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Autore: Curtis Beaver
Weird Tales
Fantascienza
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Weird Tales
L'ultima reincarnazione.
I due combattenti stavano uno in fronte all'altro, in silenzio...
il sole era quasi tramontato...si trovavano su una spiaggia deserta, di fronte al mare in burrasca, e stavano combattendo ormai da molte ore...dapprima con le spade, menando terribili fendenti sulle armature che luccicavano al sole al tramonto, senza tregua...erano stremati...tutti e due...l'oplita, e lo spartano...erano passati dalle spade agli xiphoi, (coltellacci lunghi circa 30 centimetri) non meno micidiali delle spade...il sangue e il sudore colavano dai loro corpi scultorei, corpi abituati al combattimento da un apprendistato così feroce, che faceva sembrare il combattimento vero e proprio come una rilassante pausa dall'addestramento...l'oplita osservò lo spartano...attendeva che lo attaccasse, per tentare con un colpo finale a sorpresa di avere la meglio sull'avversario...
improvviso si levò il vento...il paesaggio intorno iniziò a roteare, dapprima lentamente poi sempre più vorticosamente...in un attimo, furono catapultati al centro di un arena...
Il silenzio innaturale della spiaggia aveva lasciato posto al rumore assordante, alle urla della folla che reclamava a gran voce il loro sangue...seduto sopra le loro teste, a una decina di metri in linea d'aria, stava l'imperatore...al suo fianco, una donna di rara bellezza, che li osservava con un velo di tristezza negli occhi...l'imperatore al contrario sembrava divertirsi...le loro armi si erano tramutate in lance, e le armature che indossavano precedentemente erano svanite, per fare posto a dei volgari stracci macchiati di sangue...quando stavano per riprendere il combattimento, da una porta laterale venne liberato un gigantesco leone, ai cui ruggiti la folla rispose con un boato...
l'oplita, fece un cenno di intesa con lo spartano...poi senza indugiare, i due si avventarono insieme contro il leone.La lancia dell'oplita trafisse il leone al costato, e la belva emise un ruggito di dolore.
Mentre l'animale tentava di avventarsi contro l'oplita, lo spartano l'attaccò sull'altro fianco, e affondò la sua lancia nel cuore del leone...che si accasciò su di un fianco, morto.
I due uomini osservarono la scena, fra le urla della folla che era come impazzita dopo il combattimento...ad un tratto di nuovo si levò il vento...l'arena iniziò a roteare vorticosamente intorno a loro...e poi...sparì...si guardarono intorno...era buio, una notte di luna piena...l'oplita adattò la sua vista al buio, e si accorse che lo spartano stava di fronte a lui, a pochi metri...
ora erano vestiti con strane divise verdi...avevano un elmetto in testa, e un fucile fra le braccia...ad un tratto, iniziarono a sentire delle terribili esplosioni, dapprima lontane, poi sempre più vicine...
la terra intorno a loro esplodeva nella notte, con terribili fiammate, rischiarando a giorno il paesaggio circostante...si trovavano sul fianco di una montagna...faceva un freddo terribile...
si accorsero di trovarsi dentro uno scavo nella terra, una trincea difesa sui lati da sacchetti riempiti con della sabbia...ad un tratto udirono come una specie di sibilo, e qualcosa andò a colpire uno dei sacchetti, da cui la sabbia iniziò a fuoriuscire dapprima lentamente, poi sempre più velocemente...
lo spartano si avvicinò incuriosito...infilò un dito nel foro ed estrasse un piccolo bossolo metallico, ancora caldo...guardò stupito l'oplita...
non fece in tempo a tornare verso di lui, che di nuovo si levò il vento...tutto iniziò nuovamente a roteare...stavolta si ritrovarono seduti uno di fronte all'altro. Dove si trovavano adesso? Era impossibile descrivere quel luogo.
Una stanza enorme, con le pareti di un bianco abbacinante...fino all'orizzonte in ogni direzione vi era...il nulla...solo un piano su cui erano seduti loro due...
anch'esso di un bianco accecante...lo spartano non disse nulla.Guardò negli occhi l'oplita.
L'oplita sorrise allo spartano.Stettero così, senza parlare, per un po'...non avevano bisogno di capire...ne di chiedersi il come, il perchè, il senso di tutto questo...si alzarono da terra, simultaneamente...si vennero incontro, si abbracciarono. Stettero così per un istante che a loro sembrò infinito...cercarono di trasmettere al subconscio le sensazioni vissute in quell'incredibile viaggio nello spazio e nel tempo...un tempo che per loro era stato breve, ma per il resto del mondo eterno...
chissà cosa si sarebbero portati dietro, di tutto questo.
