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Autore: Laura Gariboldi
Vite nel Buio
Thriller Psicologico
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Vite nel Buio
Un morto e un muro.

La ciminiera col suo fumo nero invadeva il cielo non ancora completamente rischiarato dalle luci del giorno. Il fumo saliva verso l'alto perdendosi nell'infinito, come se non fosse mai esistito.
Sembrava essere più denso in quel gelido mattino d'inverno. A ogni singola parola che veniva pronunciata, inevitabilmente fuoriuscivano le caratteristiche nuvolette d'aria dalla bocca di chi le emanava. La nebbiolina che saliva dai campi rendeva surreale il paesaggio circostante. Le piante all'orizzonte erano coperte dalla densa e penetrante bruma. La luce rosea dell' alba rendeva il paesaggio simile a una bozza di un quadro impressionista.
I rami delle piante, delicati e sottili, si ergevano verso il cielo creando ombre indefinite su uno sfondo ancor meno definito. L'erba era ricoperta da una coltre bianca di brina, che rimarcava la stagione fredda. All'interno delle case si propagava un piacevole profumo di caffè, sprigionato dalle caffettiere. Lentamente, la gente si alzava dal letto dopo il riposo notturno, pronta per affrontare un nuovo giorno. Le stufe delle case, coi loro ceppi scoppiettanti, riscaldavano l'ambiente ancora freddo, emanando un gradevole tepore. I lavoratori si preparavano a uscire di casa schiacciandosi il cappello in testa e avvolgendosi il viso con le sciarpe per ripararsi dal freddo pungente su cui erano visibili i segni lasciati dal guanciale. La mente era ancora intorpidita dal sonno, ma stava scemando dalle spalle ancora irrigidite dal freddo. Quelle poche automobili in circolazione erano coperte da una coltre gelata di brina sui vetri, che i tergicristalli tentavano di rimuovere col loro incessante movimento.

In fondo alla strada si ergeva un muro alto e scuro di mattoni grezzi, mai ristrutturato, che divideva la fabbrica dalla strada, come fosse uno spazio isolato da tutto il contesto intorno. Al di là del muro erano presenti tre edifici: uno destinato al reparto produttivo, uno dedicato agli uffici, un altro alla mensa. C'era inoltre una palazzina utilizzata come magazzino. Oltrepassare quel muro significava fare parte di una comunità produttiva utile alla società. Quella zona, infatti, durante il giorno era frequentata da molte persone che si recavano in fabbrica, pronte a iniziare il loro turno di lavoro. Gli operai raggiungevano il loro luogo di lavoro a testa bassa: il lavoro in fabbrica era massacrante, costretti per molte ore a subire rumori assordanti. Tempi duri: il salario era scarso e a malapena consentiva di mantenere la famiglia. La monotonia e la ripetitività della catena di montaggio costituivano il lavoro duro e pesante degli operai, che provocava alienazione, privandoli della loro personalità. Essi dovevano solo produrre, costruire: erano solo matricole, niente di più. Come automi, nelle loro tute blu ormai sgualcite di fatica, gli operai ormai privi di qualunque emozione, si sistemavano in lunghe file per accedere ai cancelli. I primi sindacati cominciavano a fare udire la loro voce per cercare di negoziare accordi al fine di tutelare i lavoratori. Purtroppo, gli operai avevano dovuto subire abusi e ingiustizie per timore di ritorsioni pena licenziamento. Gran parte degli operai, infatti, pur desiderando cambiare le cose, preferivano evitare di partecipare alle manifestazioni di protesta proprio per timore di perdere il posto di lavoro, rischiando di non poter più mantenere la famiglia. Un senso del dovere, dunque, profondamente radicato in loro, rendeva possibile che quelle lunghe file ordinate di uomini e donne entrassero in quel tetro edificio, consapevoli del fatto che dentro avrebbero trascorso molte ore in qualità di numeri e niente altro.

