato”?» chiese Cahal piegando la testa.
«Significa “famoso”! Me l'ha insegnato il bardo Oskar!» rispose Ailim riacquistando il suo solito sorriso.
«E perché hai chiamato “famoso” uno scoiattolo?»
Il principe strinse l'animale tra le braccia e quello si strofinò affettuosamente su di lui, muovendo con gioia la folta coda.
«Perché un giorno diventerà famosa! Con tutte le avventure che vivremo, io, lei e te... Diventeremo tutti famosi! Noi un nome già ce l'abbiamo e ce lo dobbiamo tenere, ma dato che per lei potevo scegliere... Beh, sarà lei il simbolo della nostra fama!» e così dicendo, Ailim portò in alto le mani, come a voler esporre lo scoiattolo al pari di un trofeo. O di un bene prezioso.
«Forse tu lo diventerai, io non di certo...»
Ma Ailim interruppe quei pensieri sul nascere e, dopo una scherzosa gomitata, gli portò nuovamente vicino Marvina.
«Allora, la accetti nel nostro gruppo?» chiese speranzoso.
Gli animali erano stati una buona compagnia per Cahal fino ad allora, eppure quello scoiattolo lo metteva in soggezione. No, non quello scoiattolo, ma gli scoiattoli. Tutti, nessuno escluso. Era più forte di lui, quella specie gli metteva i brividi.
Eppure, con gran fatica, allungò una mano verso Marvina e le accarezzò la testa.
«Se a te fa piacere.»
«Sì! Grazie, grazie Cahal! Non te ne pentirai!» il principe buttò le braccia al collo dell'amico, coinvolgendolo in un abbraccio a tre.
«Lo spero» disse mezzo soffocato dalla stretta di Ailim e dai peli di Marvina che gli s'infilavano nel naso.
«Principe Ailim! Principe Ailim rispondete, ve ne prego!»
Subito, gli occhi azzurri del piccolo dai capelli biondi saettarono in tutte le direzioni, cercando di capire da dove provenisse la voce. L'abbraccio si sciolse – con gioia di Cahal – e Marvina si arrampicò sulla spalla del proprio padrone.
«Oh no, deve essere Pryderi. È proprio brava quella guardia! Riesce sempre a trovare le mie tracce» sussurrò Ailim con un mezzo sorriso sulle labbra, mentre si guardava intorno preoccupato.
«Sei scappato di nuovo. E io che pensavo ti avessero dato il permesso di uscire da solo, per una volta.»
«“Scappato”... Più che altro mi sono preso un'ora di libertà!» il principe afferrò nuovamente l'amico per il braccio. «Dai, torniamo a palazzo prima che Pryderi ci trovi. Mi piace troppo batterlo sul tempo!»
Cahal stava per replicare qualcosa, ma non ne ebbe modo. Ailim iniziò a tirarlo con tutte le sue forze e in men che non si dica i due – anzi tre – amici stavano correndo verso il Castello di Ohn.
Pochi istanti dopo, una giovane guardia fece capolino nello spiazzo verde che fino a poco prima aveva ospitato quelle buffe presentazioni. Il ragazzo indossava una casacca blu scuro sulla quale erano fissati i pezzi dell'armatura, mentre sul fianco sinistro portava il fodero con dentro la sua spada.
«Accidenti, ero sicuro che l'avrei trovato qui. Il principe mi farà diventare matto un giorno, me lo sento!» Pryderi si passò nervosamente una mano tra i capelli biondo ramato, tirandosi indietro le ciocche che gli erano ricadute sulla fronte durante la ricerca del reale. Poi, notando dei segni di scarpe nel terreno, si inginocchiò per vederli meglio.
«Ah, allora non mi ero sbagliato! E a giudicare dal numero delle impronte che ci sono qui il principe era in compagnia», un sorriso colmo di tenerezza gli si affacciò sul volto. «Sua altezza ha proprio un gran cuore. Non lascia mai solo il piccolo Cahal da quando è morto suo padre.»
Pryderi si alzò da terra e, stirando i muscoli delle braccia e delle gambe, diresse lo sguardo verso la capitale del regno di Iperborea. Le tracce conducevano lì, verso il Castello di Ohn.
«Oh beh, il palazzo non è poi così lontano. A quest'ora quei due potrebbero persino essere arrivati! Farò finta di non aver trovato queste tracce», e così dicendo tornò da dov'era venuto.
Pryderi stava per imboccare il sentiero che lo avrebbe ricondotto al villaggio, quando sentì un rumore alle proprie spalle.
«Chi è là?» chiese guardingo.
I folti cespugli del bosco si mossero e spuntò fuori il muso di un cavallo. Sembrava spaesato e intimorito.
«Ehi bello, e tu che ci fai qui?» Pryderi si avvicinò a lui, ma il cavallo indietreggiò ancora più impaurito e si mise a nitrire. «Buono, buono... Cosa ti ha spaventato?» tentò invano di ammansirlo. L'animale si allontanò del tutto e corse via, sparendo con la stessa rapidità con cui era arrivato.
«Che strano... Non aveva briglie, non penso sia scappato a qualcuno», Pryderi meditò per qualche minuto sull'accaduto, ma non trovando risposta ai suoi dubbi, s'incamminò una volta per tutte verso la capitale di Iperborea.

