Il proiettore delle memorie
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Sono in auto. Sui sedili posteriori ci sono un treppiede, degli obiettivi, una bottiglia d'acqua impolverata, un cardigan grigio tortora sgualcito, e uno zaino nero. Qualche batteria sta sui tappetini in feltro agugliato. Un abito è in una custodia protettiva. È il mese di luglio, il giorno è il 5, l'anno il 2017. Mattino presto. Le tre, circa. E sento:
quale sarà la mano che illumina le stelle mastica e sputa prima che venga neve...,
e la vedo, è assolutamente nitida, la madre di mia madre, con il viso lattescente, la figura slanciata, e la fronte che sporge; la vedo con il suo caschetto nero, i jeans larghi e quel secchio azzurro dondolante dalla piega del gomito, e quell'albero di gelsi mentre li mangia, i gelsi, ma più per sfizio che per gusto, e me ne porge uno; e vedo la scena, la vedo proprio, io piccolo che le dico no, perché i sì sono maledetti; e ora, io... qualsiasi cosa farei, io darei quello che volete, ciò di cui avete bisogno, un pezzo di focaccia, un sorriso, un biglietto dell'autobus, per non rifiutarlo, quel gelso, lì.
Per decidere se ed eventualmente dove sedermi in un vagone semivuoto della metropolitana - quando ne trovo uno, s'intende -, adotto un sistema che ho ideato da adolescente. Scelgo innanzitutto un colore, e lo faccio pochi secondi prima che il treno arresti la sua corsa - il tempo giusto, insomma, per capire se potrò giocare o dovrò asfissiare. Nella prima, fortunata ipotesi, appena entro, chiudo gli occhi. Poi mi volto di 180 gradi, li riapro, e prendo a muoverli, gli occhi, alla ricerca del colore. È consentito ruotare la testa, a partire dalla posizione che ho detto, una sola volta, in una sola direzione e solo di 90 gradi. Un altro attributo di questo gioco è la regola che circoscrive la ricerca a oggetti, a indumenti e, in breve, alle cose che non appartengono alla struttura fisica del vagone. Vale tutto ciò che può essere mosso o rimosso dal posto in cui è. Gli adesivi no. Ieri l'altro Elisabetta ha optato per il celeste. Ha intravisto con la coda dell'occhio una felpa di una donna, garantendosi, così, il diritto di sedersi dove le pareva. Era di un celeste particolare, m'ha detto quando me l'ha raccontato. Quando le ho chiesto cosa intendesse per “particolare”, m'ha risposto che non avrei potuto capire. In un mattino dello scorso autunno, mio nipote di undici anni, Flavio, dopo aver ascoltato il racconto di certe mie sconfitte, mi ha domandato: - Ma tu, poi, dove ti siedi se vinci? - Dove capita, - ho glissato io. In verità, a dirla tutta e giusta, preferisco accomodarmi nei pressi del ritrovamento. Di sovente, però, perdo. Come oggi. Resto in piedi, quindi. Una donna, intanto, sta sgridando un bambino: non ci vai alla festa di Giancarlo, dice. Il piccolo acchiappa la gamba della madre, e la stringe forte: l'abbraccia come fosse il tronco di un albero. Quando una ragazza scende, io la seguo con lo sguardo, per poi accorgermi d'essere turbato dallo specchio nero che ho di fronte. E resto a fissarlo, lo specchio, finché non arriva la mia fermata; sicché le porte automatiche si aprono, e io, scomparendo dai loro vetri, entro dentro di me. Ora che ci faccio caso, il corrimano delle scale mobili è proprio buffissimo. Non ricordo chi, ma qualcuno m'ha detto che corre più veloce delle scale. Flavio mi ha confessato che spesso immagina di ritagliarne una porzione, del corrimano, e di inserirvi su una estremità un grande becco, sull'altra due piedi palmati; il tutto naturalmente color carota. Il risultato è nientepopodimeno che Daffy Duck disteso. Io, invece, sogno di incontrare un minatore, vorrei chiedergli se è intensa e liberante quell'emozione che certamente prova mentre sta per uscire dalla miniera, quando, cioè, intravede uno spiraglio, e le cose non sono più interamente, eternamente nere, e se intrasente un poco la vita, e se subodora le cose di sopra, il fuori. Voglio dire, mi precipiterei a domandargli se questa assomiglia, in qualche modo, anche soltanto remotamente, vagamente, alla microscopica, brevissima felicità che mi gonfia quando riemergo - come sto facendo or ora nell'atto di abbandonare la stazione metropolitana - per respirare, lasciar andare e riprendere il cammino.