Quella strada di notte era buia, silenziosa, sinistra. Una strada anonima sempre uguale a sé stessa, fino a quella maledetta mattina.
Il rosso del sangue scintillava sotto la luce di un sole brillante, ma alquanto sinistro. Una folla di operai incuriositi si era assiepata intorno a questa scena, che attirava morbose e incaute attenzioni che le forze dell'ordine cercavano di tenere a freno. La gente continuava ad accalcarsi in cerchio, spintonando per avvicinarsi meglio alla scena e raccontare ciò che vedevano a chi si accostava in quel momento.
C'era un'automobile con la portiera spalancata, parcheggiata a lato del muro, che sembrava staccata dalla realtà in maniera sinistra. Si trattava di un taxi, era solitario come se fosse stato abbandonato da poco. Il motore dell'auto era già freddo, a dimostrazione del fatto che la vettura era li ferma da diverse ore.
Il ritrovamento della stessa era avvenuto in maniera del tutto casuale: alcuni operai avevano visto la vettura parcheggiata in quella via solitamente deserta, per cui si erano avvicinati pensando a un malessere del conducente o a un veicolo abbandonato per un qualsiasi motivo, magari un furto. In realtà la scena non lasciava spazio all'immaginazione: nessuna visione avrebbe potuto essere più cruda, più macabra, più spaventosa. Una moltitudine di fotografi circondavano i limiti imposti polizia, che lavorava instancabilmente. Cercavano lo scatto, l'esclusiva, domandavano ogni particolare per capire, per fare notizia e magari stupire un pubblico che probabilmente non era preparato a ciò. Quelle immagini avrebbero sicuramente infastidito i ben pensanti, i cittadini onesti, come amavano farsi definire. Avrebbero turbato le integerrime madri di famiglia, fornendo loro materiale su cui scambiarsi sterili opinioni con le vicine di casa, durante i noiosi pomeriggi invernali, magari davanti ad una tazza di tè fumante con biscotti preparati in casa e diligentemente adagiati su vassoi impreziositi da tovaglioli ricamati a mano. Le notti d'inverno erano fredde e buie, la nebbia si alzava cupa e densa, come una cortina fumogena dai canali d'acqua che tagliavano come lame taglienti la città silenziosa. Saliva misteriosa dai campi, dall'asfalto e dal selciato delle strade, avvolgendo tutto il paesaggio intorno, divenuto quasi surreale. Affacciandosi alla finestra di casa, si faticava perfino a distinguere il palazzo del vicino o il lato opposto della strada. Così era piacevole rintanarsi in casa a godere del tepore della propria dimora, dimentichi di chi non aveva riparo domestico alcuno o di chi, come un'anima solitaria vagava alla ricerca di qualcosa che non avrebbe trovato in quell'atmosfera fredda. Il taxista trovato morto era intento a lavorare quella notte, col buio e col freddo, pensando quando finalmente sarebbe tornato a casa, abbandonandosi nel tepore del suo giaciglio per godersi un meritato riposo ristoratore.

Lavorare di notte non lo spaventava: la città era silenziosa e tranquilla, aveva tempo sufficiente per pensare e lavorare per mantenere la famiglia. Accompagnava eleganti coppie di signori dopo cene, spettacoli, teatro. Caricava i nottambuli che avevano fatto tardi in qualche locale esclusivo. Con stupore notò che la notte, a dispetto delle apparenze, non è tutta tranquillità e solitudine, ma è un brulicare di anime vaganti in cerca di divertimento. Una folla di figli della notte, avvolti dal buio, supportati dalla mancanza di regole o imposizioni, che proprio grazie alle tenebre riescono a lasciarsi andare liberamente e licenziosamente, ma che alle prime luci dell'alba tornano bruscamente alla realtà. Forse artisti amanti delle ore notturne, oppure semplici sbandati alla ricerca di novità in grado di ravvivare un quotidiano particolarmente monotono. Non restavano mai in un unico posto per tutto il tempo. I figli della notte, infatti, erano dinamici e perennemente in movimento, amavano spostarsi spesso da un luogo all'altro, come se quelle ore di oscurità rappresentassero la loro unica ragione di vita. Poi via, verso la corsa finale, quando la luce dell'alba richiama i nottambuli a tornare nella loro grigia quotidianità, senza timore che il sole possa illuminare la loro natura oscura e dei segreti che essa cela dentro di sé. Il sole prova invidia per ciò che non può assaporare durante la notte e per il fatto che mai conoscerà il buio.

