Quasi per caso scoprii che in paese, di nascosto, mi chiamavano “13” perché mi ero fatta tredici ragazzi. Non era vero, ma a me non fregava nulla. Mi piaceva avere amicizie tra i maschi più che tra le femmine, soprattutto a scuola, e questo aveva contribuito alla fama. Non mi devo giustificare. Vivevo ad Acquaforte, un nome per prendere in giro gli abitanti: schiacciato su un costone di montagna quasi avesse paura di essere notato, questo piccolo paese non era famoso per i fiumi. Nei dintorni non c'erano torrenti e il più vicino era a trenta chilometri. Le case si srotolavano lungo viuzze e stradine e creavano un labirinto di pietra grigiastra, quasi a difendersi dagli estranei ma anche per soffocare chi ci viveva. Al confine di tre regioni, ad Acquaforte tutti si proclamavano santi. Santi di facciata ma poi, sotto sotto, facevano le peggiori porcherie. L'importante era la messa la domenica, credere e far finta di essere credenti e battersi il petto mostrandosi afflitti durante la liturgia contando i minuti e pensando ai propri affari: animali, moto, amanti.
Zoe, il mio nome, era stato imposto da mia madre per spezzare il rosario di Marie, di Lise e derivati dominanti nel paese. Andò via di casa prima che potessi ricordarmi qualcosa di lei. Questo mi diceva mio padre e pensava di aver chiuso la questione. Mia madre, dopo il parto, raccontava poco convinto i primi tempi che lo assediavo, aveva iniziato a dare qualche segno di squilibrio e per questo aveva preferito andare a vivere da alcuni parenti in Belgio dove morì. Si inventò la storia del viaggio all'estero più per lui che per me. Non gli ho mai creduto e un giorno ebbi la prova che l'istinto, come sempre nella vita, non mi aveva tradito. Scoprii frammenti di verità un pomeriggio di settembre. Mio padre era al lavoro a tagliare alberi, e io che giravo annoiata e seminuda nella casa piena di sole, tutta eccitata di poter fare qualcosa senza fare davvero niente, trovai una lettera in un cassetto sotto un lenzuolo, l'unico colorato in mezzo agli altri bianchi. Nascondiglio ridicolo: se l'avesse lasciata su una mensola, non l'avrei notata per anni. Mia madre Anna, senza giri di parole, diceva che non ne poteva più di lui, che quel paesino le sembrava “un cimitero” e lei “una seppellita viva” e che nella vita voleva provare “altro”. Per puro caso aveva già trovato l'altro, un uomo. Glielo scriveva alla fine, come se potesse fare meno male. Due righe erano per me. Chiedeva di perdonarla e di non giudicarla. Per il resto della mia vita la giudicai e non la perdonai. C'era anche una foto di noi tre su una spiaggia di sabbia bianchissima, sullo sfondo mare e cielo non si distinguevano, ma non riconobbi nessuno: erano perfetti sconosciuti. Gli estranei, stretti in un abbraccio sincero, sembravano felici e la donna, alta, mora e posa da regina, era molto bella. Non diede mai più notizie di sé. Non ho mai capito perché mio padre avesse conservato la lettera e non l'avesse gettata nel camino un istante dopo averla letta. Forse per non privarmi di un ricordo, pur doloroso, di mamma. Non dissi mai nulla per non creargli altre ferite ma soprattutto per orgoglio. Odiavo quella donna che mi aveva privato, senza una spiegazione, di una madre cattiva o buona che fosse. Un'infanzia felice, per chi l'ha avuta, è un qualcosa che nessuno in fondo potrà mai toglierti, un prezioso album fotografico da custodire e sfogliare nelle difficoltà e che sarà per sempre tuo anche se la vita non sarà come volevi.
La nostra casa, custodita dal sole dalla mattina alla sera, era stata costruita poco prima dei boschi, dove mio padre lavorava, non molto lontana dal paese. Ci prendevano in giro perché stavamo in periferia ma, in realtà, con pochi passi e a non più di qualche centinaio di metri, arrivavo subito in piazza, cuore e centro pulsante di Acquaforte. Quando fui costretta a fuggire a Milano, pensavo spesso al grande disordinato soggiorno, con al centro un tavolo di legno scadente, i fornelli in un angolo, al piano di sopra i letti in altre due camere e il bagno, luminoso, il mio posto preferito. Da qui si riusciva a vedere tutta la valle e la pineta magica. Mi piaceva stare in bagno: mi sedevo sul water e guardavo dalla grande finestra. Respiravo l'odore dei detersivi e questo mi faceva sentire pulita. Ero figlia di un taglialegna, lui passava la maggior parte del tempo fuori casa a lavorare e al bar. Sono cresciuta con la vecchia Adele, inflessibile nel darmi un'educazione spartana, una severità nata forse per contrapposizione e colmare la mancanza del figlio deportato e morto in Germania. La durezza era ricompensata dalle numerose e strane storie, a volte inquietanti, che raccontava quando uno meno se lo aspettava. Mantenne questa abitudine anche quando crebbi. La litania preferita, mormorata tra sé e sé, era “sante e bigotte sono sempre mignotte”. Non appartenendo io né alla prima categoria, né alla seconda ma soprattutto alla terza, non colsi mai un riferimento personale. Fu lei a insegnarmi, nel bene e nel male, le cose della vita, che quando diventi donna e hai il ciclo non devi toccare le piante o il pane che lievita e il comandamento più importante per una ragazza, soprattutto carina come me: “Le cosce, le cosce tienile belle strette e non avrai problemi”. La prima volta che lo disse ero piccola, giocavo da sola in giardino con steli di fiori e insetti minuscoli e non capii molto. Per diverso tempo, quando andavo al bagno, quelle parole mi crearono un problema pratico ed etico: nel dubbio, stringevo le gambe per non sentirmi in colpa.
