Questo libro si propone di indagare l'uomo non tanto per quello che è, ma per quello che è divenuto. Non è un libro per letterati, per sociologi, filosofi e nessuno che voglia una risposta precisa e ripetibile.
La maggior parte delle famiglie nasce per ragioni tutt'altro che logiche. Raramente, alla base della decisione di fondare un nuovo nucleo familiare, ci sono ragionamenti profondi e una valutazione attenta dei pro e dei contro. Sembra che il matrimonio debba essere lo sbocco fatale di ogni rapporto, indipendentemente dal fatto che ci si arrivi o che la relazione si interrompa prima: la gente si sposa perché si è sempre fatto così. Spesso, l'imprevisto di una gravidanza coglie tanto di sorpresa che si finisce in una famiglia ben prima di rendersi conto in maniera razionale di quello che sta succedendo. In ogni caso, le famiglie che nascono sulla scia degli eventi o sugli strascichi dell'amore sono sempre condizionate dall'imprevedibilità dei primi e dalla naturale scadenza del secondo. Relazioni fondate sul sentimento sopravvivono difficilmente all'intrusione di un terzo elemento, che sia questo un amante o un figlio. Le relazioni nate sulla ragione e soprattutto sull'interesse economico, pur essendo meno poetiche, hanno vita più lunga e si trascinano in maniera molto più serena. La differenza di estrazione sociale che caratterizza questi due tipi di rapporti è statisticamente rilevante. Nella famiglia si fa realmente la conoscenza dell'altro. Per quanto tempo si possa passare insieme durante un fidanzamento, la condivisione dello stesso spazio vitale porta la relazione amorosa dalla dimensione del sogno, della speranza a quella della realtà. Tutto il tempo che va dalla conoscenza alla frequentazione di una persona è all'insegna della dissimulazione, della recitazione. Per il breve tempo di un appuntamento, al massimo per quello più lungo di una vacanza, è possibile mantenere la versione migliore di sé stessi e nascondere i propri difetti sotto al tappeto. Chiaramente, una fatica fisica ed emotiva del genere non è sostenibile tutti i giorni per anni e anni, soprattutto nella propria abitazione, che dovrebbe essere il luogo del riposo, il rifugio dove poter staccare la spina. Aprire le porte della propria intimità a un'altra persona significa fare i conti con la sua. Le nevrosi devono trovare la maniera di coesistere con quelle del coniuge, malattie e sveglie all'alba danno un duro colpo all'immagine perfetta di sé che si mostra alla gente, le stanze rimandano e conservano gli odori estranei di chi si era abituati a conoscere soltanto con la maschera da persona civile. Il mistero, l'illusione di attribuire al proprio partner qualità che non gli appartengono, la vanità della conquista e della scoperta devono cedere il passo alla banalità, alla terrena presa di coscienza della comunissima umanità dell'altro. L'affetto, nei casi in cui riesca a nascere, è la sola cosa che possa tenere insieme due sconosciuti che abbiano cominciato a conoscersi realmente soltanto dopo essersi chiusi una porta alle spalle. Solitamente l'affetto cresce man mano che gli anni passano e le possibilità di sostituire il proprio partner si abbassano in maniera drastica e irreversibile. Sarebbe comunque da chiedersi che valore possa mai avere una ritrovata attrazione per il proprio marito, o la propria moglie, soltanto quando il sentore di non poter più ambire a qualcosa di meglio diventa un'amara certezza. La sensazione di fallimento, la noia della quotidianità, l'età che avanza e le privazioni della vita lavorativa spingono i genitori a riversare nei figli le proprie aspirazioni mancate, considerando la loro vita come la naturale prosecuzione della propria. Questa pressione dei genitori sui figli, essendo comunissima e – dunque – socialmente accettata, viene esercitata alla luce del sole, non si sente la necessità di dissimularla. Soprattutto nelle famiglie amorevoli diventa un vincolo morale al quale il figlio difficilmente riuscirà a sottrarsi (è sempre più facile decidere di ribellarsi quando il padrone è un cattivo padrone). Tanto è subdola e invasiva questa influenza, che il desiderio di un figlio di compiacere i genitori può sopravvivere anche alla loro scomparsa, facendogli camminare su una strada solo perché già camminata da qualcun altro.
