Non ho mai fatto male a nessuno
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- Lo sapevo che sarebbe finita così! Lo sapevo, lo sapevo! - continuavo a ripetermi mentre premevo sull'acceleratore. Mi aspettavano a Barletta per la prima docenza di un corso di formazione. E io ero partito dalla mia Cerignola in ritardo, come al solito. Ma il ritardo sarebbe stato l'ultimo dei miei problemi quel giorno. Perché quello era il giorno in cui tutto sarebbe cambiato. Per sempre, da un momento all'altro. Non potevo ancora saperlo, perciò continuavo a preoccuparmi solo dell'orario, avendo come unico obiettivo quello di arrivare puntuale in aula. Il tachimetro della mia Alfa Romeo Giulietta segnava 160 Km/h. Se fossi riuscito a tenere quell'andatura, forse avrei sforato di soli dieci minuti, ma sarebbero stati sufficienti per iniziare in modo disastroso il mio primo giorno di lavoro. Decisi di inviare un messaggio vocale alla responsabile dell'ente di formazione, mentre una pioggerillina iniziò a picchiettare sul parabrezza. - Ciao Elena! Scusami, qui piove, e il traffico scorre lento. Probabilmente farò un po' di ritardo. Perdonami! - - Il traffico... - , aggiunsi tra me e me. - Che scusa banale! Imbecille... - Se Elena Sammarchi mi avesse visto parlare da solo, come ero solito fare quando mi trovavo sotto pressione, avrebbe intuito subito che sarebbe stato meglio se avesse scelto un altro psicologo per il suo corso. E che dallo psicologo dovevo andarci io, come paziente. Nel frattempo, grosse nubi nere avevano coperto il cielo e la pioggia aveva preso a cadere molto più copiosa. Accesi i fari, mentre un SUV mi sfrecciava accanto, scaricando sulla mia macchina una quantità d'acqua che neanche all'autolavaggio. Quando ebbe completato la manovra di sorpasso vidi una ‘P' palesarsi sul lunotto. “Ah ecco! Ora si spiega!” pensai, tra un'imprecazione e l'altra. Giunto in prossimità del curvone per Trinitapoli, tra lo scrosciare della pioggia e il fragore dei tuoni finalmente le mie orecchie ascoltarono qualcosa di piacevole: dal cellulare arrivò il suono dell'inno del mio amato Milan. Era la notifica di un messaggio, di certo la risposta di Elena Sammarchi. Nella foga di capire che tipo di reazione avesse avuto, il telefono mi sfuggì di mano. Quando lo raccolsi e tornai con gli occhi sulla strada, d'istinto mi rizzai sul sedile, serrai gli occhi e con una brusca frenata inchiodai la macchina a pochi centimetri dal SUV che mi aveva superato poco prima. Il cuore mi batteva a mille mentre ristabilivo la distanza di sicurezza. Tutti quei segnali avrebbero dovuto convincermi a tornare indietro, ma proseguii. Feci un lungo sospiro e, ancora scosso, ascoltai il messaggio vocale che avevo ricevuto poco prima: Dottor Brandi, i corsisti sono già tutti qui. Non voglio metterle fretta, ma aspettiamo solo lei. In quel momento mi apparve l'indicazione dell'uscita per la complanare. Immaginai che scegliere la strada meno trafficata mi avrebbe fatto guadagnare minuti preziosi. Invece, presa l'uscita, mi resi subito conto che non avrei affatto guadagnato tempo. La stradina era allagata e invasa dal fango sceso a rivoli dalla vicina campagna. Come se non bastasse, il navigatore, che fino a quel momento aveva funzionato alla perfezione, improvvisamente s'impallò. Mi dava ancora sulla superstrada. Non era la prima volta che mi creava problemi, ma in quell'occasione mi ritrovai impossibilitato a usare anche il navigatore del telefono, perché nel luogo in cui mi trovavo non c'era campo. Non mi restava che affidarmi a Dio. Peccato che Dio fosse troppo impegnato a inondare la strada. I tergicristalli servivano ormai a ben poco. Erano le tre del pomeriggio e sembrava notte fonda. Nell'oscurità, sotto il diluvio, perso in una strada sconosciuta, allagata e con il navigatore in tilt, potevo solo sperare che non iniziasse a grandinare. E invece grandinò. Non avevo altra scelta, dovevo fermarmi. Per una volta, sembrava essermi andata bene: oltre le grandi distese di ulivi, intravidi l'insegna di una stazione di servizio. Avevo trovato riparo! O almeno così credevo..." Spento il motore, fui accolto da una struttura dall'intonacatura scolorita e scrostata, con i vetri di un locale in frantumi. Una centralina elettrica era abbandonata a terra con lo sportellino aperto e i fili che fuoriuscivano. A occhio e croce, o la stazione di servizio era stata devastata dalla tempesta in corso, oppure