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Autore: Lucia Fusco
Corone di ginestre
Narrativa
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Corone di ginestre
Non so cosa mi abbia spinto a sposare Martin, forse la mia poca autostima o probabilmente la paura di restare sola per il resto dei miei giorni. Sicuramente non me lo perdonerò mai, ma ora mi trovo qui a condividere la mia vita con un uomo che non amo, non stimo e che mi fa persino pena per quanto io non riesca a considerarlo.
Ho conosciuto Martin in una fredda serata di dicembre, quando le luminarie natalizie rendevano l'aria del porto di Oban frizzante e profumata. Ero seduta a un vecchio tavolo, tarlato e robusto di un pub caldo e accogliente sulla Dunollie Road. Sorseggiavo una pinta bruna e riflettevo sulla mia vita. Continuavo a pensare al mio lavoro, ai miei sogni, al passato e immaginavo il mio futuro. In quel preciso momento arrivò lui: alto, robusto, il viso ovale e preoccupato. I suoi occhi neri persi nel vuoto, il naso arrossato dal freddo, le labbra sottili e imbronciate. Sembrava impensierito, deluso, o forse disperato. Si era accomodato al tavolo di fronte il mio, e continuava a guardarmi furtivamente mentre sorseggiava la birra rossa che stringeva nervosamente tra le mani. Mi infastidiva da morire. Ho sempre odiato stare troppo vicina alle persone, e di conseguenza chiunque osava avvicinarsi eccessivamente a me, rischiava di essere trattato in malo modo. Quella sera non andò così, ed è lì che sbagliai probabilmente. Dopo poco aveva iniziato a parlare, anzi, a blaterare; si era lasciato con la sua ragazza da quasi un anno, dopo ben dieci anni, ma ancora non aveva accettato del tutto la fine di quel rapporto. Ero lì che lo ascoltavo, o forse facevo solo finta. Ero troppo persa nei miei pensieri per poter stare a sentire le lagne di uno sconosciuto. Cosa avrei fatto nella mia vita? Ero veramente felice di essere un'agente immobiliare? Sarei rimasta sola per sempre?
Io avevo mille dubbi, lui invece sembrava pieno di certezze. Parlando avevo scoperto che aveva origini italiane, la sua famiglia viveva a Oban da ben tre generazioni. Lavorava nel ristorante italiano dei suoi genitori, che prima ancora era stato dei suoi nonni e ancor prima dei bisnonni. Faceva il cuoco, gli piaceva creare nuovi piatti, ma poi non aveva mai il permesso di suo padre per inserirli nel menù. Già da quella prima chiacchierata avevo compreso la sua triste situazione familiare: genitori antiquati che esercitavano sul loro unico figlio un controllo quasi maniacale. Avrei dovuto capire rapidamente che un uomo cresciuto in una famiglia così non avrebbe fatto per me, ma in quel frangente non mi ero proprio posta il problema e da quella sera stessa, iniziai ad affezionarmi a lui. Iniziò così il lento sbriciolarsi della mia esistenza.

Passavano i giorni, le settimane, i mesi e io amavo la gioia che finalmente scaturiva dai suoi occhi. Martin sembrava raggiante, ed era dolce, veramente molto sdolcinato. Mi amava, e io mi sentivo felice, ma non abbastanza. Non era colpa sua, bensì mia. Cercavo in tutti Nolan, quel ragazzo che mi aveva fatto perdere la testa quando ero appena ventenne. Nolan aveva i suoi nonni materni qui a Oban, a mezzo miglio da casa mia, a oggi non so nemmeno se siano ancora vivi. Quell'estate tornò per fare una lunga vacanza di due mesi con loro, suo padre stava provando a rifarsi una vita dopo aver perso sua moglie da più di un decennio. Nolan però non riusciva a sopportare la situazione e scappò via per un periodo, il tempo di accettare il nuovo contesto. Ho ricordi bellissimi di quell' epoca. Un giorno decidemmo di allontanarci da tutti per un po', prendemmo l'autobus 417 e arrivammo al porticciolo di Gallanach Road. Salimmo sul traghetto e arrivammo in meno di dieci minuti a Kerrera, una delle isole Ebridi che affaccia sul Firth of Lorne. Quando attraccammo sembrò di essere stati catapultati in un mondo parallelo, una Scozia completamente diversa da quella che conoscevamo. Ci avviammo verso il tragitto che portava a Sud. Le esplosioni di colori con sfumature dal verde al blu e l'odore salato dell'oceano riempivano i miei sensi. Sulla strada teiere e tazze penzolavano da alberi e cancelli per indicare l'unico tea garden nei pressi delle rovine del Gylen Castle. Fu proprio lì che, stremati dal cammino, ci lasciammo cadere nel mezzo della vasta pianura verde. Nolan mi guardava con gli occhi pieni di gioia, eravamo un quadro perfetto: una giovane ragazza seduta a terra nel suo candido vestito di lino, con i lunghi capelli rossi e mossi che cascavano sulla schiena, gli occhi verdi che brillavano pieni di un amore puro e le gote ancora più purpuree di quanto le lentiggini non le rendessero già. Lui lo spettacolo più bello del mondo, seduto di fronte a lei, le cingeva il collo con le braccia. I suoi occhi scuri e profondi la guardavano come se fosse stata l'astro più luminoso del cielo. E fu proprio lì, in quel nostro dipinto perfetto, che prendendomi il viso tra le mani tremanti mi disse: - Ti amo Clara, ti amerò per sempre - .
Quando l'estate finì, Nolan andò via lasciando in me un vuoto enorme, una lacuna che dopo quasi dieci anni non si è ancora colmata di un briciolo, anzi, sembra proprio che il suo argine continui a crollare.
Stavo bene con Martin, ma non ero felice e non lo sono ancora. Ho deciso di sposarlo solo per paura di passare il resto dei miei giorni da sola a fantasticare su una vita con un uomo che era completamente sparito nel nulla.
Quando Martin mi chiese di sposarlo eravamo a cena nel ristorante dei suoi genitori. Nel momento in cui si buttò goffamente in ginocchio alzai gli occhi al cielo e pensai che Nolan non lo avrebbe fatto così. No, lui mi avrebbe portato in un posto speciale, tra la brughiera magari, con lo sfondo dell'oceano e i fiori di campo legati in una corona di ginestre tra i miei capelli. Ancora non capisco come abbia fatto a dirgli di sì.
Non sapevo cosa rispondere, erano appena sei mesi che ci frequentavamo. A me non sembrava proprio il caso, ma sua madre mi si buttò al collo saltellando felicemente e fissandomi con i suoi piccoli occhietti marroni. Aveva quei modi di fare talmente pacchiani che mi mettevano tremendamente a disagio. Il ristorante era pieno di gente, tutti mi fissavano aspettando una risposta. Dissi un “sì” fin tropo deciso, ma nella mia testa c'era un “no” stampato a caratteri cubitali.
Nel momento in cui Martin mi infilò l'anello al dito mi sentii mancare. Pensai che sarei tracollata secca sul pavimento. Dopo qualche giorno, però, mi dissi che forse non sarebbe stato così male. In fondo era un bravo ragazzo, sembrava educato e affettuoso. Così mi convinsi che sarebbe bastato guardare al futuro con positività e tutto si sarebbe risolto.