Mio padre non era cattivo, ma era di poche parole o forse conosceva poche parole. Gli piacevano i film western, stranamente non seguiva il calcio ma amava bere. Quando beveva non diventava violento, soltanto “un po' più felice e saggio”, diceva. Non ha mai alzato un dito né per me né contro di me. Con l'alcol diventava loquace e le frasi meno mozzicate. La sera ci sedevamo insieme sul divano e guardavamo la tv, una tortura, ma so che gli piaceva e non volevo dire di no. Ricordo lui sprofondato tra i cuscini un po' scuciti, illuminato dalla fredda luce bluastra a scatti come un'insegna di negozio. Si addormentava subito, però non spegnevo il televisore. Mio padre aveva un fratello. Lui e la famiglia vivevano nel paese, la casa era grande, a loro dire elegante e per questo si consideravano civilizzati. Zio Alfredo, davvero un bell'uomo, robusto e occhi chiari che riflettevano il suo animo pulito, commerciava stoffe. Spesso andava via per qualche giorno e quando tornava portava sempre regalini alla moglie Rebecca, antipatica, ai miei due cugini, ancora più antipatici, e anche a me. Un profumo, un libro, una gonna. Adoravo le sue camicie eleganti e il suo modo naturale di indossarle. Era sempre molto affettuoso e, involontariamente, colmava con oggetti il vuoto di cui mio padre non si rendeva conto. “In fondo siamo esseri spirituali, non materiali”, ci ammoniva don Ernesto durante le messe cercando inutilmente di convincerci: a me faceva piacere avere piccole cose tutte mie. Una volta, ero una ragazzina, mi portò una rivista di viaggi. Come una ladra, la nascosi per non farla vedere alla zia e alla cugina Katia. “Ma tanto che cosa te ne fai? Mica vorrai viaggiare?”. Madre e figlia, la seconda aveva preso dalla prima i capelli rossi ma non i lineamenti dolcissimi, avevano un talento speciale nel deprimere le persone. Non erano cattive, forse, ma se potevano fatti sentire una schifezza non ci pensavano due volte. Era l'istinto del cacciatore davanti alla preda. Le loro sembravano parole buttate in apparenza per caso: era tutto calcolato e quelle frasi seguivano una traiettoria precisa per affondare come sassi nell'anima. E stavi male, molto male. Forse volevano far pagare a un innocente una vita frustrante. Alludevano di continuo a miei ipotetici ragazzi quando sapevano bene che ero concentrata solo sulla scuola e in mente non avevo altro. Mio zio diceva di lasciar perdere. “Tanto sono io quello condannato a stare con loro”, scherzava poco convinto. La zia, da giovane, avrebbe voluto continuare a studiare ma per aiutare i genitori smise appena possibile. Dopo il primogenito Aldo, aveva riposto grandi speranze, subito deluse, nell'unica figlia, ma la cugina non aveva né talento né voglia anche se si sforzava di fare il suo meglio. Era sempre cupa e sembrava una copia sgualcita della madre. Le vedevo e all'inizio provavo compassione: ognuna delle due si logorava all'idea di dover vivere una vita diversa dalla propria. Mi sono sempre comportata con rispetto e educazione e, nei primi tempi, anche con amore sincero, fino a quando ho capito che era tutto sprecato. Criticavano ogni mia frase e per questo tendevo a parlare sempre meno con il risultato, paradossale, che ero io quella che passava per antipatica e taciturna. Soffocato da sgarbi e da ruvidezze immeritate, il mio affetto naturale fu costretto a diventare indifferenza altrettanto naturale e il tutto mi sembrò, settimana dopo settimana, mese dopo mese, assolutamente normale. A Natale davano il meglio, sottolineavano l'importanza della festa e ringraziavano Dio perché finalmente le famiglie potevano stare “unite tutti insieme”. Lo dicevano a me e a mio padre, una quasi orfana e uno riconosciuto come una specie di vedovo. “Vero Zoe?”, e così iniziavamo il pranzo. Lo zio le rimproverava con lo sguardo ma il danno era fatto, l'appetito sparito e l'imbarazzo evidente.
Massimo Spinosa
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