Lo stallone correva a più non posso tra gli alberi dai colori innaturali. Chiome gialle e rosse, tronchi fucsia e vinaccio. C'erano anche piante con sfumature più tenui, verdi e marroni. Nel complesso, Aramo era davvero un luogo suggestivo. Tuttavia, il destriero non riusciva a lasciare che tanta meraviglia lo acquietasse. Era troppo confuso, troppo sconvolto.
Correva, correva, correva.
Era da qualche ora che lo faceva, ormai, e sembrava che nulla sarebbe riuscito a fermarlo e tranquillizzarlo. Poi, d'improvviso, l'aspetto della foresta mutò e la radura in cui si ritrovò lo destabilizzò al punto tale da riuscire a fargli interrompere la sua corsa forsennata.
Apparentemente non c'erano differenze con le altre zone di Aramo, eppure si percepiva che quel luogo fosse lungi dall'essere simile alle altre radure.
Il cavallo dal manto color miele si addentrò cautamente e iniziò ad annusare l'aria. C'era qualcosa di magico lì, ma allo stesso tempo era come se qualcosa si fosse spezzato. Come se lì dentro ci fosse una grande macchina che continuava a funzionare pur mancando qualche ingranaggio.
«Ma buongiorno, ben arrivato!»
Il destriero si girò di scatto e iniziò a scalciare in preda alla paura. Non lo aveva minimamente percepito.
«No, non agitarti, sono un amico! Vedi?» l'uomo alzò le mani in segno di resa e sfoggiò un sorriso rassicurante.
Aveva su per giù una sessantina d'anni e, sebbene non fosse troppo anziano, aveva il viso segnato da numerose rughe, come se più che il tempo fosse stato il dolore a generargliele. Portava una lunga tunica e un paio di sandali. Entrambi gli indumenti erano dello stesso color del legno. Una folta barba gli ornava il volto e corti capelli brizzolati brillavano alla luce morente del sole al tramonto.
«Cosa ti porta da queste parti? Sembri agitato.»
Il cavallo smise pian piano di dimenarsi e lasciò che l'uomo gli poggiasse il palmo della mano sul muso, dove una profonda cicatrice correva fino all'occhio sinistro.
«È dura la vita quando non sai dove andare, eh?» si mise a strofinare con dolcezza la mano e il destriero parve subirne un effetto benefico.
«Perché non racconti al vecchio Perth cosa ti affligge? Forse ti sentirai meglio, dopo! Non sai quanto desideri che qualcuno faccia lo stesso per me», l'animale lo guardò con aria interrogativa. «Come? Mi chiedi perché non ci sia qualcuno che ascolti il vecchio Perth? Oh amico mio, perché Perth non conosce nessuno!»
L'uomo si allontanò e si mise a tracciare una circonferenza immaginaria col dito, racchiudendovi la radura al suo interno.
«Qui», disse mentre continuava a muovere il dito, «sempre e solo qui è dove trascorro le mie giornate. La mia casa è dentro il tronco di quella grande quercia», stavolta puntò l'indice verso l'albero al centro della radura. «Lì dormo, mi sveglio, mangio e svolgo il mio lavoro. Che lavoro? Oh, non lo so nemmeno io. Ma so che è importante...»
Gli uccelli appollaiati sui rami del grande albero si misero a cinguettare, volendo confermare il discorso dell'uomo. Dal canto suo, il cavallo se ne stava immobile al limitare del perimetro.
«Così com'è importante questo posto. È per questo che non mi allontano mai. Mai! Sono un uomo di parola, io! E so di aver dato la mia parola che non avrei abbandonato questo posto per nessuna ragione, anche a costo della vita! Solo...» Perth si fermò bruscamente e afflosciò le braccia lungo i fianchi. «Solo, non ricordo più a chi l'ho promesso. Io... io non ricordo più nemmeno chi sono. Conosco solo il mio nome...»
Tutta la paura, la tensione e il senso di disorientamento che avevano animato la corsa del destriero fino a qualche minuto prima erano svaniti. Le parole di Perth avevano generato una tale tenerezza e un tale dispiacere in lui, che non era rimasto spazio per nient'altro nel suo cuore.
Con sommessi nitriti, il cavallo si avvicinò a Perth, addentrandosi del tutto dentro quella radura tanto speciale quanto misteriosa.
«Oh amico mio, mi dispiace! Ti ho chiesto di parlarmi di te e invece ho finito per blaterare solo io! Ti chiedo scusa, la solitudine sembra non farmi bene.»
Era strano. Pur non avendo idea di chi o cosa fosse l'uomo che gli stava parlando, il cavallo non si sentiva a disagio in sua presenza. Si sentiva al sicuro.
Perth non gli aveva detto nulla che potesse risolvere i dubbi e le domande che gli riempivano la mente. L'animale continuava a non sapere cosa gli fosse successo e perché si trovasse in quella foresta. In quel mondo. Ma non aveva importanza. Il senso di tranquillità che l'uomo aveva infuso dentro di lui era stato sufficiente a fargli vedere tutto con più chiarezza. Lo aveva aiutato a fare ordine tra i propri pensieri. Non restava che soddisfare i quesiti mancanti.
Il cavallo strofinò il muso sulla guancia di Perth, come volendogli fare una carezza di conforto. Poi, si allontanò con cautela e, chinando il capo in segno di saluto, se ne andò.
L'uomo rimase al centro della radura a fissare il destriero fino a quando non riuscì più a scorgerlo in mezzo alla vegetazione.
«Oh beh, sono contento che almeno tu sia riuscito a venire a capo dei tuoi dubbi. Magari un giorno ci rivedremo, e per allora anche io avrò capito...» Perth chiuse gli occhi con sofferenza. «Avrò capito chi sono.»
L'animale correva di nuovo dentro Aramo, ma non più con paura.
Correva, correva, correva.
Ma, stavolta, era la determinazione a spingerlo. Lo spingeva a cercare il motivo della sua venuta.
Col cuore colmo di speranza, il cavallo si allontanava sempre più dalla radura e dallo strano uomo al suo interno. Un uomo che, in qualche modo, gli era sembrato familiare. Un uomo – e una radura – che, man mano che il destriero si allontanava, non solo si facevano sempre più distanti fisicamente, ma anche mentalmente.
Più il cavallo galoppava, più il ricordo di ciò che aveva appena visto si cancellava, come se si fosse trattato di un sogno. Uno di quei sogni che, per quanto sembrino reali, al risveglio vengono subito dimenticati.
Ecco, lui stava dimenticando.
E, giunto al limitare della foresta, non era rimasta più alcuna traccia di quell'incontro. Nulla avrebbe più potuto ricondurlo da quell'uomo in quella radura, perché né dell'uno né dell'altro era rimasta alcuna traccia.
Aramo li aveva nuovamente reclamati a sé.