Perchè entrambi, avevano capito che il loro viaggio era finalmente terminato.
Si guardarono negli occhi, sorridendo...
poi improvviso, si levò il VENTO.
Il viaggio meraviglioso di Pluto Williams.
Inspirò l'aria a pieni polmoni. Si trovava sulla cima del cratere dello Sneffels, in Islanda. Ci era salito diverse volte, ma ogni volta che vi tornava, provava emozioni sempre nuove e contrastanti. L'aria era fredda e pungente, ma essendo ben equipaggiato, non pativa il freddo. Il pallido sole all'orizzonte stava per sorgere. Fra poco, avrebbe dovuto raggiungere il professor Otto Lidenbrock, e gli altri membri della spedizione. Nonostante ne conoscesse ormai a menadito lo svolgimento, ogni volta quella discesa gli procurava un senso di inquietudine. Forse era la bocca del cratere all'interno, con lo stretto sentiero in discesa verso l'abisso che li attendeva, forse erano la sue proverbiali vertigini.Chi lo sa? Rimase ancora per un attimo a gustarsi lo splendido paesaggio islandese all'alba. Contemplava quella natura aspra, beandosi delle sue bellezze. Era ora. Non doveva indugiare, altrimenti avrebbe presto ricevuto i rimbrotti del professore. Iniziò a malavoglia la discesa, facendo attenzione a dove metteva i piedi. Su quel sentiero la minima disattenzione gli sarebbe stata fatale. Il professor Lidembrock, intanto che scendeva, illustrava ad Axel la stratigrafia delle rocce all'interno del vulcano, ed i due discutevano animatamente sulla situazione che avrebbero trovato di li a breve alla base del cratere. Hans intanto, proseguiva imperterrito la sua marcia in silenzio, in testa al gruppo. La quiete all'interno del cratere, era rotta solamente dagli starnazzi che di tanto in tanto emetteva Gertrud, l'oca che Hans aveva a tutti i costi voluto portare con se. Camminarono per tutto il giorno, facendo solo una breve sosta, e quando furono alla base del cratere, ormai era notte fonda. Gli ultimi tornanti del sentiero vennero percorsi illuminandoli con la fioca luce delle lampade a petrolio. La luna era ormai alta nel cielo, e si vedeva distintamente lassù in alto. Il freddo era pungente. Montarono in tutta fretta il campo per la notte, e dopo aver consumato una frugale cena, si coricarono stanchi morti sotto le tende a riposare. Quando fu sdraiato nella tenda, un momento prima di chiudere gli occhi, egli richiuse il libro. Lo posò con delicatezza sul comodino. L'infermiera, stava entrando nella camera d'ospedale dove era ricoverato da qualche tempo. “Nessuna visita oggi, Sig. Williams?” “No, per fortuna no!” rispose, convinto. “Lei ha sempre voglia di scherzare, Sig. Williams. Non vorrà farmi credere che non le fa piacere quando qualcuno viene a farle visita, per caso?” E' proprio così, rispose mentalmente all'infermiera. Fece un sorriso, poi rispose: “Non sta andando molto bene, vero?” L'infermiera cercò di sorridere, ma lui colse quell'ombra che era scesa di colpo negli occhi della ragazza fino ad allora sorridenti. “Sig. Williams. Posso chiamarla Pluto?” Odiava quel nome. Lo avevano sempre preso in giro per quel dannato nome. Tutta colpa di suo padre, e della sua maledetta predilezione per i classici. In verità, avrebbe dovuto chiamarsi Plauto, ma all'anagrafe avevano fatto storie, e allora lo avevano chiamato proprio così. Pluto, come il cane di Topolino. Quante derisioni aveva dovuto subire per quel nome. L'unica cosa che suo padre gli aveva lasciato di buono, era l'amore per la lettura. La passione per i libri di solito si tramanda di padre in figlio, e lui aveva avuto la fortuna di avere un padre veramente appassionato. Sin da piccolo, aveva attinto con bramosia alla biblioteca paterna. Lui adorava i libri. Anzi, lui le storie dei libri le viveva proprio fisicamente. Quando leggeva un capitolo di un libro, si appassionava talmente alla storia, che gli capitava spesso di sentirsi fisicamente all'interno del libro. I suoi sensi, nel pensiero, erano tutti coinvolti. Ad un tratto tornò ad udire la voce dell'infermiera. “Veramente la sua situazione da diverse settimane è stazionaria, sig. Pluto. Il primario ha riverificato i suoi esami proprio stamattina. Stia sereno, è in buone mani.” Il tono di voce dell'infermiera non era troppo convincente, a differenza delle sue parole. Erano piccole sfumature, ma da quando il male del secolo lo aveva colpito, aveva imparato a cogliere ogni piccolo dettaglio in ogni frase, anche solo un semplice