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Autore: Daniela Vasarri
L'uomo che sedeva sulla panchina
Sentimentale
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L'uomo che sedeva sulla panchina
Camminavo con la solita andatura spedita per la quale tutti ormai mi riconoscevano, indossando sempre tacchi alti, consapevole tuttavia che, presto o tardi, avrei dovuto convertirmi a calzature meno attraenti. Non cambiavo mai il mio percorso verso casa, salvo che vi fosse qualche buona ragione per la quale valesse davvero la pena di attraversare più volte quella lunga strada, zigzagando come uno sciatore in una discesa a slalom. Né avevo mai contato quanti passi vi fossero da quell'angolo, dietro il quale iniziava il quartiere, fino al mio palazzo, perché nel mezzo del conteggio accadeva sempre qualcosa che interveniva a distrarmi, costringendomi a interrompere quell'inutile sequenza numerica; conoscevo però con precisione il tempo necessario per raggiungere l'ingresso: otto minuti, che aumentavano al massimo a dieci quando le gambe lamentavano stanchezza.
Vivevo in quel rione, nel quale ero cresciuta, come se volessi ormai prenderne le distanze perché mi pareva, malgrado non ne avessi esperienza diretta, che trasmettesse la stessa silenziosa monotonia che s'instaura in una coppia dopo vent'anni di pacifica convivenza, se nulla d'insolito accade a scuoterne la quotidianità.
Conoscevo a memoria il numero dei tombini inseriti nell'asfalto con il preciso scopo di far defluire l'acqua piovana e che diventavano, soffocando, rifugio di foglie e carte gettate nelle loro fessure anziché nei cilindri verdi sparsi qua e là. Avrei potuto descrivere, con approssimazione molto vicina al cento per cento, come fossero gli ingressi dei palazzi che, uno a fianco dell'altro, parevano reggersi a vicenda.
I numeri civici dispari si susseguivano a sinistra, mentre i pari a destra, non esistevano numeri bis e nemmeno lettere per gli interni; era un unico compatto esercito di mattoni rossi, dall'altezza di due metri sino ai piani alti, appoggiati su pietre grigiastre che gli facevano da base. Parevano la perfetta ricostruzione a grandezza naturale delle simulazioni di plastici che costruiscono i bambini con i mattoncini di diverse misure e colore.
A un occhio attento, la sfumatura di rosso e grigio rivelava l'anzianità dei palazzi o delle loro ristrutturazioni, ma agli estranei quei blocchi apparivano enormi e identici contenitori di famiglie, storie, situazioni.
Mi trovavo spesso a rimuginare sull'inutilità di continuare a vivere lì, e sognavo un giorno non lontano di chiamare un taxi e caricarlo di bagagli, mentre tutti quelli che mi conoscevano da quando ero ragazzina, si sarebbero avvicinati, nel vedermi salire, augurandomi solo buona fortuna. Nemmeno uno fra loro, ci avrei scommesso, mi avrebbe invidiata né fantasticato sulla mia destinazione. Perché lo straordinario di quel quartiere era che la maggior parte dei suoi abitanti non aveva mai preso in considerazione di abbandonarlo. Anzi la sua popolazione aumentava, per attrazione, di persone che sembravano cloni di altre.
Faceva ancora caldo ma non abbastanza, per fortuna, da farmi sprofondare i tacchi nell'asfalto. Più di una volta, purtroppo ero già rimasta intrappolata nel catrame lasciando l'impronta del piccolo gommino che ricopriva il tacco, costringendomi, le volte successive, a camminare come un mimo che imita un ladro d'appartamento. Imbarazzante davvero.
- Salve come va? Come sono andate le vacanze? Quando sei tornata? -
La solita signora Ruffini! Emisi uno sbuffo impercettibile soffocandolo in gola, ma le risposi con un saluto gentile e frettoloso, con il preciso intento di non dover attraversare la strada per intrattenermi troppo con lei.
Ilaria Ruffini però, ancora agile quanto la propria lingua, a gran voce, piantata sul marciapiede opposto come il palo della luce, sembrava davvero intenzionata a bloccarmi.
- Dove sei stata? -
Non c'era scampo, troppe domande richiedevano almeno una risposta educata che le esaudisse tutte e in fretta.
