Istria 1914.
Gravava sulla campagna un'afa inconsueta per Montona e, impigriti, quel mattino Bruno e Rainer anziché uscire per una passeggiata o per una cavalcata lungo la Valle del Quieto, andarono in giardino dove Beatrice e Maria se ne stavano sotto la pergola a leggere un libro. Fra i giovani si avviò una pigra conversazione attorno al ruvido tavolo di pietra su cui si posavano a tratti, mossi da un alito di vento caldo, i pallidi fiori del glicine. Maria aveva servito della limonata preparata con l'acqua fresca del pozzo e ora voleva sapere qualcosa sugli svaghi della capitale. Stimolati dal suo genuino interesse, i due amici le raccontarono delle passeggiate a cavallo al Prater, delle dolci serate passate a Grinzing ad assaggiare il vino novello e degli spettacoli teatrali cui avevano assistito. Beatrice se ne stava in silenzio. Le premure di Maria nei confronti dell'austriaco non le facevano piacere, tanto meno poi le faceva piacere che lui potesse sedere così rilassato sotto la pergola di una casa istriana, a conversare garbatamente e a lanciare ogni tanto un'occhiata di tranquillo interesse a lei che non era in grado di ricambiarlo con pari serenità. Sentiva montare la sua irritazione, anche per l'ingenuo entusiasmo della cugina e alla fine non poté trattenersi. - Ma in tutto questo turbinio di divertimenti, vi fermate mai un attimo a pensare? - . Rainer la guardò in modo penetrante: - Pensare a cosa, mademoiselle? - - Non saprei... alla vita, al significato della vita. - - Uhm... È forse un'accusa di superficialità? - Beatrice esitava a rispondere. Intervenne Bruno, conciliante: - Sono sicuro che... - - Ti prego - lo interruppe Rainer - sono perfettamente in grado di soddisfare la curiosità di tua cugina... - Dopo una breve pausa, riprese: - Pensare alla vita, lei dice? Ebbene, se c'è una cosa che ci sforziamo di non fare è proprio questo. - Era una battuta probabilmente e Beatrice avrebbe dovuto sorridere e accettarla come tale. Ma c'era qualcosa di strano nell'espressione di Rainer che glielo impedì. In effetti lui non aveva ancora finito. - Avevo un amico... si chiamava Franz. Era un ufficiale della Guardia. Brillante, di ottima famiglia, un privilegiato insomma, ma aveva il vizio di pensare. E alla fine si è sparato un colpo. - Ci fu un momento di costernazione generale e un brivido sembrò passare per il gruppo, nonostante la calura. Poi Rainer riprese: - È soddisfatta, ora, mademoiselle? - Disorientata, Beatrice non riuscì a dissimulare il suo turbamento. Ma fu il modo e l'intensità con cui lei e Rainer rimasero a guardarsi a far scattare un campanello di allarme in Bruno, che si affrettò a commentare in tono leggero: - Non è il caso, mi pare, di fare dei discorsi così impegnativi. E con questo caldo poi! - Intanto rifletteva febbrilmente. Non era certo la prima volta che sua cugina si mostrava scostante con Rainer e non era questo a preoccuparlo. Lo sconcertava piuttosto la reazione dell'amico, del tutto sproporzionata alla provocazione di Beatrice. Fra loro stava succedendo qualcosa. E non era un bene. Forse non aveva avuto una buona idea, dopo tutto, ad invitare Rainer a Montona. Ma come avrebbe potuto immaginarlo? Beatrice, quando l'aveva vista l'ultima volta una anno prima, era poco più che una adolescente. No, era ridicolo anche solo pensare che Rainer, che aveva venticinque anni ed era un uomo di mondo, potesse provare per lei dell'interesse. Eppure... quello sguardo profondo di poco prima non era diretto a una qualsiasi petulante ragazzina.