CAPITOLO 2

UNA SPECIALE MELODIA




I vasti territori di Iperborea brulicavano di villaggi e cittadine, ospitando più o meno abitanti a seconda delle dimensioni. Il rispetto che quel popolo nutriva nei confronti della natura era tale da impedir loro di abbattere alberi per fare posto a nuovi insediamenti, o per allargare quelli già esistenti. Tuttavia, ciò non costituiva un problema per loro e la vita trascorreva serena in quella splendida terra. La capitale sorgeva ai piedi dell'unico promontorio di Iperborea, nella zona collinare più vasta e verdeggiante di tutta l'isola. Ohn presentava una moltitudine di abitazioni e botteghe in cui c'era sempre un gran via vai, rendendola vivace e allegra. Esattamente sulla punta del promontorio, poi, l'enorme Castello del re dominava il mare e l'intera pianura.
Proprio a poca distanza dal palazzo, due minuscole figure procedevano spedite, cercando allo stesso tempo di non dare troppo nell'occhio.
«Voglio fare una sorpresa a mio padre!» esclamò Ailim sottovoce.
«Non credo sia una buona idea... Al re non piacciono le sorprese», Cahal fece sbucare la testa da dietro il muro per accertarsi che nessuno li vedesse.
«Questa volta sarà diverso!» rispose il principe alzando leggermente il tono di voce.
«Shh! Vuoi farci scoprire?»
«Scusa», Ailim abbassò il volume e continuò: «Dicevo, questa volta sarà diverso! Sono certo che appena vedrà Marvina mi dirà: “Tua madre adorava gli scoiattoli. Sono proprio felice che tu ne abbia trovato uno in un periodo tanto vicino al suo compleanno!”»
«Ma quando si parla della regina Nareen il re non è mai di buon umore...» la via era libera e Cahal fece segno ad Ailim di seguirlo.
I due amici sgattaiolarono furtivamente tra le staccionate delle graziose case in pietra e legno del villaggio, nascondendosi tra le pecore che vi pascolavano.
«Vedrai che non saprà resistere agli occhioni dolci della mia nuova pelosa amica!»
«Vedremo», Cahal fece spallucce e subito dopo i due corsero fuori dal nascondiglio, trovandosi nei pressi del Castello, davanti a uno degli ingressi della servitù.
«Ed eccoci qua!» disse trionfante il principe. «Ho battuto Pryderi ancora una volta e ancora una volta mio padre non mi ha...»
«Scoperto?»
Ailim s'immobilizzò. Marvina, invece, si voltò e osservò il sovrano da sopra la spalla del proprio padrone.
«Guardami Ailim e non essere codardo.»
«Sire, il principe non ha colpe, era solo venuto a...»
«Tu fa' silenzio, Cahal. Non importa quale sia il motivo. Mio figlio ha disubbidito ai miei ordini, ancora una volta», re Quert fece un passo in avanti, mentre da lontano iniziava a scorgersi la figura di Pryderi a cavallo. «Non tollero un simile comportamento da parte di chi, un giorno, avrà tutto il peso di Iperborea sulle spalle.»
Ailim riuscì a trovare il coraggio di voltarsi, ma il tono di voce con cui stava parlando suo padre gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene.
«Padre, vi chiedo scusa. Non era mia intenzione farvi arrabbiare...»
«Certo che non lo era, perché avevi in mente di rientrare a palazzo come se nulla fosse. Avevi intenzione di mentirmi e non dirmi che eri fuggito», Quert era un uomo alto e impostato, ma in quel momento Ailim ebbe l'impressione che fosse diventato un gigante. Lo osservava dall'alto con aria minacciosa e il suo bel volto era corrucciato, non lasciando spazio a segnali di un imminente perdono.
Il principe afferrò il proprio scoiattolo e lo mostrò al padre, facendo leva sul briciolo di coraggio che gli era rimasto. Era mosso dal tentativo di rabbonire Quert grazie alla sorpresa di cui aveva parlato a Cahal poco prima.
«No, padre. Pryderi mi stava cercando, vi avrebbe comunque riferito della mia fuga, non potevo nascondervelo. Tuttavia...» Ailim alzò Marvina per metterla nel campo visivo del sovrano. «Guardate chi ho trovato nel bosco! È una bellissima scoiattolina, come piaceva alla mamma! Ho pensato che potesse farvi piacere vederla, dato che in questi giorni...» mentre il ragazzino parlava con entusiasmo ma con voce tremante, insicuro sulla reazione del padre, Quert mutava espressione. Da severa divenne sbalordita per un attimo, ma poi si trasformò in furiosa.
«Taci!» urlò, facendo sobbalzare Pryderi, che aveva finalmente raggiunto il gruppo. «Non nominarla neanche! Se hai intenzione di tenere quella bestiola con te fa' pure, ma tienimela lontana!»
D'istinto, Ailim abbracciò Marvina, alla ricerca di protezione, e indietreggiò verso l'amico alle sue spalle.
«Sono stufo di vederti scorrazzare liberamente per il regno, devi mettere su giudizio!» continuò a gridare il sovrano. «Sarai confinato nelle tue stanze fino a quando lo dirò io!»
«Ma...» la voce di Ailim uscì in un sussurro, non facendosi udire da suo padre.
«Pryderi!» Quert si rivolse alla giovane guardia, che era rimasta in silenzio a osservarli.
«Agli ordini, sire», Pryderi scattò sull'attenti e qualche ciocca biondo ramato gli ricadde davanti agli occhi.
«Scorta mio figlio nella sua camera e assicurati che non ne esca fino a mio ordine.»
«Sarà fatto, mio re», il giovane si avvicinò con aria sconsolata al ragazzino e lo invitò a seguirlo, pregandolo con lo sguardo di non controbattere.
Non ci furono proteste, né da parte di Cahal né di Ailim. Entrambi erano rimasti atterriti dalla rabbia del sovrano e nessuno dei due trovò la forza di opporsi al suo volere.
«È ora che impari cosa significa essere un reale» sentenziò Quert.

