Sono Kirk uomo. Sono Kirk corpo. Sono Kirk mente. Sono qua, in un punto del cosmo. La Terra non c'è, e neppure alcuna stella familiare. Io, Kirk, qua nello spazio sconosciuto. Attorno a me c'è il vuoto siderale, in realtà zeppo di pulviscoli sottili che non posso vedere o cogliere con le mani. Mi tuffo e nuoto in questo spazio senza riferimenti. Vi sguazzo senza fatica. La direzione non ha importanza. La mia meta, neppure. Esiste un bordo, una fine a questo spazio? Continuo a muovermi, per scoprirlo. Passo un pianeta, due, tre; numerosi asteroidi e satelliti, che vagabondi decidono di appoggiarsi poi a compagni più grandi e forti, per non perdersi in quel loro insensato viaggio, o forse anche solo per riposare un poco, riprendere fiato. Esco da quel sistema solare senza nome. C'è un gran vuoto, quello che separa un sistema dall'altro. Come faccio a concepirlo? Ma se il mio tempo e gli spazi a me concessi non hanno qui importanza, anche quella distanza non è più gravosa. Ecco un altro sistema. Mi ci tuffo, lo passo da parte a parte, e ne scorgo gli elementi. Un giovane sole azzurro m'abbaglia, come ghiaccio che brucia. Ma il mio corpo non subisce ferite. In realtà, mi accorgo che il mio corpo non c'è più. Non ho mani, piedi, cervello o viso. Sono come un osservatore senza carne; vedo senza occhi, ascolto senza orecchie, fendo lo spazio-tempo senza arti e senza mente. Eppure, sono ancora Kirk? Sì, sono ancora Kirk. Sono Kirk che nuota nello spazio infinito, nel tempo illusorio. Un altro sistema solare, e poi ancora uno. Ora sono fuori. Vedo un braccio. È quello di una galassia a spirale. Ruota incessante e a tutto è indifferente, compresi i suoi ospiti, i suoi atomi. Solo quel suo ruotare importa. Importa il suo agglomerato, quel suo scheletro che la sorregge e che brucia al suo centro con un corpo nero che inghiotte la luce, famelico, insaziabile. Come un gigante, un uomo cosmico, io ora ho tutto questo alla mia mercé. Se avessi delle mani, delle grandi dita siderali, potrei afferrare quella galassia e ridurla in poltiglia, ad una piccola biglia, o potrei strapparla e spargerne sprezzante gli arti in tutte le direzioni. Mi allontano, o forse mi faccio più grande. Ecco un'altra galassia, barrata. E poi un'altra ancora, ellittica e sensuale. Le galassie si accendono e si fan numerose, come stelle in cielo, contenenti in realtà tutte le stelle. Contemplo tutto ciò, senza immaginarmi un perché, o un'alternativa a questo mio stesso contemplare. Non sono meravigliato, anche se dovrei esserlo. In altre condizioni lo sarei di certo. Sono semplicemente lì, ad osservare. Osservo e attendo. Eccole ora che si allontanano le une dalle altre. Come dopo un litigio, una divergenza. Prendono strade diverse, strade nuove. Sono libere. Sono sempre più distanti, sempre più distanti. Una strana tristezza mi avvolge. Dico loro, senza parole e senza bocca: “No! Non andate, non andate!”; cerco di afferrarle, per rimetterle assieme, come per ricomporre un piccolo quadretto, un mosaico i cui pezzi sono caduti e sparsi sul pavimento multidimensionale dello spazio profondo. Io, ambasciatore, pacificatore disperato, urlo e cerco di afferrarle, ma nulla posso davvero fare. Mi getto in una direzione casuale, come per porre rimedio a quella scellerata scelta. Ma le galassie si allontanano, scompaiono dalla mia vista e così tramontano anche le loro memorie, le storie che portan con sé, custodite come in piccoli scrigni che dalla distanza paiono intarsiati e brillanti. Le luci si fanno più fioche, sempre più deboli e