Nonostante la nebbia, quella era davvero una bella notte. Il conducente del taxi era di buon umore: in fondo era divertente osservare tutta quella gente così diversa da lui. Persone con una doppia natura: di giorno vestiti di tutto punto si recavano al lavoro accompagnati dai colleghi; di notte si lasciavano andare all'alcol crollando addormentati sui sedili del taxi. Quella notte, girovagando per la città, pensava che amava davvero la sua famiglia ed era soddisfatto dei mille sacrifici, che stava facendo per crescere ed educare bene i suoi figli. Si avvolse meglio la sciarpa intorno al collo, mentre fuoriusciva il fumo del suo alito dalla bocca. Era piacevole rincasare sentendo il profumo di torta appena sfornata mentre sua moglie si muoveva tutta indaffarata fra i fornelli di quella cucina stile inglese, così innovativa per i tempi. Le soddisfazioni ripagavano ogni stanchezza. Quell'uomo caricò il suo ultimo passeggero, ignaro di quello che avrebbe potuto provare, perdere, vivere in quell'ultimo angosciante momento.

Dalla portiera dell'auto nella via, penzolava la testa del conducente di taxi ormai senza vita, gli occhi erano spalancati verso il vuoto. Dai primi rilievi della polizia, la vittima sarebbe stata colta di sorpresa, uccisa con violenza. Sul cadavere l'assassino avrebbe perpetrato il suo macabro rituale di morte, curando ogni cosa nei minimi particolari. Aveva forse goduto di tanto orrore e si era divertito a torturare quel corpo senza vita. Le ferite mostravano crudeltà.

L'uomo era già morto mentre l'assassino si accaniva sul suo cadavere. Quindi perché aveva continuato a massacrare un morto? Le mani erano incrociate sul petto, trafitte da due spilloni, che le tenevano unite come se l'uomo fosse stato seppellito in quella macchina. Vi erano macchie rosse sparse dappertutto, come un pennello sbattuto contro una tela, per essere poi incorniciate da quelle dita oramai morte, gonfie e molli. Tutto era morte. Nulla era stato rubato. I soldi, guadagno della notte di lavoro, erano accartocciati e strappati sul sedile dell'auto. Forse un raptus di follia, sicuramente una crudele voglia di morte.

Apparve fin da subito complesso il compito di rilevare gli indizi da parte dei poliziotti. L'assassino era sicuramente posizionato sul sedile posteriore e l'aveva ucciso recidendogli la giugulare. L'assassino evidentemente doveva sapere che recidere un vaso sanguigno così importante avrebbe portato a una morte molto veloce per dissanguamento, senza che la vittima avesse potuto reagire in alcun modo. Non un'impronta, non un segno che potesse aiutare a capire chi avesse tolto il respiro a quegli occhi spalancati nel vuoto. Tutto era avvenuto in maniera perfetta, come se la falce della morte si fosse abbattuta violentemente su quell'uomo, escludendo un qualsiasi intervento umano. Le pupille del taxista erano dilatate, come perse in un punto non ben definito verso l'orizzonte. Non sembrava ci fosse stata colluttazione. L'assassino aveva costruito nei particolari l'uccisione e aveva avuto tutto il tempo per progettarla. Probabilmente l'aveva immaginata più volte oppure era l'esito delirante di una mente malata. La polizia ipotizzò che la vittima fosse stata colta di sorpresa. In quei pochi istanti di vita che gli restavano, il cuore avrebbe pompato i suoi ultimi battiti forti e rumorosi in maniera frenetica, portando poi a una diminuzione della pressione sanguigna. Pochi secondi dopo, avrebbe rallentato fino a spegnersi completamente. L'assassino, rimasto ad ammirare la sua opera fino allora, una volta sopraggiunta la morte dell'uomo, avrebbe incominciato a colpire violentemente il cranio . L'unica consolazione era che la vittima non aveva sofferto per le torture e che la sua morte era stata rapida, seppur non indolore. Il lavoro per ricostruire il delitto non sarebbe stato facile e l'assassino, che aveva prestato attenzione a non lasciare traccia alcuna di sé era ora sconosciuto o meglio, impresso solo negli occhi spalancati di quell'uomo senza vita. Nessun nome, nessuna traccia, se non la sua opera di morte.

Laura Gariboldi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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