Ci vuol coraggio a considerare belli i lavoratori. Infatti, anche le sinistre – che dovrebbero nutrire per i lavoratori una certa stima, considerazione – li guardano con un sincero disgusto, malamente nascosto dietro la retorica necessaria a tenerli sotto la loro influenza. D'altronde, il mestiere della politica si esercita nella pulizia, nell'ordine e nel distacco. Le rare volte (ad esempio sotto le elezioni) che un politico è costretto a stringere mani sudate sopporta questa tortura solo grazie al pensiero del ritorno che ne avrà. Il lavoratore, inteso qui come persona che svolge un lavoro di fatica e poco retribuito, rappresenta la parte necessaria della società, ma della quale ci si vergogna. Non si può fornire al lavoratore una cultura discretamente ampia, né si può formarlo troppo per una determinata professione: la profondità di pensiero e la fiducia nella propria utilità lo spingerebbero a richiedere una condizione di vita migliore, che non può essere disponibile per tutti. Il lavoratore va lasciato nella mediocrità, e pazienza se questo significa sopportarne le bassezze, gli schiamazzi e le violenze. In ogni caso, l'operaio, per chi fa parte di un gradino più alto della società, è solo fastidioso, ma non pericoloso. Il lavoratore viene curato male e sa benissimo che, se fosse stato più ricco, sarebbe stato curato meglio – ma non per questo si ribella violentemente. Il lavoratore sa che suo figlio viene educato male in scuole che cadono a pezzi un pezzo per volta, anche in testa a suo figlio – ma non per questo si ribella violentemente. Il lavoratore si lamenta di classi politiche da lui votate che tradiscono sistematicamente le promesse che gli fanno, legislatura dopo legislatura – ma non per questo si ribella violentemente. Il padrone può girare liberamente per le strade frequentate dai suoi sottoposti anche quando è un cattivo padrone, non ha da temere per la sua incolumità. La scorta di cui godono i politici è solamente un posto di lavoro, si contano sulle dita delle mani le occasioni in cui si sia rivelata davvero necessaria. Al lavoratore si può fare qualsiasi cosa, anche la più spregevole, ma si può star sicuri che mai verrà a chiederne conto. L'unico obiettivo della rabbia e della frustrazione del lavoratore sono i lavoratori stessi. La violenza e l'intolleranza con le quali si affrontano e, talvolta, si eliminano fra di loro nelle situazioni più banali – come se fossero i propri simili a essere responsabili della schiavitù alla quale si è condannati – sono uno spettacolo così grottesco da rendere molto difficile provare pietà per la sorte degli ultimi della società. La verità è che il lavoratore, pur lamentandosi (per invidia) del potere di cui godono i ceti benestanti, ne condivide in pieno la morale e, se gli fosse permesso, approfitterebbe dei suoi simili così come altri si approfittano di lui. Il grande merito della democrazia è stato proprio quello di dimostrare una volta per tutte l'uguaglianza degli esseri umani: se diamo all'uomo del popolo la possibilità di abbandonare la sua condizione di partenza e di conquistare un potere (anche limitato), lui userà quel potere per sfruttare chi è più debole, esattamente come hanno sempre fatto re, capi di Stato, nobili e borghesi prima di lui. In una società dove le porte della politica e del guadagno sono, se non aperte a tutti, abbastanza larghe da far sperare un certo numero di persone, l'uomo del popolo si rende disposto a passare sopra a tutto e sotto a chiunque pur di affrancarsi dal popolo. Il lavoratore che diventa un padrone lo si riconosce subito: è quello che più di tutti e con maggior cattiveria approfitta della sua posizione. Si trova sempre più magnanimità in chi possiede un grande potere, che non fra quelli che ne hanno uno limitato e ne avvertono la precarietà. La classe lavoratrice è stata unita soltanto quando si era consapevoli di non poterne uscire.
Davide Marini
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