battito di ciglio per lui significava tantissimo. Aveva già fatto diversi cicli di chemioterapia, ma con scarsi risultati. Avevano solo rinviato la sua morte di qualche anno, e lui questo lo sapeva bene. Ma era davvero un ottimista inguaribile, e non riusciva proprio a pensare alla propria morte, nonostante stesse per sopraggiungere. Non si era mai arreso al male, combattendo giorno dopo giorno con il sorriso sulle labbra. Ed era ancora qui a sfidarla apertamente, giorno dopo giorno. Ogni giorno che passava in vita, era una piccola vittoria personale per lui contro il proprio destino. Ma sentiva che non mancava molto, ormai. Non aveva bisogno di leggere i referti medici o di sentire le parole di quella brava ragazza che stava cercando a modo suo di tranquillizzarlo. Lui sapeva, come ogni persona sa, quando sta per arrivare la propria ora. Sapeva perchè se lo sentiva. L'infermiera cambiò la flebo di morfina, controllò che il liquido scendesse regolarmente, poi disse: “Se ha bisogno di qualcosa, suoni pure il campanello. Buonanotte.” “ Grazie di cuore, signorina. Buonanotte anche a lei”. L'infermiera gli fece un ultimo sorriso, poi uscì dalla stanza. Che bella ragazza era, pensò. Ora il dolore che provava gli faceva desiderare soltanto che gli somministrassero la morfina. Un tempo, a una ragazza così carina, avrebbe senz'altro fatto una corte spietata. Ma ora le sue priorità erano altre. Sopravvivere, vivere ogni giorno in pienezza, e fare le tutte le cose che gli piacevano. Si addormentò, perduto nei propri pensieri. Ora, si trovava fuori della casa di George. George era appena ripartito con la sua meravigliosa macchina del tempo, verso il futuro. Lui era nel cortile, stava nevicando. David Filby stava spiegando alla governante, la Sig.ra Watchett, che cosa era accaduto.” George, ha spostato la macchina del tempo. La macchina del tempo, quando arrivò nel futuro si trovava nel laboratorio. I Morlock la spostarono qui fuori. Egli, ha nuovamente spostato la macchina, raschiando il piancito, per ritornare dalla sua Weena”. Ascoltava con interesse la spiegazione di David, nonostante l'avesse ascoltata ormai un sacco di volte. La conosceva a memoria, eppure riusciva sempre ad appassionarsi alle parole di Filby. David Filby in quel momento stava guardando nella sua direzione. La governante, mrs. Watchett, continuava a scuotere la testa in segno di disapprovazione. Era visibilmente scossa da quanto era accaduto. Non aveva tutti i torti, pensò. Poco prima aveva assistito alla scena in cui George era apparso improvvisamente fra i suoi amici con i vestiti a brandelli ed il viso ed il corpo pieni di lividi e di ferite. Poi aveva assistito al racconto pazzesco ed inverosimile di George, e all'animata discussione che ne era seguita. Ed ora George era sparito per sempre! Non riusciva proprio a darsi pace, povera donna. David Filby si congedò dalla governante, incamminandosi sotto la neve. Lui lo seguiva a breve distanza, cercando di non farsi notare. In lontananza uno scalpiccio di cavalli davanti ad una carrozza che si allontanava nella notte. La strada era illuminata fiocamente dai lampioni a gas. David era pensieroso, e non si era accorto di lui. Ripensò al fiore misterioso riportato indietro dal futuro da George. Era davvero di una specie sconosciuta. Era stanco, molto stanco. Non riusciva più a tenere gli occhi aperti. David stava guadagnando terreno, ormai si trovava ad almeno cento passi da lui e procedeva sempre più speditamente verso casa. Vide una scalinata I cui gradini erano provvidenzialmente sovrastati da un grande bow-window. Salì lentamente la scalinata, gradino dopo gradino, facendo attenzione a non scivolare sulla neve. Si sedette sull'ultimo gradino, al riparo dalla nevicata. Si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi. In poco tempo si addormentò profondamente. La mattina dopo, l'infermiera, quando entrò nella sua camera, trasalì. Poi corse a chiamare le colleghe. Non aveva mai visto niente di simile in vita sua. Il letto del signor Williams, era stato trascinato fino alla finestra, e per terra sul pavimento di linoleum si potevano ancora vedere le strisciate. La finestra davanti al letto era aperta. Il letto, vuoto. Sul letto, appoggiato delicatamente sulle lenzuola, vi era solamente un bellissimo

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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