- Come ti poni tu nei confronti dell'Austria? - La domanda di Rainer non giunse del tutto inaspettata a Bruno che la sentiva aleggiare da qualche tempo. C'era di sicuro lo zampino di Beatrice. Stavano facendo il giro delle mura, all'imbrunire, nella passeggiata cara ai montonesi che verso sera si riversavano sugli spalti della cittadella per prendere il fresco e scambiare qualche chiacchiera. Evitando per un pelo un gatto che rapido sfrecciò via con un miagolio irritato di protesta, Bruno si fermò appoggiandosi al muretto del camminamento. - Non è facile risponderti, comunque ci proverò - disse con un sospiro. Comprendeva come per il suo ospite fosse ormai essenziale conoscere la sua opinione su quell'argomento spinoso che a Vienna non avevano mai avuto occasione di affrontare. - Devi sapere che chiunque sia stato educato come me al Ginnasio di Trieste, non può nutrire che sentimenti di italianità. Immaginati un edificio scolastico dove il busto di Dante campeggia in un atrio ornato da tre ordini di colonne... e insegnanti che ti inculcano attaccamento alla cultura classica e alla storia patria. Non mi fraintendere però. Non facevano politica, ma era chiaro che, quando in ottobre, per l'onomastico dell'Imperatore, non riuscivano a trovare degli studenti in grado di cantare l'Inno imperiale – eravamo tutti afoni o stonati – non ne facevano una malattia. - Rainer ebbe un mezzo sorriso ma si astenne dal fare commenti. - Al momento dell'iscrizione all'università - riprese Bruno - dovevo decidere fra Italia e Austria. - - Hai scelto Vienna. - - No. Non subito. - - Ma io credevo... - - No. Non è stato così. Mi sono iscritto all'università di Firenze, dove c'erano già dei triestini. Saprai già, per inciso, che il governo austriaco, da quando l'Austria ha perduto il Veneto, ci vieta di frequentare lo Studio di Padova, come facevamo per tradizione secolare... - - In che senso, vi vieta? - - Nel senso che la laurea conseguita a Padova non ha valore legale entro i confini dell'Impero. - Rainer scosse la testa perplesso. “Non lo sapevo.” - Beh, comunque, a Firenze per un anno mi sono beato dell'ambiente toscano, delle sue bellezze e delle sue opere d'arte... - - Ti posso capire, anch'io amo molto l'arte italiana. - - Già. Ma ero molto attratto anche dagli intellettuali fiorentini, dal loro rigore logico. Ricordo le ore passate al caffè in interminabili discussioni. Riconoscevo la correttezza e la profondità delle loro posizioni critiche, ma poco a poco avvertivo un senso di crescente insoddisfazione. - - Insoddisfazione? E perché mai? - volle sapere Rainer interessato. - Mi sembrava che ci fosse... come dire, dell'aridità nei loro ragionamenti. È difficile da spiegare. Nel nostro gruppo c'erano dei giovani giuliani che si cimentavano con la scrittura e mi metteva a disagio la fredda, implacabile opera di demolizione dei toscani nei confronti del loro stile romantico e l'ironia con cui li bollavano come epigoni di un'epoca passata - . Dopo una breve pausa riprese: - Osservavo come Scipio Slataper, un giovane scrittore triestino già abbastanza affermato, si sforzasse di imbrigliare la sua prorompente sensibilità nelle fredde maglie della logica. Il sentimento deve farsi ragione per valere qualcosa, diceva influenzato dalle loro idee, mentre io pensavo che l'orizzonte artistico potesse essere più ampio, più ricco di sensazioni anche irrazionali... - - Insomma ti sentivi un po' diverso. - - Sì. Il mondo dell'inconscio, ad esempio, non credo che li interessasse. Non conoscendo il tedesco, non avevano letto Ibsen, né Freud, per le cui teorie invece a Trieste si stravede. L'ambiente toscano insomma, al di là del livello culturale molto elevato, mi è sembrato, come dire, un po' provinciale. E poi... - aggiunse - a Firenze si faceva poca musica, nelle case intendo. Suonare non è considerata un'esigenza spirituale così importante come da noi in Istria e nel mondo austriaco in generale. Ma... non