***

L'ombra della meridiana al centro dei giardini reali aveva superato la tacca dell'ora di cena da un pezzo. In quel periodo le giornate si allungavano e il sole tramontava poco prima che tutti andassero a letto. Grazie alla presenza dei suoi raggi anche di sera, Ailim era riuscito a capire – osservando la meridiana – che sarebbe andato a dormire senza mangiare.
Il ragazzino si allontanò dalla finestra e si appallottolò sopra il letto. Marvina colse l'occasione per saltare sul materasso e andarsi ad acciambellare ai suoi piedi. Sembrava affranta quanto lui.
«Chissà cosa starà facendo Cahal in questo momento. Tutti lo prendono in giro da quando suo papà Irven è morto», Ailim strinse forte i pugni. «Sono solo invidiosi del fatto che viva a palazzo! Quanto sono sciocchi, non trovi, Marvina?»
Lo scoiattolo mosse la testa in assenso e mise le zampe sui fianchi, facendo ben intendere che la parola “sciocchi” non era quella che avrebbe usato lei in quel contesto.
«Io non voglio che Cahal si senta solo, Marvina» continuò sconsolato il principe. «Per colpa mia, però, è successo proprio questo! Fino a quando mio padre non mi lascerà uscire di nuovo non potrò vederlo e lui non ha altri amici all'infuori di me.»
Ailim aveva appena finito di pronunciare la frase, quando udì un lieve ticchettio alla porta. Il piccolo attese qualche istante, non convinto di aver sentito bene, ma quando il rumore tornò con più insistenza non ebbe più dubbi. Stavano bussando.
«Ehm... Avanti?» perché chiedere il permesso di entrare mentre era in punizione?
La porta si aprì con cautela per non far cigolare i cardini e una giovane testa dalla folta chioma nera s'infilò dentro.
«È permesso, vostra altezza?» domandò l'affascinante ragazzo che aveva bussato, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.
«Oskar!» Ailim saltò giù dal letto, entusiasta di vedere il suo bardo preferito.
Il ragazzo, avente un completo di casacca e pantaloni viola scuro e un corto mantello rosso, aprì un po' più la porta, riuscendo a entrare.
«Sono lieto che siate tanto felice di vedermi. Come ve la passate?»
Da dietro il bardo arrivò una gomitata che per poco non lo fece cadere.
«Ma che razza di domande fai, stupido? Sai che è stato messo in castigo dal re» sbraitò sottovoce Pryderi.
«Suvvia, amico! Era solo un modo per sdrammatizzare!» si difese Oskar.
«Sdrammatizzare. Vai a dirlo al sovrano se ti becca qui! Fa' in fretta, piuttosto», Pryderi spinse il bardo ancor più dentro la camera del principe e richiuse la porta spazientito.
Ailim aveva osservato divertito l'intera scena, ricordando tutte le altre volte in cui quei due avevano dato vita a buffe situazioni come quella.
«Chiedo scusa, vostra altezza, questa guardia qui fuori è troppo severa» disse Oskar aumentando di proposito il tono di voce.
«Ti sento, sai!» rispose Pryderi da dietro la porta.
«Certo che lo so» affermò il bardo soffocando una risata. «Ora però veniamo a noi» concluse rivolgendosi ad Ailim.
«Cos'è quella?» il principe non riuscì a celare la propria curiosità e indicò l'oggetto che il ragazzo portava dietro la schiena.
«Avete occhio, eh? Questa è il motivo per cui sono venuto a trovarvi», Oskar prese l'arpa che teneva nascosta e la mise davanti allo sguardo estasiato di Ailim. «Vi presento l'Arpa Una, mio principe! È uno strumento molto speciale e prezioso che viene affidato solo ai bardi più meritevoli. Oggi, il mio maestro ha lodato le mie abilità, affermando che sono finalmente pronto per usarla!»
L'Arpa rifletteva i tenui raggi del sole morente sulla propria superficie dorata, dando l'impressione di generare essa stessa luce. Le sue corde brillavano e sembravano così delicate che Ailim temette si sarebbero rotte al primo tocco.
«Che meraviglia... Cos'ha di tanto speciale quest'Arpa, Oskar?»
«Oh, altezza, mi date sempre così tanta soddisfazione! La vostra voglia di conoscere appaga la mia volontà di insegnare», il bardo fece un cenno col capo in direzione del letto, chiedendo il permesso di potersi sedere. Ailim glielo concesse e si mise al suo fianco.
«L'Arpa Una, in tempi remoti, era chiamata col nome del suo originale possessore. L'Arpa del Dagda...» il bardo venne immediatamente interrotto dal principe.
«Dagda?! Il “padre potente”, il “rosso della scienza perfetta”, il...!»
«Sì, principe Ailim, proprio lui. Uno degli Dei più forti e importanti di tutti» continuò il bardo ridacchiando per l'esaltazione del ragazzino. «Dagda possedeva oggetti dai poteri straordinari e l'Arpa era uno di essi. Si dice che sia in grado di causare tristezza in chi ne ascolta il suono o di placarne l'ira, se colto da grande tensione.»
«Cosa significa “si dice”? Basta provarla per vedere se funziona, no?» Ailim era sbigottito.
Marvina si arrampicò sulla spalla del bardo e puntò il muso verso l'Arpa, come volendo sottolineare la lecita domanda appena posta. Oskar fece una carezza alla testa dell'animale e indirizzò lo sguardo sul principe.
«Non è così semplice, altezza. I poteri dell'Arpa non si svelano facilmente a chiunque. Ci vuole uno speciale apprendimento per sbloccarne le capacità e un'indole adatta per metterle in atto. Finora, beh, nessuno n'è stato in grado», segni di delusione si dipinsero sul volto di Ailim. Oskar, allora, si affrettò ad aggiungere: «Ma io non sono un bardo qualsiasi, giusto? Riuscirò laddove gli altri hanno fallito, ve lo assicuro!»
La porta della camera si aprì e Pryderi varcò per metà la soglia d'ingresso, gettando continuamente occhiate al corridoio.
«Spero che tu sia riuscito a dire tutto ciò che volevi al nostro principe, perché adesso devi andartene. È quasi l'ora del cambio della guardia e chiunque verrà mandato al mio posto non tollererà la tua presenza qui.»
«Perché, tu mi hai mai tollerato?» scherzò Oskar alzandosi dal letto e riponendo l'Arpa nella sacca sulle proprie spalle.
«Quanto basta, Oskar. Ma sto iniziando a pentirmene», il giovane lo guardò con aria torva, mentre il bardo gli sfrecciava accanto, uscendo fuori dalla stanza in un batter d'occhio.
«Non ci giurerei, caro Pryderi. Se ti allontanassi da me chi ti porterebbe tutte quelle belle fanciulle direttamente ai tuoi alloggi?» chiese ammiccando.
Pryderi fece per spintonarlo, ma Oskar era ormai fuori portata e si dileguò subito dopo, non prima di aver rivolto, però, un inchino ad Ailim.
«Presto o tardi lo farò sbattere nelle segrete» disse esasperato il giovane dalla divisa blu.
«Grazie per quello che hai fatto, Pryderi.»
La guardia non si aspettava quelle parole. D'altronde, era sempre lui a dargli la caccia quando scappava dal Castello.
«Per aver permesso a Oskar di venirmi a trovare» continuò il principe, intuendo che il ragazzo non avesse capito il motivo di quel ringraziamento. «Mi ha messo di buon umore.»
Pryderi si grattò il capo leggermente in imbarazzo e puntò lo sguardo dritto sui propri stivali.
«Era il minimo che potessi fare, vostra altezza. Mi dispiace vedervi chiuso qui dentro. Tuttavia, è giusto che sappiate che l'idea non è scaturita né da me né da Oskar. È stato Cahal a chiederci questo favore, sperava potesse confortarvi.»
Ad Ailim si scaldò il cuore. Aveva temuto che Cahal si sentisse solo senza di lui, ma la verità era che, in fondo, era stato Ailim a sentirsi perso senza il proprio amico.
«Quando finisci il tuo turno qui va' a ringraziarlo da parte mia, per favore.»
«Con molto piacere, vostra altezza» rispose Pryderi sorridendo. Poi, inchinandosi anche lui come aveva fatto Oskar, si congedò chiudendosi la porta alle spalle.
Il sole era calato del tutto, ormai, ma i morsi della fame non erano più un problema. Con un nuovo mistero nella mente e l'affetto di Cahal nel cuore, Ailim poté finalmente prendere sonno tra le morbide lenzuola del proprio letto.
Tra i corridoi del palazzo, semi immersi nell'oscurità, una figura camminava furtiva per non farsi scorgere da occhi indiscreti.
Era diretta agli alloggi del re.