dubbiose. Le distanze, sempre più incommensurabili. C'è l'infinito, e poi un altro infinito ancora. E c'è un momento, ora, in cui quei corpi neri inghiottono tutto. In cui le luci, così spossate, non riescono più a star dietro a quelle corse pazze degli astri e alla dilatazione folle del circondario; si perdono, nelle infinite strade e nessuno può più accoglierle. Il viaggio, senza fine né ritorno, è il loro unico pernottare. Solo i neri corpi, che consumano, avidi, le afferrano e non le lasciano più scappare, quando esse s'appressano in cerca di conforto. Anche loro, poveretti, si appigliano a qualcosa. Devono custodire, poi, con gelosia e paura. Ma ora sono soli; urlano. Urlano disperati, e soli. Fluttuanti, o forse immoti. Nessuno può dirlo. Pure loro, ora, sono stanchi e vecchi. Troppo vecchi. Un numero di anni che non si può contare è passato. E anche loro, ora, han bisogno di riposare. Si lasciano andare, spirando, in un'ultima contrazione. Evaporano, e si perdono. E io vedo tutto questo. In ogni direzione, in ogni punto. Sono impotente davanti a questa lenta agonia del cosmo; alla deriva, che è l'unica regola rimasta. Nulla più rischiara gli angoli remoti. Le sfumature sono perse per sempre. I dettagli di quel grande volto, le sue espressioni sottili, celate. I bordi, insondabili. Eppure... Eppure, ecco che qualcosa accade. Scorgo un movimento. Come un lento incedere, che si trascina. Strisce e membrane di spazio-tempo che si avvicinano di nuovo verso un punto. La festa è finita, e si torna a casa. Sono i morti, che tornano e confluiscono là dov'è il loro destino. Tutto quello che si è allontanato, ritorna, come tanti figlioli prodighi dopo lo sperpero, quando la nostalgia di casa, la nostalgia di quel caldo ambiente e il rimorso si fanno insopportabili. “Venite! Venite!”, dico loro, impaziente. Ed ecco che tutto confluisce in quel punto. Io sono parte di quel punto. Sono ancora Kirk, uomo, ma anche punto, di infinita estensione. Parte e tutto. Ora, riposo. Riposo dove teoria e concetto non hanno luogo. Riposo dove lo spazio e il tempo non hanno più significato. Dove ancora non hanno significato.
Mary si alzò di buon'ora. E di buon umore. Si stiracchiò e sbadigliò con gusto. Si disse che forse sarebbe anche riuscita a non sbottare con Kirk quel giorno. Sì, si sarebbero potuti ancora divertire assieme. Chissà, magari sarebbe anche riuscita a convincerlo a fare un viaggetto, alla fine. Scese al pianterreno in mutandine e canottiera con un bel sorriso sul volto. Raggiante, come raggianti erano i capelli nocciola, dorati al sole del mattino che filtrava dalle finestre. Lo vide un po' ingobbito seduto al tavolo, ripiegato sulla solita tazza di caffè. - ‘giorno! - , proruppe lei, come per spezzare quel religioso silenzio. Gli poggiò la mano sul braccio, e gli diede un bacetto sulla guancia. - Oh, ciao Mary - , le rispose lui. Lei guardandolo vide gli occhi sfiniti. Le occhiaie. - Kirk, mi sembri davvero sciupato - , osservò. Kirk giocherellava assente col suo caffè, si rigirava la tazza tra le mani e osservava il liquido ondeggiare. - Sì, non dormo molto bene in questi giorni. Sarà la macchina. O meglio, i sogni - , spiegò. Mary annuì pensosa. Si guardava le mani, le dita, le linee sul palmo, come per distrarsi. - Sai, credo ti farebbe bene staccartene un po'. Sei così teso ultimamente. - Kirk grugnì qualcosa in risposta, che lei prese per un assenso. - Ti dà strani pensieri. Così... così cupi. E poi- - , sì interruppe. - Cos'è questo? - , chiese, indicando della sporcizia nel