2. È un berretto classico, di lana, con una corta visiera ricurva non rigida, quello che ho indossato quando sono uscito dal mio appartamento alle otto e trenta, stamattina. Ho poi dato doppia mandata alla porta, prima di decidere dove andare. Ora mi sto dirigendo verso via Dossi. Sulla strada, avverto una scia di profumi cui oppongo resistenza: è appena uscito da una pasticceria un uomo - è calvo, e indossa un maglione a righe bianche e rosse - con un maritozzo fra le mani. Sicché mi fermo ad osservarlo, mentre un po' lo assapora, un po' lo divora su una panchina. Io lo scruto, il suo peculiare modo di mangiare, e intanto giro, come a volerlo aprire, un rubinetto interiore: chissà se ad Elisabetta piacerebbe anche così, con poca panna, penso. Su via Dossi, dicevo, c'è un negozio, uno che vende articoli per la fotografia: debbo acquistare cinque confezioni di pellicola per la mia macchina istantanea. Gusto un afflato di vento, che mi pare una coccola, esattamente un momento dopo essere uscito - dal negozio in questione - con un omaggio nella busta che ora penzola dalla mia mano destra: il calendario da scrivania dell'anno appena incominciato, il duemiladiciassette.
3. Stavo passeggiando su via Maruzzi - saranno state le undici - quando non ho potuto fare a meno di notare una scena: sul marciapiede di una strada che definirei poco trafficata, una donna stava chinata ad armeggiare con i lacci delle scarpe di un bambino. Al che io, invaghito della mia stessa curiosità, ho fatto un piccolo scatto per assecondare l'infatuazione. Son passato di fianco a loro, e, fingendo di rispondere ad una telefonata, mi sono poggiato sul bordo di una berlina in sosta. Il genuino senso di soddisfazione per averli raggiunti in tempo s'è addizionato ad una miscela di dolcezza e fastidio. La donna muoveva le sue rugose mani gentili nell'azione dell'allaccio, mentre un grosso paio di spesse lenti d'occhiali da vista stava a guardia della sua folta chioma eburnea in uno straordinario, perfetto equilibrio. Le gocce di pioggia le maculavano l'orologio da polso, ed era come se ciò che il quadrante stava subendo - lo stillicidio, intendo - fosse la misura nonché la natura del sentimento della donna per il bambino. Se non ci riesci, va bene anche a orecchie di coniglio, il nodo, diceva lei, frattanto. A volerla specificare, tutta e bene, questa mia condizione, potrei senz'altro dire che quando mi capita una cosa del genere - quando, cioè, rallento e mi fermo a guardare -, realizzo di essere un moscone, ma uno piccolo, intrappolato nella ragnatela di un'ossessione che - proprio per la ragione stessa di essere ciò che è e nient'altro, ossia un'ossessione - sa darmi gusto e dolore insieme. Ciò che so, e finora m'è bastato, è che ho una febbre che da tempo provo a nominare. Un suo nome potrebbe essere questo: cristallizzare l'attimo in una forma dotata di unicità, autenticità, senso, coerenza, armonia, purezza.