la manutenzione non veniva fatta da secoli. Mi chiesi se fosse saggio lasciare la macchina sotto la tettoia composta da travi marce e penzolanti, così come l'insegna della compagnia petrolifera che dondolava con veemenza sotto le impetuose sferzate del vento. Mi avvicinai all'entrata facendo gli slalom tra le erbacce che proliferavano tutt'intorno alle pompe di benzina e si estendevano per l'intero spiazzo. L'unica cosa che mi portava a pensare che la stazione di servizio non fosse abbandonata era la luce accesa al suo interno. Nonostante l'enorme tettoia che avrebbe dovuto ripararmi nel breve tragitto dalla macchina all'entrata, il vento era così forte da scagliarmi addosso violenti fiotti d'acqua. In compenso, aveva almeno smesso di grandinare. Entrai trafelato, fradicio e con la camicia sgualcita, ma mi sentii sollevato per essermi lasciato alle spalle tuoni e fulmini. Il locale, all'interno, era più piccolo di quanto mi sarei aspettato. Solo un bancone, che si estendeva lungo la stanza poco profonda. Al bar non c'era nessuno, come non c'era l'ombra di un benzinaio, né di personale di alcun tipo. Eravamo solo io, un neon ronzante che sfarfallava come se fossi in discoteca e, fuori, l'apocalisse. Lo ammetto, non ero mai stato un cuor di leone, perciò men che meno riuscivo a sentirmi tale in quel luogo spettrale. Mi schiarii un po' la voce e chiesi: - C'è nessuno? - Mi rispose un tuono che fece vibrare i vetri. Pensai fosse il caso di mandare un altro messaggio a Elena Sammarchi, se non altro per avere un surrogato di compagnia in quel luogo sperduto nel mezzo del nulla. Ma niente, la connessione era ancora out. - C'è nessuno? - domandai alzando il tono della voce. Sembrava proprio che la stazione fosse deserta. Provai a chiamare Ilaria per darle mie notizie. Avevo già pronta anche la battuta per sdrammatizzare: - Dici sempre che vorresti dei figli. Vedi che ho ragione io ad aspettare? Se ne avessimo fatti, ora che mi colpirà un fulmine, sarebbero rimasti orfani - . Ma il telefono, oltre a essere senza connessione, aveva anche problemi di linea. - Chiedo scusa, c'è nessu... - - Prego! - esclamò un ragazzo, sbucando da uno stanzino che ipotizzai essere il bagno mentre si asciugava le mani. - Oh ca...! - Mi trattenni dal completare l'imprecazione. Cercai di dissimulare il terrore che mi aveva assalito e dissi: - Mi scusi, è che è spuntato così all'improvviso... Iniziavo a credere non ci fosse nessuno! - Il ragazzo sorrise, ma rimase in silenzio con le braccia conserte dietro al bancone. Per uscire dall'imbarazzo di quel silenzio, continuai a parlare io: - Ora che mi ha fatto tana, se vuole mi nascondo io! - Ok, la battuta non era stata delle migliori, ma avrebbe potuto fare finta di ridere per educazione. - Si può avere un caffè? - chiesi con tono sommesso, nella speranza che almeno a quello avrebbe risposto. - Subito, ma devo chiederle di indossare la mascherina - rispose lui, ancora con quell'aria sorniona. Accettai perché non mi andava di mettermi a litigare, ma fosse dipeso da me non mi sarei piegato all'ennesimo babbeo che temeva un virus inventato dalla TV un anno prima. Mentre il giovane barista maneggiava la macchina da caffè, lo osservai: capelli biondi, raccolti in una coda di cavallo, occhi verdi e sottili, spalle leggermente incurvate e fisico possente. I lineamenti, i movimenti e addirittura la voce sembravano appartenere a qualcuno che conoscevo da sempre. - Il suo caffè! - mi disse, porgendomi la tazzina con fare risoluto. - Grazie, ma diamoci del tu! Anche se mi rendo conto che potrei essere tuo padre! - gli proposi, esagerando per indagare sulla sua età. - Addirittura mio padre! Non li dimostro, ma ho ventisette anni! - rispose lui, come se avesse intuito la mia curiosità. Poi aggiunse: - Ne ho solo diciassette meno di te - . Rimasi scosso. Come poteva sapere che ne avevo quarantaquattro? - Senti, scusami, ma noi ci conosciamo? Fin dall'inizio ho avuto l'impressione che fosse così, e ora scopro che sai anche la mia età... - - In un certo senso... - La situazione avrebbe dovuto mettermi a disagio, ma il suo aspetto familiare aveva un che di innocuo. Di puro. Di fanciullesco. Ecco, era quella la parola giusta. - Che significa che ci conosciamo “in un certo senso”? Sei di Cerignola anche tu? - - Avrei potuto esserlo, Alfredo. - Conosceva anche il mio nome!
Alfonso Santamaria
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