voglio farti il romanzo della mia vita! Sarai già stanco di tutte queste mie elucubrazioni. - - Tutt'altro. Continua. Mi interessa molto - e Rainer gli porse il suo portasigarette d'argento ornato di stemma, offrendogli una sigaretta che Bruno accettò con piacere. Dopo averla accesa, continuò: - Beh, come sai, sono approdato all'università di Vienna. - - E a Vienna, non ti sei sentito diverso anche lì? - - Certamente, ma non più di ogni altro studente proveniente, che so, dall'Ungheria o dalla Boemia. Vienna poi non vuole farti pesare la tua origine non austriaca, forse perché vive, esiste qual è, grazie anche alla mescolanza etnica e culturale dei suoi abitanti. - - Hai ragione. Anch'io la penso così. - - Per tornare alla tua domanda iniziale, penso di poterti rispondere così: mi sento un italiano, ma un italiano d'Austria. All'Italia mi legano le radici e la lingua, all'Austria... gusti e sensibilità, credo, tipici dell'Europa centrale. - I due giovani rimasero in un silenzio assorto, avvertendo il rabbrividire delle cose intorno a loro per il sopravvenire della notte. Ormai il buio era calato nella valle e la quiete che li avvolgeva sembrava in sintonia con le loro riflessioni confidenziali. - Ti ringrazio per esserti espresso con tanta sincerità - disse alla fine Rainer. - Te lo dovevo... lo dovevo alla nostra amicizia - fu il commento di Bruno, che si sentiva sollevato per essere riuscito a chiarire (anche a se stesso) quali fossero i suoi sentimenti. Senza ambiguità o almeno così sperava.
Bruno doveva accompagnare suo padre a conferire con il capovilla di S. Silvestro per affari relativi alla loro proprietà di campagna e Rainer ne approfittò per dedicarsi alla lettura in camera sua. All'ombra dei platani, nel retro della casa, Beatrice e Maria ricamavano. La quiete del pomeriggio non era rotta da alcun rumore, solo, lontano, risuonava nei campi il frinire delle cicale. Quella calma occupazione non era però molto adatta a Beatrice, poco abile nel piccolo punto, che ben presto sbottò: - Ne ho abbastanza di questo ricamo. Mi è venuto malissimo. Non so come fai tu a essere così precisa. - - Non sono impaziente come te e poi ricamare mi piace molto - le rispose la cugina. Dalla sua finestra al secondo piano, Rainer osservava le ragazze chine sui loro tomboli. Fumava e rifletteva. Si trovava bene a Montona. All'arrivo si era chiesto se fosse stato un po' avventato ad accettare l'invito di Bruno anziché seguire i suoi soliti amici a Bad Ischl, dove si trasferiva ogni estate la Corte al seguito dell'Imperatore, ma ora sentiva che gli piaceva quella terra e la sua gente. Gente che viveva lontana dai lussi della grande città, ma che nella garbatezza dei modi denotava di aver assimilato con naturalezza l'antica civiltà veneziana. Gli piaceva il cantilenante dialetto del luogo, così simile al ciacolar che si coglieva per le calli di Venezia e l'avevano conquistato il calore e il senso di ospitalità dei Vergerio. Non poteva fare a meno di pensare con rammarico a quanto fosse diversa l'atmosfera di casa sua. Nell'elegante palazzo di Vienna che si trovava poco lontano dalla Hofburg, la vita era regolata dall'etichetta – su questo la baronessa sua madre non transigeva – e i rapporti familiari dei von Eschembach erano contegnosi e freddi. Si lasciava andare a quelle malinconiche considerazioni mentre il suo sguardo era catturato dal quadretto grazioso delle due ricamatrici, l'una bionda, l'altra bruna, a cui il colore chiaro delle vesti conferiva il sapore della giovinezza. Maria così quieta e gentile, Beatrice invece...! Beatriz, come la chiamava in cuor suo, era una ragazza singolare. Capace di irritarlo come nessuna, ma anche di incuriosirlo. Si era chiesto più di una volta, vedendola silenziosa e assorta, quali pensieri, quali sentimenti celasse il suo sguardo profondo. Senza dubbio possedeva un certo non so che... Ed era bella, di una bellezza poco appariscente, che emanava piuttosto