4. Quando Elisabetta viene nella mansarda in cui abito, la sua presenza mi ingombra, vuoi per lo spazio minimo e meschino, vuoi perché, più probabilmente, mi sono accorto che le nostre differenze contano più - enormemente di più - di ciò che ci accomuna o potrebbe avvicinarci. Tuttavia, sento di non poter perdere la sua innata fotogenicità. Per questa ragione, so bene che potrei dirle la verità, quella che, in fondo, lei conosce meglio di me, e cioè che ci odiamo fino alle ossa, perché ci guardiamo e vediamo lei sé stessa e io me stesso, è una tragedia, ma io non posso sciupare tutta la grazia che lei deposita in certi scatti che io ora - terrorizzato all'idea di perderla, la grazia, la sua - non voglio più contemplare. Alcune fotografie sono dentro una cartella sul desktop del mio pc, file che ho non casualmente rinominato “Volto e corpo del demonio”. Adoro l'idea di lei, l'aura che sprigiona e che sento quando il mio occhio la guarda attraverso l'obiettivo; anelo alla sua rappresentazione nello spazio e non a quello che lei è, o rappresenta, o potrebbe rappresentare per me. Ciò che non riesco a capire è il motivo del suo restare. Chiederglielo non è un'opzione. Mi pare che la storia insegni piuttosto chiaramente che parlare con il diavolo non porti a nulla di buono.
5. Un mese fa, circa, un'agenzia, che si occupa di gestire le carriere di attori e attrici italiani, mi ha inviato una e-mail per chiedermi un preventivo per un servizio. Quando l'ho letta ero seduto in casa a far colazione con un plumcake, uno ancora per metà avvolto nella sua propria confezione. Elisabetta era vicino a me, con la tazzina da caffè sul palmo della mano, mano che teneva socchiusa - ma perché la sostieni come fosse un pulcino, le avrei dovuto chiedere, ma al diavolo nulla va domandato. La risposta dell'agenzia al mio preventivo, fortunatamente positiva, non ha tardato. Ho fissato così un appuntamento per due giorni dopo, firmato il contratto ed incominciato. Il primo giorno di lavoro - tre settimane fa - è stato piacevole. Ho scattato 6 foto per ogni attrice/attore. Scatti, questi, destinati a sostituire quelli già presenti sul sito web ufficiale dell'agenzia, più uno, nel formato polaroid, che ho regalato, come sempre faccio, ad ognuno degli attori, sottobanco, con nome e numero di telefono, i miei, sul retro. Si tratta di un privato, sfacciato, miserabile tentativo di farmi ingaggiare dai componenti di questa legione di narcisi vari e diversi: non cestinerebbero mai una loro foto.
6. Questo pomeriggio - è un lunedì incerto meteorologicamente; il freddo, però, si sente - riposavo sul divano, e frattanto pensavo alla mattinata fotografica, per così dire, appena finita, con la quale termina pure il lavoro in agenzia. Ero sul divano, dicevo, quando Flavio mi ha telefonato per chiedermi quanto genio avessi oggi di andare a fare un giro in bicicletta. - Ma fa un freddo cane, - gli ho risposto. - Ma quanti anni hai? Ottanta? - Dài, vèstiti, ci vediamo tra un'ora al porto, - ho sentenziato, chiudendo la conversazione. Sicché ho fatto una doccia veloce, e ora indosso un maglioncino giallo limone, un cappotto con una imbottitura in neoprene, e penso che se non fosse per Flavio non mi muoverei mai dal divano. In sella alla bicicletta, percorro un tratto del lungomare della città. Riesco, così, a vedere la successione di scene che questo posto, il lungomare, avrà sempre; cambieranno i protagonisti, certo, oppure interpreteranno ruoli diversi, è chiaro; il bambino che ora lancia il pallone arancione al padre lo lancerà tra qualche anno a suo figlio, sempre qui, la scena non cambierà; cambierà lui, invecchierà, traslocherà; il pallone arancione è lo stesso da decenni, anche quello non cambia. Qui ci saranno sempre loro, le scene: le lettrici con il capo chino sulle pagine, i corridori in coppia e in tuta, i viziosi che amoreggiano, i