CAPITOLO 3

UN GUSCIO VUOTO




I dipinti appesi ai muri del Castello scrutavano con aria severa la figura incappucciata mentre avanzava nel corridoio. Le grosse torce che illuminavano le varie aree del palazzo non erano presenti lì e solo la luce lunare permetteva all'incappucciato di non urtare qualche antico manufatto e farsi sentire dalle guardie. La penombra rendeva i soggetti dei quadri molto più sinistri di quanto non fossero. Uno in particolare attirò l'attenzione dell'intruso.
L'individuo arrestò il proprio incedere attento e silenzioso e si mise a osservare la donna del dipinto. I capelli rossi e voluminosi le ricadevano delicatamente sull'abito regale, mentre la corona le brillava sul capo. Gli occhi verdi erano stati riprodotti con tale fedeltà che lo sguardo determinato che lanciavano sull'osservatore sembrava reale. La bellezza e il portamento di Nareen erano stati perfettamente racchiusi in quella tela.
«Dispiace anche a me, mia regina» gracchiò sottovoce la figura incappucciata.
Un rumore di passi la fece allarmare e cercò rapidamente un nascondiglio vicino, ma invano. Il ticchettio degli stivali sul pavimento di pietra si fece sempre più vicino e da dietro l'angolo venne fuori un giovane in divisa da soldato. Il ragazzo sussultò alla vista della figura davanti a sé e, portandosi una mano sul cuore, le si avvicinò.
«Per l'amore di tutti gli Dei, Grania! Mi avete spaventato. Pensavo foste già arrivata dal re» dichiarò Pryderi.
Due grosse mani rugose vennero fuori da sotto le lunghe maniche della toga e andarono ad abbassare il cappuccio che celava il viso di Grania.
«E io pensavo che non ci fosse nessuna guardia stasera presso gli alloggi di sua maestà, come da sua disposizione» replicò scocciata la donna avanti con gli anni.
«No, infatti. È anche vero, tuttavia, che sarebbe stato da incoscienti lasciare sua altezza reale totalmente scoperto. Per questo mi ha avvisato della vostra visita e mi ha chiesto di restare.»
«D'accordo, d'accordo», il basso ma muscoloso corpo di Grania si fece avanti con impazienza, spintonando quello di Pryderi. «Basta ciarlare adesso, devo raggiungere il re.»
«Ovviamente» rispose il giovane, offeso per essere stato quasi ignorato del tutto. «Ha ragione Oskar quando dice che siete acida come l'Idromele andato a male...» bisbigliò.
Grania si fermò di botto a un palmo dalla porta del sovrano e tornò sui propri passi con incedere nervoso.
«Senti un po', ragazzo!» la guardia si pentì immediatamente di ciò che aveva detto. «A differenza di quello scapestrato di un bardo tu mi stai simpatico, vedi di non farmi cambiare idea!» e portando il suo grosso indice davanti al naso di Pryderi in segno di ammonimento, Grania si diresse nuovamente verso la sua destinazione. Bussò due colpi alla porta e quando ne sentì uno di rimando provenire dall'interno, entrò.
Il silenzio ritornò ad aleggiare nel corridoio semi illuminato dalla Luna e per qualche istante si udì solo il respiro di Pryderi.
«Caspita» mormorò infine. «Se con me, che mi trova simpatico, si comporta così, non oso immaginare ciò che fa a chi non le piace.»

L'intero Castello di Ohn era composto da immensi blocchi di pietra, e così ogni stanza al suo interno. Tuttavia, in alcune di maggiore importanza – come la sala del trono o gli alloggi dei reali – le pareti e i pavimenti erano stati levigati e trattati con delle sostanze particolari, al fine di renderli splendenti. La camera da letto di re Quert, ovviamente, era una di quelle.
Il vano era abbastanza ampio da ospitare un grosso letto matrimoniale con coperte finemente ricamate, un massiccio tavolo di legno sul quale era momentaneamente riposta la corona e un armadio ricavato dal legno più pregiato e resistente. A completare l'arredamento, c'erano numerosi scaffali con ninnoli vari, un vasto tappeto che ricopriva metà del pavimento della stanza e, infine, un grande camino con di fronte un comodo scranno.
Nel momento in cui Grania fece il suo ingresso, trovò il sovrano seduto davanti al fuoco scoppiettante.
«Vedo che avete seguito il mio consiglio, maestà» disse la donna scrutando il camino. «Stare al caldo vi fa bene.»
«Non ti manderei a chiamare se poi non seguissi le tue raccomandazioni», Quert si voltò abbozzando un sorriso. Aveva un'aria decisamente stanca.
La donna si avvicinò al tavolo di legno e cominciò a riporvi diverse boccette che aveva posizionato sulla cinta, sotto la mantella.
«Che sorriso smagliante, vostra altezza! Mi sento molto più tranquilla adesso» rispose Grania con tono sarcastico.
«È il massimo che posso fare al momento. Non sono dell'umore giusto» bofonchiò il sovrano passandosi una mano tra i morbidi capelli dorati.
«Siete mai dell'umore giusto, mio re?»
L'uomo alzò il capo e, incontrando lo sguardo severo della donna, non poté fare a meno di sentirsi in soggezione. Grania era una signora dai mille talenti – era la miglior panettiera della contea, sapeva creare unguenti miracolosi e aveva fatto nascere quasi tutti i bambini di Ohn – ma ciò in cui eccelleva era il suo pugno di ferro. Poteva anche essere bassa, ma quello che perdeva in altezza lo guadagnava in rispetto. Sarebbe stata un ottimo comandante delle truppe reali, se solo lo avesse voluto.
«No, in effetti no» rispose infine col tono di chi è appena stato richiamato dalla propria madre.
Grania si rimise a trafficare con gli oggetti che aveva posizionato sul tavolo, aprendo delle boccette e versandone il contenuto in una fiala vuota. Quando riprese a parlare, però, fu come se il suo sguardo accigliato fosse ancora puntato sul volto colpevole di Quert.
«Ho saputo ciò che avete fatto oggi. Le vostre urla si sentivano fino ai confini del villaggio! Non vi sembra di essere stato troppo duro col principe?»
«L'ho fatto per il suo bene. Un giorno questo regno sarà suo e se vorrà guadagnarsi il rispetto del suo popolo dovrà essere il primo a dare il giusto esempio.»
«Oh, io non credo proprio che lo abbiate fatto per questo motivo», l'ultima goccia del liquido azzurrino finì dentro la fiala, riempiendola del tutto. «Anche se non lo date a vedere, so bene quanto siete fiero di vostro figlio. Non siete cieco, vi accorgete pure voi che il suo buon cuore è amato da tutti qui a Ohn e che le sue fughe dal palazzo non sono segno di indisciplina, ma di pura curiosità. Il piccolo Ailim ha solo voglia di conoscere meglio il suo mondo e questo non lo renderà di certo un cattivo sovrano.»