dall'intimo e a cui conferivano un tocco di mistero gli occhi dal seducente taglio a mandorla, che avevano il colore fondo e cupo del velluto. Ma com'era presuntuosa! E ridicola anche, se si considerava il suo sciocco atteggiamento irredentista. Inoltre il giorno prima, si era addirittura permessa di insinuare che lui non pensava, con ciò mettendo a dura prova il suo fair play. Decisamente la piccola italiana lo provocava e prima o poi avrebbe dovuto rispondere del suo antagonismo. Aspirò nervosamente il fumo e, come vide Beatrice alzarsi e allontanarsi da sua cugina con un libro in mano, spense la sigaretta nel posacenere e, senza un proposito ben definito, uscì dalla stanza. Quando fu in giardino, si avviò nella direzione in cui aveva visto sparire poco prima Beatrice e si ritrovò in un appezzamento di terreno digradante verso l'aperta campagna, che era adibito a frutteto. Appena vi si fu inoltrato, si sentì investire dal calore acre della terra e dall'odore penetrante della frutta che maturava sugli alberi. Ne aspirò l'aroma con un leggero senso di stordimento. L'insistente, monotono frinire delle cicale si era fatto più forte. Rainer avvertiva la natura pulsare intorno a lui di vita nascosta, in mezzo agli alberi, fra le zolle screpolate del terreno. Di Beatrice non vi era traccia. Poi però, guardando più attentamente, riuscì a scorgere un lembo di veste azzurrina che faceva capolino dalle fronde contorte di un vecchio fico. Sorrise divertito. Messa sull'avviso dal rumore dei passi, ben presto anche Beatrice si accorse di lui e quasi gemette fra sé nel riconoscerlo. Non era molto decoroso, lo sapeva, arrampicarsi sugli alberi (zia Angelica glielo aveva ripetuto più di una volta) e l'ultimo dei suoi desideri era proprio quello di farvisi sorprendere dal viennese. Sicuramente le signorine che passeggiavano al Prater non avevano simili abitudini! Sperò di passare inosservata rimanendo immobile, nascosta fra i rami, ma la sua illusione fu di breve durata. - Interessante! Non sapevo che a Montona le ragazze crescessero sugli alberi. - Contrariata per essere stata scoperta, Beatrice ritenne più opportuno scendere a terra. Ma scendere giù, con le gonne lunghe e il giovane che la osservava canzonatorio dal basso, non era una cosa facile. Il libro che aveva in mano le scivolò a terra e il balzo maldestro che fece, innervosita, la portò dritta fra le braccia di Rainer che la sorresse stringendola a sé. Aveva smesso di sorridere. Beatrice, sul momento, fu incapace di reagire. Era la prima volta che si trovava stretta a un uomo e ne percepì con smarrimento la forza contenuta ma soverchiante. Alzando lo sguardo al viso di Rainer, vide affascinata l'azzurro dei suoi occhi incupirsi sotto l'onda di un visibile turbamento. Percepiva il suo odore, di tabacco e di acqua di colonia e ne era come stordita. Ma quando le labbra del giovane lentamente si avvicinarono alla sue, trovò la forza di negargli quel bacio. - No - sussurrò, chinando la testa sul petto di lui. Con acuto intuito, aveva capito che una brusca ripulsa avrebbe potuto provocare una reazione violenta nell'austriaco che invece fu vinto da quel gesto apparente di resa e la lasciò andare. Beatrice si trovò confusa e malferma sulle gambe, come quando ci si alza dal letto per la prima volta dopo una lunga malattia. Le guance le bruciavano al pensiero dell'abbandono che aveva provato fra le braccia di Rainer e l'imbarazzo era acuito dalla sensazione di privazione che sentiva ora per quel brusco distacco. Ma lui non la guardava. Dopo aver raccolto da terra il libro caduto, ne osservò con esagerata lentezza la copertina, poi glielo restituì. - Guido Gozzano. E chi è? - chiese con una punta di aggressività. Era teso. C'era voluta tutta la forza del suo autocontrollo per frenarsi poco prima, quando aveva tenuto fra le braccia Beatrice, indovinando le sue morbide forme sotto la stoffa leggera dell'abito, e ora il desiderio insoddisfatto