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Autore: Angela Rosauro
Catàmmari catàmmari nel fondo del pozzo
Romanzo
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Catàmmari catàmmari nel fondo del pozzo
D'un tratto intravvide un angolo colorato che fuoriusciva dalla pila di posta, con una mano spostò le buste bianche per vedere cos'era, apparve una cartolina, di quelle fatte con tanti riquadri contenenti a loro volta diverse fotografie del luogo su cui campeggiava una scritta centrale “Saluti da Porto Empedocle”. Il cuore le balzò in gola.
- Adriana! - Girò immediatamente la cartolina, divorò le poche parole scritte “Avevi ragione tu, viaggio inutile, peccato... ci vuole altro per poter continuare. A ognuno il suo viaggio, comunque grazie.” Rimase inchiodata, rilesse le poche parole sforzandosi di comprenderne il significato, guardò la data: sette ottobre. L'aveva imbucata prima di salire a bordo. Comunque grazie? Viaggio inutile? Che voleva dire? Poteva voler dire una sola cosa. Oh mio Dio, mio Dio, che hai fatto? Che cazzo hai fatto? Mio Dio no! L'avevi già in mente? L'avevi già in mente! Appoggiò la testa tra le mani come a far rallentare il turbinio di pensieri che si affollavano alla mente. E se fossi venuta con te? Sarebbe stato diverso? Certo che sarebbe stato diverso! Forse tu volevi che venissi con te. Sì, tu volevi che venissi con te. Ci stavi pensando da un po'? Volevi salvarti... e io? Io non capito un cazzo, questa è la verità! E ora? Ora che faccio? Come faccio? Come faccio a continuare? Come posso dirlo? Dovrei dire tutto... ma non posso! Che punizione orribile. Dio mio, come posso farcela? Che compito terribile che ho innanzi. Oh Dio, sono dannata! Dannata, sono dannata... Pianse finalmente, pianse come non faceva ormai da tanto, di quel pianto che sgorga indipendente dalla propria volontà, di quel pianto che anima e consola, che riempie d'amore e svuota, che ti accascia e ti fa sentire leggero, fatto di un mare di lacrime giuste, lacrime necessarie, le uniche che possano ridare la forza per andare avanti. Pianse tanto, sommessamente, poi forte, tuonando e ululando di dolore, battendo i pugni sulla bella scrivania. Si raggomitolò appoggiando la guancia sullo scrittoio di pelle verde che aveva ancora quell'odore antico, senza pudore, senza volontà, senza fine.
- Che fu? - chiese Filuccia, entrando spaventata per le urla che aveva sentito, si avvicinò.
- Niente... tutto... Filuccia... voglio piangere, devo piangere! Voglio annegare nel mio pianto, voglio soffocare, lasciami stare...Filuccia ne ho bisogno, quello che ho qui - e si toccò il petto - devo tirarlo fuori, a costo di strapparmelo con le unghie, altrimenti non lo so...mi sento morire...mi sento squartata, sento le carni bruciare a sangue...Filuccia mia, lasciami piangere - .
L'anziana donna la guardò con tenerezza, non ebbe il coraggio di accarezzarla poi con gli occhi umidi mormorò:
- Chianci figghia mia, chianci... sono lacreme di semmena! Il concime è necessario, catàmmari catàmmari aia a veniri ‘o tempu du raccolto! -
- Oh Filuccia... ma quanto è difficile arrivarci. Quando ero bambina era tutto più semplice... in quegli anni credevo di vedere tutto chiaro, di qui il bene e di qui il male e invece no, la vita non è per niente così... è tutto confuso, è un continuo inciampare - .
- Non ti scantari, chisto è concime... catàmmari catàmmari ‘a pianta crisce forte - .
- Io non sono affatto cresciuta forte, sono invece tanto stanca e confusa. Vorrei tornare piccola, vorrei che papà mi prendesse ancora per mano per poter risentire quella sensazione di completa, assoluta certezza che mai nulla potrà accaderti di male, che solo allora riuscivo a provare. Mi guardo attorno e non riconosco più nulla... catàmmari, catàmmari... è troppo difficile... -
Filuccia la guardò ancora e annuì soffiandosi il naso. I giorni che passarono furono davvero i più tristi che Rosamaria avesse mai vissuto: il dolore per la morte di Adriana, per la sua mancanza, per la consapevolezza che non l'avrebbe più rivista era struggente ma reso più bruciante dal modo come quella fosse sopraggiunta. La scelta fatta da Adriana era inappellabile, aveva escluso tutti, accusava tutti ma cosa ancora più angosciante, accusava lei: avrebbe potuto salvarla se non fosse stata accecata da sé stessa, dai suoi insulsi piccoli egoismi, se avesse saputo ascoltare nel profondo quel grido d'aiuto, se avesse capito che quel viaggio era la Bouvet di Adriana! La sensazione di colpa che l'attanagliava al pensiero dei tanti, piccoli ma significativi messaggi che la sua sorellina in quei mesi le aveva inviato e della sua stupida, egocentrica cecità che non le aveva fatto comprendere, era quasi un dolore fisico che a volte le spezzava il respiro. La cosa peggiore fu affrontare lo smarrimento negli occhi degli zii e mentire loro impunemente: quel peso immane che si portava dentro, di una verità tanto brutale quanto inconfessabile, li avrebbe distrutti. L'aver scelto di portare su di sé il peso di quel silenzio le era insopportabile eppure era l'unica cosa che avrebbe potuto fare. In paese e tra le persone non si parlava d'altro, la gente si sbizzarrì in esercitazioni di fantasia e le motivazioni o le possibili ipotesi su quanto accaduto erano l'argomento prediletto dal barbiere e nelle salumerie.