La donna prese la fiala e si avvicinò allo scranno su cui era accasciato il re.
«No, io credo che voi lo abbiate punito per lo stesso motivo per cui continuate a punire voi stesso allontanando qualsiasi forma d'affetto. Per paura.»
Il sovrano afferrò la boccetta dal liquido azzurro e scattò in piedi, allontanandosi dalla signora e appoggiandosi al bordo della finestra. Fuori, la Luna rischiarava meravigliosamente quella notte.
«Attenta a ciò che dici, Grania. Mi avrai pur visto crescere, avrai pur fatto nascere mio figlio, ma non ti permetto d'insultarmi.»
«Credete che avere paura sia una debolezza? Solo un folle non ne proverebbe! E voi non siete matto, siete solo prudente. Eppure...» Grania poggiò una delle sue grosse mani rugose sulla spalla del re. «La vostra prudenza si è trasformata in un timore troppo grande da gestire, e questo non va bene. Comprendo che a causa della morte di vostra moglie, prima, e del vostro caro amico Irven, dopo, abbiate sofferto molto. Questo, però, non significa che dovete rendere il vostro cuore più duro della pietra di questo Castello per non soffrire più. Anzi, così facendo vi farete solo ancora più male.»
«Non m'importa nulla del mio cuore, io voglio solo proteggere quello di mio figlio.»
«E pensate che allontanarlo da voi sia la strada giusta? Pensate che spezzargli il cuore adesso lo renderà più forte dopo?»
Quert alzò la fialetta che aveva tra le mani fino a farla brillare della luce lunare.
«Quello che so è che avrei dovuto prendere esempio da mio padre. Così non mi sarei lasciato indebolire dai sentimenti.»
Udendo quelle parole, Grania andò su tutte le furie. Afferrò il sovrano per le spalle, lo sollevò di peso e l'obbligò a guardarla dritto negli occhi.
«Non è ciò che pensate davvero! Voi odiavate vostro padre, e facevate bene! Era un uomo arrogante, testardo ed egoista. Non pensava mai al suo popolo e, seppure tutti vivessero bene sotto il suo comando, non erano per nulla felici. Con voi invece è diverso!» la donna strinse ancora più forte la presa. «Il popolo è sereno e gioioso, adesso, ed è tutto merito vostro e di quei sentimenti che voi dite vi abbiano indebolito! Senza le passioni e i dolori ad animarci non siamo niente più che gusci vuoti. E Iperborea non necessita di un guscio che la governi, ma di un uomo. Iperborea vuole voi e vuole vostro figlio.»
A quel punto le mani di Grania lasciarono lentamente le spalle del sovrano e si afflosciarono sui fianchi.
«Iperborea ha bisogno di umanità, sire. E solo un cuore colmo di emozioni può dargliela.»
Quert rimase impietrito nella posizione in cui l'aveva messo la donna e non riuscì nemmeno a raddrizzarsi. La fissava con occhi spalancati e colmi di lacrime. Grania notò subito il luccichio nei suoi occhi e, addolcendo il tono di voce, gli prese una mano.
«Piangete, sire. Vi farà bene.»
La corazza del sovrano andò in mille pezzi. Cadendo in ginocchio, l'uomo si portò le mani al viso, iniziando a piangere copiosamente. Grania gli massaggiò la schiena con tenerezza infinita e vide quanto fragile fosse quel condottiero che appariva tutto d'un pezzo ai suoi sottoposti. Vide quanta tristezza si nascondesse sotto il suo giovane corpo muscoloso che nulla sembrava poterlo scalfire.
Per svariati minuti il pianto del sovrano d'Iperborea inondò la stanza con ritmo cadenzato. Non c'era spazio per altre parole. Poi, sfogatosi e riuscito finalmente a calmarsi, Quert si tirò su e cercò di ritrovare un po' di contegno.
«Ti ringrazio, Grania. E grazie anche per la tua discrezione» disse riferendosi alla fiala azzurra che aveva appoggiato sul bordo della finestra.
«Ho aggiunto una nuova erba al miscuglio che vi farà riposare ancora meglio. Dovete assumerne tre gocce prima di coricarvi.»
La donna dai lunghi capelli brizzolati legati in un'alta coda di cavallo, che sembravano di paglia tanto erano secchi, prese la fiala dal cornicione e la porse al re. L'uomo la riportò sul tavolo di legno e ne versò il contenuto in un piccolo cilindro nelle cui pareti era stata segnata una tacca. Quert versò il liquido fino a che non la raggiunse e poi inghiottì il miscuglio, mettendo da parte quello rimasto.
«Ci pensate ancora?» chiese all'improvviso la donna non appena il sovrano ebbe finito il procedimento.
«E perché mai dovrei? Erano solo i deliri di un vecchio morente, non hanno significato.»
«Vi ostinate ancora a mentirmi quando sapete bene che so riconoscere una bugia?»
L'uomo dai capelli biondi come il sole sbuffò, arrendendosi all'evidenza. Non c'era modo di nascondere qualcosa a quella donna.
«Hai ragione – come sempre – ma non ho mentito quando ho detto che si è trattato solo di puro delirio», Quert strinse forte i pugni. «L'hai detto anche tu. Re Morfran non aveva a cuore le sorti del suo popolo. Quindi perché mai avrebbe dovuto cambiare idea proprio prima di esalare l'ultimo respiro?»
«Si dice che quando un uomo è prossimo alla morte si renda conto che, davanti a lei, siamo tutti uguali. Forse anche vostro padre lo ha capito e ha voluto porre rimedio alla sua strafottenza.»
Quert prese la corona poggiata in un angolo del tavolo e iniziò a rigirarsela tra le mani, senza rispondere all'affermazione di Grania. Quest'ultima chiuse gli occhi come per cercare un antico ricordo sopito nella mente e, avendolo trovato, prese un bel respiro.
«“Figlio mio, se mai dovessero tornare, proteggi il tuo popolo. Gli Oscuri non hanno pietà, tu non averne per loro”», la donna riaprì gli occhi e li puntò anche lei sulla sfavillante corona, che brillava sotto la luce della Luna. «Le ultime parole di vostro padre sono sicuramente enigmatiche, ma una cosa è certa: voleva che il popolo fosse al sicuro.»
«Sì, ma al sicuro da chi?» esclamò Quert esasperato.
«Non lo so, sire. Forse il tempo ce lo dirà.»
Il cielo stellato era limpido e sereno. Una sola nuvola vagava sperduta alla ricerca delle proprie sorelle, che però non erano presenti nella volta celeste. Non sapendo dove andare, infine, decise di avvicinarsi alla fonte luminosa più grande e confortevole che trovò. Così facendo, la Luna venne oscurata, facendo piombare la valle nelle tenebre.
«Il tempo...» sussurrò il sovrano nel buio della notte.
A una certa distanza dal Castello, il fiume Uati smise di scorrere placidamente al celarsi della Luna. L'acqua iniziò a incresparsi e orrende chiazze scure presero forma nelle sue profondità.