Oggi è il nostro secondo anniversario di nozze, ma lui dorme sul divano da almeno un mese. Non è una cosa che gli ho imposto io, assolutamente. Anzi a me fa anche pena, non sopporto vederlo dormire nel soggiorno.
Da praticamente subito abbiamo avuto problemi, nessuno dei due riusciva a cedere mai su nulla. Lui da buon italiano mammone, ha voluto prendere casa vicino ai suoi genitori, io da buona scozzese avevo già una casa in affitto in cui vivevo sola da anni. Per lavoro viaggiavo molto, e lui ne era a conoscenza da sempre, ma improvvisamente ha iniziato a dargli fastidio, a essere molto geloso e tutto grazie a sua madre. Lei non faceva altro che infilargli nella testa strane idee su cosa io potessi fare in giro, alludeva addirittura a tradimenti con colleghi. Inutile dire che tutto ciò dopo poco ha incominciato a stancarmi e infastidirmi. Nel momento in cui mi sono resa conto che nessuno aveva fiducia in me, ho iniziato a sentirmi destabilizzata, come se mi mancassero le forze. Mi sentivo prosciugata, senza energie, praticamente vuota. Ero sempre riuscita a tenere lontano da me persone mentalmente chiuse, avevo il terrore che un legame potesse ostacolarmi o bloccarmi, e alla fine così è stato. Mi hanno tolto quella felicità con cui mi svegliavo al mattino per affrontare la giornata e andare a lavoro, mi hanno strappato via la grinta e la dignità. Inutile dire che tutto questo mi ha portato a odiare i suoi genitori e ad allontanare lui.
Mentre esco dalla camera da letto sento un buon profumo di caffè. Scendo le scale quasi correndo e arrivo in cucina. Martin è lì, seduto a tavola, con una grossa tazza fumante tre le mani.
- C'è del caffè anche per te Clara - dice senza guardarmi.
- Grazie, sei gentile come sempre - rispondo mentre cerco i suoi occhi, - Martin? Dov'è che ci siamo persi? Dove? - chiedo strofinandomi la fronte.
- Io non so più neanche dove ci siamo trovati, figurati se riesco a capire dove ci siamo persi! - ribatte sbattendo la tazza sul tavolo.
- Cosa dobbiamo fare? Si può sapere? È un mese che occupi il soggiorno, non vieni a dormire con me, non riusciamo a parlare, non abbiamo modo di confrontarci così! Cosa faremo? - chiedo alzando esageratamente la voce.
- Voglio il divorzio Clara. Non c'è altro da fare - dichiara a voce bassa senza alzare lo sguardo dal pavimento.
- Cosa? Il divorzio? E così lo dici? Io... io avrei dovuto chiedere il divorzio! Io! Lo capisci? - replico urlando a squarciagola.
- È uguale, o io o tu, cosa cambia? - sostiene alzandosi nervosamente.
- Cambia! Per me fa differenza! Ho sopportato le cattiverie della tua famiglia troppo a lungo! Tua madre mi ha dato della “poco di buono” più volte! E io? Io non le ho mai risposto sgarbatamente! Mai! E solo per te! Per rispetto verso mio marito! - blatero nervosamente.
- Tu e mia madre mi state rovinando la vita! Mi sento come se fossi tra due fuochi! Se difendo te mia madre mi complica l'esistenza, se invece difendo lei tu mi urli addosso dicendo che non sono un buon marito! Non so più cosa fare! Lo capisci? - spiega camminando nervosamente avanti e indietro.
- Bene, me ne andrò oggi stesso! Manderò qualcuno a prendere le mie cose. Buon anniversario anche a te! - spiattello andando via.
- Addio Clara - .

Lucia Fusco

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