- No, allora nenti sai? S'ammazzò idda, meschina... era incinta! Nooh! Avia nu brutto mali... - Bastavano queste brevi frasi poco accorte a far ribollire l'ira furiosa di Rosamaria che sempre di più se ne stava rinchiusa nel suo silenzio trovando un gran conforto al rifiuto di partecipare a quel macabro banchetto. Il giovedì ventiquattro settembre verso le nove del mattino arrivò la telefonata di Mario che le disse con una voce irriconoscibile:
- Dobbiamo andare a Portopalo, hanno trovato un cadavere... -
- Vuoi che venga? - gli chiese facendo uno sforzo sovrumano e sperando in cuor suo che non glielo chiedesse.
- No, vado con papà, se puoi... faresti compagnia alla mamma? -
Trovò la zia in uno stato preoccupante, avevano dovuto chiamare il medico; la poverina se ne stette tutto il giorno sul divano in uno stato di semi coscienza. Arrivò anche Nicola con la cugina Cuncettina che, non appena entrata in salotto, si sistemò affianco alla zia, tirò fuori la sua corona del Rosario, le prese le mani tra le sue e la invitò a pregare.
- Secondo te, è lei? - le chiese Nicola con un'aria che non gli aveva mai visto: sembrava un bambino spaesato e impaurito. Non riuscì a rispondere, scosse il capo in segno di desolata rassegnazione e ritornò tra i suoi pensieri, lasciando che quel brusio di sottofondo non la disturbasse più di tanto, anzi le sembrò che ovattasse e proteggesse quelle ore strappandole alla loro cruda realtà. Quando il telefono squillò ebbe l'effetto di una detonazione in una galleria. Tutto intorno si fermò, tutto si sospese e Rosamaria, andando all'apparecchio, sentì le gambe scricchiolare.
- Pronto? Sì... - Non ci fu bisogno di parlare, di pronunziare parole indicibili, Mario aveva taciuto, Rosamaria aveva capito. Si dovette appoggiare al buffet, le girava la testa e sentiva nelle orecchie un fischio inarrestabile...Cazzo, sto per svenire... Fece in tempo a pensare poi più nulla. La povera donna urlava con quanto fiato aveva in gola, rizzata a metà sul divano. Le ultime parole le scemarono sulle labbra tra i singhiozzi comprendendo quello che nessuno riusciva a dirle. Rosamaria la guardò ma non riuscì a profferire parola, si avvicinò e l'abbracciò con quanta forza aveva, ne accolse i singulti soffocati e i pugni stretti contro il suo petto. Non riuscì a fare altro.
Capitolo diciannovesimo.
Squillò il cellulare, Armanda infilò la mano nella tasca meccanicamente.
- No mamma, non ti preoccupare... - sussurrò cercando di non turbare il silenzio di quella casa - sono a Pistunina, hai ragione...avvisali tu che la lezione è rimandata a sabato - . Aveva completamente dimenticato che alle cinque l'aspettavano i suoi alunni; era già un anno che dava ripetizioni di latino a due ragazzi del liceo, riusciva così a tirar su qualche spicciolo in attesa di entrare stabilmente negli organici del ministero della pubblica istruzione. A dir il vero l'insegnamento non era tra i desideri più attesi ma la strada del giornalismo era davvero lunga e irta di difficoltà. Tornò a guardare la donna che se ne stava tranquilla come se tutto l'orrore, raccontato fino a pochi istanti prima, non le appartenesse. Quanto è insondabile l'animo umano e come è ridicola la pretesa di poterne in poche battute coglierne l'essenza. Sì, forse aveva ragione Paolo, non erano certo domande funzionali le sue! Non è così che si fanno buone interviste ma questa, ormai se ne rendeva conto, era diventata un'altra cosa. Davvero una storia stramma che è diventata un'altra cosa. Tornò a guardarla sperando in cuor suo che la sua breve conversazione non fosse stata troppo inopportuna. Ora voleva sapere, voleva sapere ancora, voleva sapere cosa ne era successo di lei, di quella di allora, degli altri, di tutti loro... percepiva una familiarità nuova e un legame emotivo come se quelle persone le avesse conosciute davvero. Quella se ne stava ritta, davanti a quel balcone, in fronte al suo mare, appariva obliosa, completamente immersa nei suoi ricordi che, come le onde sempre più rigonfie nel presagio di tempesta, si rincorrevano senza tregua. Invece no, si staccò dal vetro e si avviò al carrello dei liquori, si versò qualcosa in un bicchiere.
- Ne vuole? - fece con voce atona. Armanda seguiva nella penombra della stanza i suoi lenti movimenti con il fiato sospeso, quel racconto l'aveva scossa più di quanto si sarebbe aspettata.
- Sì, ne ho proprio bisogno, è una storia agghiacciante... - mormorò stringendosi le braccia attorno nel vano tentativo di fermare il tremito che l'aveva assalita. La donna la guardò con la fissità di chi non vede, le porse il bicchiere con fare brusco poi si lasciò sprofondare tra i cuscini del divano. Scese nella stanza un silenzio nuovo come un velo impalpabile, Armanda sembrava soffocare, non riusciva a star ferma, andò al balcone. Le chiome delle palme ondeggiavano alla furia del vento, le prime goccioline di pioggia avevano già punteggiato i vetri mentre lontano, a nord dietro lo sperone di Scilla, s'intravvide il barbaglio di una saetta lampeggiare. Farà brutto. Si voltò e senza pensarci più di tanto, le domandò:
- È per lei che ha fondato Eleftheria? Voglio dire, per Adriana? -

Angela Rosauro

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