- Nella solita casetta in montagna, un paio di settimane - replicai in maniera vaga e distratta.
- Le basterà – mi augurai, guardandomi bene dall'andarle incontro.
Con la coda dell'occhio riconobbi un paio di attempate donne che con le orecchie ben tese, aspettavano anch'esse di farsi i fatti miei. D'altronde la missione della loro vita era percorrere in lungo e in largo il quartiere tenendo un libriccino di preghiere in mano (non era chiaro a chi fossero destinate né per chi venissero recitate) e atteggiarsi ad anime buone. La più bassa di statura, trasferitasi da qualche anno dopo un terribile terremoto che le aveva abbattuto il cascinale, era quella dallo sguardo più penetrante. Osservandola dall'alto verso il basso, dava l'impressione che possedesse un raggio puntatore, come quello che i bambini utilizzano nelle armi giocattolo. Quando la incrociavo infatti mi sentivo trafitta. La compagna invece, più alta e rotonda, aveva il sorriso che pareva disegnato, perché gli angoli della bocca non si muovevano mai, proprio come a quelle pigotte vendute alle fiere di beneficienza. Avevo notato che, con quell'atteggiamento, appariva agli altri rassicurante e benevola e quindi, non destando alcuna diffidenza nel vicinato, riusciva ad ascoltare con fare ingenuo ogni discorso altrui. Le due, che parevano aliene programmate, rallentarono strategicamente la loro l'andatura, con l'intento di cogliere altri brani di conversazione tra me e l'insistente signora Ruffini.
- Come mai solo due settimane? Non ci stavi almeno un mesetto gli anni passati? -
Ilaria Ruffini (mi ero sempre rivolta a lei usando solo il cognome, considerandolo uno stratagemma per non concederle confidenza) misurava la ricchezza delle persone dal numero dei giorni trascorsi in vacanza, oltre che dalle auto parcheggiate in strada. Eppure lei non ne possedeva una e non lasciava mai la città, sbandierando le sue umili condizioni economiche fatte di stenti e sacrifici. Ma, si sussurrava, che qualcuno, per errore, avesse aperto una lettera speditale dalla banca e che avesse verificato che “la poveretta” possedesse denaro sufficiente ad acquistare almeno tre lussuosi appartamenti.
Chissà – pensai mentre notavo che indossava il solito abito fiorato acquistato al mercato qualche anno prima – se sia vero che abbia accumulato tanto denaro?
- Dovevo ritornare a lavorare... - le risposi in modo sbrigativo allungando il passo e allontanandomi dall'angolo opposto, decisa a congedarla.
Non le avrei raccontato nulla di più. Come potevano esistere persone tanto impiccione? In fondo cosa sarebbe cambiato nella sua vita se le avessi spiegato che il mio capo mi aveva chiesto di terminare le pratiche ancora sospese, rimanendo una settimana in più? Di certo avrebbe controbattuto con un sorrisino alludendo a un guadagno maggiore. E mentre mi preparavo alla sua prossima domanda rovistando tra le possibili risposte da darle per scovare la più appropriata e concisa, facevo impercettibili passi, tattici, nella direzione opposta, come fossi stata priva di gravità e senza lasciare traccia nell'asfalto, pur di allontanarmi da quella seccante interlocutrice.
Poi un boato.
Sentii come se una bomba, scoppiata a pochi metri, mi avesse spinta usando la forza dell'atmosfera. Almeno giustificai a me stessa quel rumore assordante e insolito, confrontandolo con quelli che le televisioni trasmettono quando mostrano immagini di guerriglia.
Non ebbi tempo di capire se provassi paura o stupore. Ma tentai di dare alla mia memoria breve una sequenza degli ultimi istanti.
Rumori d'inutili freni, uno schianto metallico, un cadere sordo, ma non un urlo, nulla.
Forse del fumo, misto all'odore di pneumatico rimasto a imprimere l'asfalto.
L'incrocio pareva la scatola di latta che teneva mia nonna nel cassetto, piena di pezzi di metallo, vetri e altri oggetti collezionati dal giorno in cui l'insanabile e terribile malattia le aveva assorbito il senno, amara conseguenza della solitudine che le aveva lasciato mio nonno.

Daniela Vasarri

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