passeggiatori, i fotografi dei tramonti, gli assaggiatori di gelato. Supero poi, costeggiandolo, il principale teatro della provincia, e lo raggiungo, il porticciolo. Mi seggo su una bitta arrugginita, e aspetto. Intanto, una bambina in un impermeabile rosa e con indosso delle scarpe azzurre indica un gabbiano: guarda papi, un piccione con la testa bianca, è spaventoso, urla lei; poi con le dita di una mano s'appende alla tasca posteriore dei pantaloni del padre, mentre con l'indice dell'altra si massaggia il labbro inferiore. Dopo poco vanno via, e io torno a visitarmi per ripescare frammenti di qualche ricordo. Flavio arriva dopo non troppo sulla sua mountain bike; iniziamo a pedalare, uno al fianco dell'altro. Mi racconta di una ragazzina, Silvia, che gli ha chiesto se fuma, e di lui che, per fare lo sbruffone, non ha resistito, finendo così per dire che è naturale per lui fumare, io fumo da quando avevo sette anni, che ti credi, le ha risposto lui. Dopo un giro piuttosto lungo, in compagnia di un gelo che mi sta tramortendo, capitiamo davanti ad una bancarella dello zucchero filato. - Ne prendiamo uno? - chiedo io. - Ma sei scemo? E se passa Silvia, e mi vede mangiare lo zucchero filato? Penserà che sono un bambino. - Hai ragione. Allora lo prendo per me, - replico io, guardando il mercante di zucchero. E mentre rovisto nel portafoglio, alla ricerca di un paio d'euro, mi vengono, come in sogno, in sequenza, certe percezioni lontanissime: la visione del bastoncino di legno che man mano si nasconde nella nuvola zuccherata; le immagini della storia personale (inventata da me) del proprietario del carretto; l'odore metallico che ha l'impasto prodotto dal tener troppo strette le monete nella mano piccola e sudata; ma pure la forza magnetica e tentatrice delle mandorle pralinate, poggiate lì, in bella vista, chiuse ed affastellate dentro la loro bustina trasparente. Flavio dà un paio di strappi allo zucchero, dopo alcune mie insistenze. Fallo per me, non ce la faccio a finirlo da solo, aiutami, gli dico. E lui è un ragazzo generoso. Accertata la stanchezza di entrambi, posiamo le bici nel cortile del mio palazzo. Le agganciamo a due pali. Norberto, il portinaio, sciorina un cenno e un sorriso. Saliamo a casa mia, e, mentre lui va a farsi una doccia, io piazzo tre dita di latte sui fornelli. Poi ordino una pizza mozzarella e prosciutto cotto. Sto fumando una sigaretta quando m'accorgo che qualcuno sta citofonando. Prego, salga, ultimo piano, dico. Ma è Elisabetta. Lei entra in casa, e Flavio esce gocciolante, in accappatoio, dal bagno. Non c'è imbarazzo: hanno un rapporto pluriennale. È una zia acquisita. Dopo aver terminato di bere il mio latte parzialmente scremato, vado in doccia. Quando esco, li trovo a confabulare. Lei sta suddividendo la pizza con un paio di forbici, sulle quali restano dei filamenti di prosciutto. Una scena che scalderebbe il cuore, certo, se uno dei suoi due protagonisti non fosse una ex portatrice di luce, un diavolo con il forcone. Poi Flavio riceve una telefonata dal padre, mio fratello Riccardo. Lascia qui la bici, ti riaccompagno in auto, gli dico. E allora andiamo. Sono al volante, siamo arrivati. Elisabetta è seduta dietro. Flavio apre la portiera. Esce dall'auto. Lo saluto fingendo serenità, dissimulando la tristezza galoppante che mi sta martoriando. Ora lui mi osserva come un Border Collie che fissa un grammofono, proprio mentre lei apre la portiera per venire a sedersi davanti. Muove la testa, Flavio, un po' a destra, poi a sinistra, l'ha annusata la mestizia, Flavio è come suo padre, mica si sfugge al sangue, Flavio ti sente, fa due passi dentro di te, ti ausculta, lo capisce se ménti; ogni parola soggiorna in una frequenza, dice Riccardo, ognuna cammina al ritmo del particolare momento che la produce.
Matteo Alberto Sabatino
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