CAPITOLO 4

GLI OSCURI




L'oscurità piombò sulla Valle Capovolta, come un grosso macigno in uno stagno. Il tonfo sul soffice terreno argilloso avrebbe dovuto essere tanto forte che avrebbe dovuto echeggiare fino ad arrivare alle attente orecchie di Aife. Ma ciò non avvenne. Il suono morì ancora prima di nascere. Tuttavia, la Custode era riuscita comunque a percepirli.
Figure tozze, esili, robuste e scheletriche presero ad aggirarsi furtivamente tra gli arbusti, ma tanta attenzione fu inutile. Aife sapeva che erano lì.
La donna alzò lo sguardo verso l'alto e vide la nuvola che aveva oscurato la Luna. La vide scrutando attraverso la superficie riflettente che costituiva il cielo del suo popolo.
La vide attraverso l'acqua del fiume.
Iperborea era tutta lì, oltre il confine d'acqua che separava Aife e i suoi compagni dalla terra che un tempo era appartenuta anche a loro.
«Maledizione!» imprecò la Custode. «Non ci voleva quella nuvola. Non stanotte che la Luna è tanto brillante.»
Due guardie, dalle armature sottili ma robuste e scintillanti come pietre preziose, si precipitarono al fianco della donna. Una delle due si avvicinò per farsi udire meglio, pur mantenendo una certa distanza in segno di rispetto.
«Custode Aife, temiamo che il buio che sta dilagando possa portare i Dokkalfar allo scoperto. Forse dovremmo...»
Aife iniziò ad avviarsi verso la parte della foresta da cui aveva percepito il tonfo sordo pochi istanti prima, sovrastando con la sua voce il discorso della guardia.
«Sono già qui. Radunate tutti gli uomini dislocati lungo il perimetro», i passi della donna si fecero sempre più rapidi. «Raggiungetemi il prima possibile.»
Le ultime parole pronunciate dalla Custode furono sentite dai due guerrieri solo perché trasportate dal vento. Aife, infatti, era già svanita nell'oscurità della vegetazione.
La Custode, dal corpo snello e agile, si muoveva come se fosse parte integrante della foresta. Planava delicatamente quando cadeva una foglia, strisciava in silenzio se appariva un serpente, balzava felina se le si affiancava una volpe. Quando giunse in una zona in cui l'unica flora presente erano dei bassi e rachitici arbusti, si arrestò di colpo. Divenne così immobile tanto da sembrare il tronco di un albero spezzato.
«Il vento ulula parole fugaci, cullando la scintilla d'una fiamma donata», Aife portò una mano all'indietro, afferrando il manico della lunga Lancia che teneva saldamente bloccata alla schiena dentro uno spesso fodero. Le inquietanti figure che si erano mimetizzate con gli arbusti si lanciarono occhiate perplesse tra loro.
«Oh radioso Lugh, che il tuo calore risplenda sugli animi corrotti!» la Custode tirò la Lancia fuori dal fodero con un rapido movimento del braccio. Nello stesso istante, l'oscurità balzò fuori dal suo nascondiglio, puntando dritto alla gola della donna.
E subito venne annientata.
Una potente fiamma ardeva sulla sommità della lancia di Aife. Il suo calore e la sua purezza avevano ricacciato indietro le tenebre. Tuttavia, la Custode sapeva bene che era ancora troppo presto per esultare.
Non appena la potenza del fuoco diminuì, un'altra orda di Dokkalfar venne fuori, stavolta facendo molta più attenzione alla strana arma brandita dalla donna. Le creature dai lunghi capelli neri e artigli affilati come lame si disposero a cerchio intorno alla loro avversaria, sfidandola ad attaccare di nuovo. Quando si accorsero che Aife attendeva che la fiamma – divenuta poco più di uno zampillo – tornasse alla sua precedente grandezza, capirono che quello era il momento perfetto per sferrare il contrattacco.
Il più grosso e inquietante tra tutti fu il primo a farsi avanti, allungando ancor più i propri artigli e caricando lo sguardo di puro odio e malvagità. Gli altri fecero un passo verso la Custode, rendendole inaccessibile qualsiasi via di fuga. Il Dokkalfar massiccio, infine, si decise a fare la sua mossa.
«Di' addio alla tua luce, “Somma” Custode!» gridò con voce possente e profonda mentre protraeva gli artigli. E gridò ancor più forte quando se li vide mozzare.
Una schiera di soldati, con le stesse armature delle due guardie precedenti, sbucarono alle spalle dei Dokkalfar, mentre il pugnale di un esperto tiratore si conficcava nel suolo dopo aver reciso gli artigli della creatura. Questa si accasciò a terra agonizzante, mentre sangue scuro sgorgava dalle ferite inferte. I soldati non diedero ai Dokkalfar il tempo di capire cosa stesse succedendo per potersi riorganizzare e li attaccarono subito. Il rumore metallico delle spade tirate fuori dai foderi fendette l'aria quasi fosse il primo colpo che veniva sferrato su quegli esseri. Subito dopo, il vero attacco arrivò.
Le lame calarono sulle teste degli Oscuri, tranciandone qualcuna e ferendone altre. Dopo un primo attimo di smarrimento, i Dokkalfar iniziarono a schivare i colpi e a far cozzare spade e artigli.
«Allontanatevi, Somma Custode! Almeno finché la fiamma della Sléa Bùa non sarà di nuovo attiva!» urlò la guardia più vicina alla donna, cercando di sovrastare il frastuono della battaglia.
«Non ho intenzione di tirarmi indietro solo per proteggere la fragilità della mia carica», Aife legò nuovamente la Lancia alla schiena e tirò fuori due corti pugnali dalla cintura. «Proteggerò i miei uomini anche a costo della vita.»
La Custode si afflosciò al suolo, schivando prontamente il lungo artiglio di un Oscuro e, ruotando su se stessa, piantò il pugnale nella gamba del suo avversario. La creatura si abbassò nel tentativo di strappare via l'arma e buttarla lontano. Tuttavia, quando il Dokkalfar portò la mano verso il pugnale, vide che non c'era più. Era già stato estratto da Aife che stava sgusciando via, passando tra soldati e Oscuri come acqua che scorre.
Attacchi e poi fuggi? – pensò sogghignando il Dokkalfar, convinto di averle messo paura. Quell'idea, però, ebbe vita breve.
Esattamente come chi l'aveva formulata.
Aife non era fuggita, aveva solo lasciato quella creatura al soldato che le si era parato dietro. Schizzi di sangue nero come l'Abisso macchiarono il verde manto erboso, mischiandosi ai corpi dei caduti.
Mentre la Custode si lasciava dietro quello spettacolo terribile, sentì vibrare la Sléa Bùa dentro il fodero, quasi le stesse stretto e volesse liberarsene. Dopo aver preso un respiro profondo, la donna tirò fuori la Lancia ancora una volta e la piantò saldamente per terra, con la punta rivolta verso il basso. Quando vide che la fiamma si era immersa del tutto nel suolo, chiuse gli occhi.
«Che il tuo calore risplenda sugli animi corrotti.»
Tra i fili d'erba iniziarono a formarsi numerose crepe, dalle quali fuoriuscì una intensa luce abbagliante. Sembravano tanti piccoli fiumi di lava, ma se per errore una guardia li toccava non provava alcun dolore. Solo i Dokkalfar si ustionavano brutalmente. La proliferazione di quelle vie di luce si arrestò una volta giunta ai margini del bosco. Solo allora si sprigionò il vero bagliore.
Si fece giorno. Tutto il perimetro venne invaso dalla luce per diversi minuti. Infine, quando la potente luminosità si diradò, nemmeno un Dokkalfar era rimasto tra quelli dentro al raggio d'azione. La Sléa Bùa aveva fatto il proprio dovere.
Per quella notte, l'oscurità era stata respinta.