gli procurava un doloroso senso di frustrazione. - Gozzano è un celebre poeta - rispose lei con un filo di voce. - Mai sentito nominare. È italiano, immagino. - - Naturalmente.. - Naturalmente. E perché naturalmente? A voi sembra naturale leggere, parlare solo italiano, mentre fate parte di un Impero di lingua e cultura tedesca - via via che parlava andava infervorandosi. - Vi sembra naturale conoscere un poetucolo qualunque, solo perché è italiano e ignorare magari i grandi come Goethe, Schiller... - Beatrice tentò di parlare ma lui la fermò con un gesto. - Non ho finito! Io mi chiedo, con che coraggio osate dire che l'Austria vi opprime? E tu poi, tu che sei suddita dell'Impero, non conosci una parola di tedesco e scommetto anche che te ne vanti. Mi sai spiegare allora dove sta tutta questa mancanza di libertà? - - Non ci sentiamo liberi, perché nelle nostre terre ci sono i vostri gendarmi, perché non aderite alle nostre più elementari richieste come quella di una Università italiana a Trieste, perché i nostri patrioti sono perseguitati, incarcerati, uccisi... - - Un momento! Sono condannati a morte solo gli assassini, quelli che ammazzano nei vili attentati. Non è piacevole, credimi, sapere che i tuoi nemici non ti affronteranno lealmente in un campo di battaglia o in un duello, ma sono pronti ad agire nell'ombra, con un pugnale... - - Se è questo che teme, tenente von Eschembach, posso assicurarle che qui a Montona, nessuno ha intenzione di usare un pugnale contro di lei. - - Davvero, piccola irredentista? - Il viso di Beatrice scolorì di colpo: - Perché mi ha chiamato così? - - Perché è la verità. Non vorrai negarlo. - Lei scosse la testa. Era confusa. Non riusciva a capire a che cosa mirasse Rainer con quelle parole. Alla fine gli chiese, piano: - Ha intenzione di denunciarmi? - Stupore, amarezza, furore si dipinsero in rapida successione sul viso dell'austriaco che impallidì e rimase senza parole. Poi, con voce bassa, quasi parlando fra sé: - Forse - disse - lo stai usando proprio tu quel pugnale - Beatrice provò una fitta al cuore, ma non fu capace di replicare. Senza enfasi, Rainer riprese: - La storia ci ha dato un Impero quasi millenario e io lo servirò e lo difenderò con tutte le mie forze. Noi austriaci non siamo amati, lo so, ma non facciamo la guerra alle donne e ai bambini, anche se ti fa piacere crederlo... - - Ma io... io non volevo dire questo - protestò debolmente Beatrice. Lui la guardò con freddezza. Era ancora alterato, ma in grado di notare il suo pallore e gli occhi scuri ingranditi dall'emozione. - Forse... - ammise dopo una breve pausa. - Accetto comunque le sue scuse, mademoiselle! - Aveva riprese a darle del lei, come per cancellare tutto quello che era successo fra di loro. Rimasero a fronteggiarsi, gli occhi negli occhi, senza parlare poi Rainer dopo un inchino impeccabile le voltò le spalle, lasciandola ammutolita a chiedersi: “Le mie scuse? Quali scuse?”
Cara Tilde... Più tardi, nella sua camera, Beatrice era alle prese con una lettera che non riusciva a scrivere. Guardando la carta color avorio davanti a sé, non si capacitava di tanta mancanza di ispirazione. Di solito all'amica capodistriana, depositaria da sempre di tutti i suoi segreti scriveva di getto. Poi comprese. Era a disagio perché non sapeva come parlarle del tenente Rainer. Tempo prima non sarebbe stato così. Anzi! Con quanto divertimento le avrebbe raccontato l'episodio dell'acquisto della stoffa per la bandiera italiana fatto sotto scorta austriaca... Ma ora qualcosa era cambiato. Fra lei e Rainer. E quel duello in punta di fioretto che aveva ingaggiato con lui rischiava di coinvolgerla in modo profondo e inaspettato. E la colpa era in parte del viennese che non reagiva nella maniera giusta. Non sempre per lo meno. A qualche sua stoccata sembrava ammettere “Touché!” e questo la faceva stare male.
Liliana Martissa Mengoli
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