***

Respinta, ancora una volta.
Le sottili dita della Regina provarono a oltrepassare la barriera invisibile, per l'ennesima volta, ma senza successo. Continuava insistentemente a ricacciarla indietro. Aife le aveva rivelato l'ubicazione di quel luogo, e solo per quello la donna era in grado di vederlo. Ma ciò non significava che vantava anche il diritto di poter entrare.
«Sapete che solo io posso varcare la barriera» disse la Custode sbucando fuori da chissà dove. «Perché desiderate tanto entrare, maestà?»
Niamh tentò di celare l'imbarazzo per essere stata colta in flagrante. Allontanò una volta per tutte la candida mano dalla barriera e se la passò tra i lisci capelli dorati.
«Vi stavo solo cercando, mia dolce Aife» disse la Regina tentando di riacquistare un certo contegno. «Non trovandovi da nessuna parte ho pensato di controllare qui.»
Niamh fissava i grossi blocchi di pietra che non poteva superare. Su di essi erano incisi simboli sinuosi e intrecciati fra loro. Venivano chiamati “nodi”, vista la loro caratteristica di annodarsi fino a chiudere la linea che li componeva. Una linea che non si spezzava mai, che non s'interrompeva. Indicava l'immortalità, l'eternità, i cicli di rinascita. Qualcosa a cui Niamh non poteva smettere di pensare.
Aife si accostò alla sovrana e la guardò con tenerezza. Sapeva di essere la sua unica vera amica, l'unica che – pur non mancandole mai di rispetto – la ascoltava non con l'orecchio di un suddito ma di un confidente sincero.
«Di cosa volevate parlarmi, vostra altezza?»
Niamh accarezzò con mano tremante la corona dorata che portava sul capo e si prese qualche minuto prima di rispondere. Aife notava come si sforzasse di mantenere lo sguardo sulla linea dell'orizzonte, per evitare di guardare più in alto di quanto avrebbe dovuto. E voluto.
«Mi chiedevo solo se ci fossero stati altri segni di un possibile attacco da parte dei Dokkalfar, dopo l'ultima notte di Luna piena» sputò infine la Regina.
La Custode rimase qualche altro secondo a fissarla. Poi si allontanò di qualche passo, volgendo le spalle ai grandi massi che stavano al di là della barriera. Sfiorò il braccialetto di nastri intrecciati color oro e argento che portava al polso e pensò a sua sorella Edana. Nonostante tutto, non riusciva a dimenticarla.
Prima che la sovrana potesse cogliere lo sguardo malinconico tra gli occhi verdi della Custode, Aife si riprese del tutto e si apprestò a rispondere.
«Mi avete fatto la stessa domanda ieri, Regina Niamh», la donna dal vestito bianco come una nuvola si morse il labbro, maledicendosi per non esserselo ricordato prima. «E, come ieri, vi rispondo di no. Per fortuna, sembra che la situazione si sia momentaneamente stabilizzata. Gli Oscuri non si aspettavano che possedessimo un'arma tanto letale per loro. D'altronde, la Sléa Bùa è stata ritrovata solo da poco.»
L'aria era limpida e pulita, l'erba fresca di rugiada e gli uccellini volavano sereni sopra le loro teste. Quell'atmosfera avrebbe reso tranquillo e sereno chiunque. Chiunque, ma non Niamh.
La Regina si sentiva stretta in una spira letale, graffiata da un groviglio di rovi spinati. Sentiva che non era quello il luogo in cui desiderava stare e sapeva che la prossima frase pronunciata da Aife sarebbe stata rivolta proprio a tale argomento.
Così fu.
«Ora che ho risposto alla vostra domanda, potete dirmi qual è il vero motivo per cui mi stavate cercando. O meglio», la Custode fece qualche passo indietro, oltrepassando la barriera invisibile. Così facendo, divenne invisibile anche lei, ma la sua voce continuò a librarsi nell'aria. «Potete dirmi perché volevate entrare nel Nemeton.»
Il cuore della sovrana iniziò a battere furiosamente. Si era aspettata che la conversazione virasse in quella direzione da un istante all'altro, eppure ciò non era bastato per prepararla.
«Non vi manca, mia cara Aife?» disse, evitando di rispondere direttamente alla domanda.
La Custode sapeva benissimo a cosa si riferisse, non avrebbe nemmeno avuto bisogno di vederla alzare lo sguardo – proprio sopra quella dannata linea d'orizzonte – per accertarsene. Niamh non poteva vedere Aife lì dentro, ma sapeva che lei, invece, ne era in grado. Sapeva che la stava osservando mentre alzava gli occhi al cielo. Un cielo fatto di specchi e riflessi.
«Non dovreste guardarla, mia Regina. Lo dico per il vostro bene», ma mentre pronunciava quelle parole, anche Aife gettava lo sguardo verso l'alto. «Vi farà stare solo più male.»
«Eppure sono certa che anche voi la stiate osservando. Proprio adesso.»
Aife abbassò gli occhi, pur sapendo bene di non poter essere scorta dalla sua amica. Provava ugualmente vergogna, dato che Niamh non si era sbagliata.
«Mia Regina, Iperborea non potrà mai più essere la nostra casa.»
«Lo so, Aife, lo so...» c'era titubanza nel suo tono di voce e la Custode si chiese perché. Non c'era alcun modo per loro di oltrepassare definitivamente lo specchio d'acqua.
«Allora perché continuare a rivolgerle la nostra attenzione?» aveva usato di proposito il plurale. «Io posso raggiungerla a volte, è vero, ma è doloroso farlo sapendo di non potervi restare. Evito di affezionarmici, così che non mi possa mancare, come dite voi.»
Gli occhi della Regina furono catturati dal volo di un pettirosso, che sfrecciò a tutta velocità davanti alla porzione di cielo che Niamh stava osservando. La sovrana seguì la traiettoria del volatile e aguzzò l'udito, nella vana speranza di udirne il cinguettio. Un cinguettio che non giunse mai. Come sempre.
«Eppure sono certa che invece vi manchi il suono della natura, cara Aife» iniziò a dire con voce tremante. «Il canto degli uccelli, il gracchiare delle rane, il sibilo dei serpenti», copiose lacrime minacciarono di solcare il volto angelico della donna. «Quando tornate qui non riesco a credere che non sentiate la mancanza dello sciabordio delle onde del mare, del ticchettio delle gocce di pioggia sulle foglie.»
Aife era uscita dal cerchio di pietra ed era nuovamente visibile alla Regina. La osservava perplessa mentre parlava, non riuscendo a interpretare l'estremo attaccamento che l'amica sembrava dimostrare per un mondo che mai aveva conosciuto di persona.
Prima della venuta degli Oscuri anche la nostra Valle brulicava di suoni – pensò Aife – è forse in loro memoria che soffre?
La Custode avvicinò il polpastrello al volto di Niamh, catturando la prima lacrima che aveva iniziato la sua discesa nella guancia. A quel punto, la donna si girò a osservarla.
«Non può non mancarvi la vita, Aife. La vita vera... A me mancherebbe tantissimo» sussurrò infine.
Il mondo in cui vivevano era stupendo, verdeggiante e ospitale, ma era un semplice specchio. E per quanto ciò che si riflettesse al suo interno fosse meraviglioso, restava sempre e solamente quello.
Un riflesso.
Si possono riflettere i colori, le forme e le luci, ma non si potranno mai riflettere suoni e odori. La vita non si cattura in uno specchio.
«È passato molto tempo dalla notte in cui i Dokkalfar ci hanno attaccati» asserì la Custode dopo svariati minuti di assordante silenzio. «Quanti anni credete che siano passati a Iperborea, nel frattempo?»
«Chi lo sa, forse un anno, forse tre», il tempo scorreva diversamente là fuori, Niamh lo sapeva bene. «So solo che ce lo stiamo perdendo, amica mia.»
Un sassolino cadde nell'acqua del fiume, facendo vibrare tutta la superficie specchiante che Niamh e il suo popolo avevano finito per chiamare cielo. Man mano che il sassolino precipitava giù, iniziava a dissolversi e mutare. Quando giunse poco sopra le chiome più alte della Valle Capovolta, si trasformò completamente in farfalla e volò via.
«Sono certa che ci stiamo perdendo davvero tante cose.»

Dama Berkana

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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