lavandino. - Ho... - , Kirk esitò. - Ho provato a farmi del caffè - , ammise lui, imbarazzato. - Senza il ricombinatore? - , chiese, sorpresa. - Già. - Mary guardò confusa quella poltiglia nera e il bicchierone sporco. Sembrava pieno di fango, con grumi galleggianti e schiumosi. Come gli isolotti di un arcipelago. - Sì insomma... non è molto invitante - , disse lei. - No, infatti - , confermò Kirk. - Sai, fa ridere, a pensarci. - - Cosa? - - Fa ridere il fatto che possiamo ripescare quando vogliamo le nostre conoscenze di biologia molecolare, di genetica, di matematica; di Dante, di Platone, e di qualunque altra cosa o persona. Però non sappiamo farci un caffè. - - Beh, oggi è superfluo. C'è il ricombinatore - , spiegò lei. - Già, superfluo... - , fece lui, con voce spenta. Mary scrollò le spalle, con la smorfia di chi non vuol insistere. - Colazione! - , disse. - Latte. Biscotti. Caffè. Una persona. - Il ricombinatore ribollì e gorgogliò, e buttò fuori quanto richiesto. - Quindi... - , cominciò Mary, mentre inzuppava un biscotto. - Perché quegli occhi lontani, persi? Che hai sognato stavolta? - , chiese. Kirk ci pensò su. Ci mise un po' a rispondere. Forse non sapeva che dire. O forse non aveva voglia di parlare. - Credo... - , le parole gli uscivano a fatica, gli pesavano così tanto. - Credo di aver sognato lo spazio. Lo spazio infinito. - Lei l'ascoltava attenta, mentre mordicchiava il biscotto. Attendeva che riprendesse, che aggiungesse dettagli. Ma Kirk si era fermato. Come se non ci fosse null'altro da dire. - Lo spazio, dici? E che cosa ti ha tanto turbato? - , chiese lei, infine. - Te l'ho detto. Credo. - , le disse. - L'infinito. - Mary corrugò le labbra e, con un secondo biscotto tra le mani, inclinò la testa pensosa. - Continuo a non capire. La sorpresa e lo stupore, dico. Ci innestano i primi moduli di matematica a sette anni. Quelli di fisica relativistica a nove. A undici anni abbiamo già tutte queste nozioni. Lo spazio, la sua struttura, le sue proprietà. E l'infinito ci appare nitido e chiaro - , spiegò lei. - Sì, è così - , confermò Kirk. - La mia curiosità rimane - , ammise lei. - Il punto è... - , cominciò lui. Ma si interruppe di nuovo, mordendosi le labbra. - Vedi... - , provò una seconda volta. Le parole proprio non gli venivano. - Oh, com'è difficile! È la prima volta, in tutta la mia vita, che non so cosa dire! Che non so come esprimerlo! - , disse infine, innervosito. - Tu provaci - , lo incitò lei. - È come... - - Sì? - - È come se io avessi visto l'infinito. L'avessi sentito. Tutto. L'infinito, capisci? - Mary lo guardava dubbiosa, appoggiata al braccio. - In realtà no - , disse, sincera. - È come se avessi visto la sua estensione. L'inizio e la fine. La sua storia. Poi lo spazio, la sua vita, dove l'uomo e la Terra sono un battito di ciglia. Il suo respiro, tutto il suo respiro, dalla prima all'ultima contrazione. E tu ora mi chiederai di nuovo: “Perché questo ti sorprende? Gli innesti, gli innesti...” - - Esattamente - , confermò Mary. - Avere la nozione di qualcosa, è una cosa. Sentirla... no, no, che dico. Viverla è un'altra. Io... Io ho sentito quell'infinito. Sulla mia pelle, ti dico. Dentro di me, fin nelle viscere. - Lei l'ascoltava senza dir nulla. Capiva e non capiva. - Noi non siamo fatti per coglierlo. Per parlarne davvero. Possiamo solo rappresentarlo, in vari modi, oppure usare quelle parole vuote, che sono così rozze, parziali. Grottesche. Ma... quel sentimento. Quella vertigine... - , si interruppe di nuovo. Prese fiato. Tanto fiato, fino a riempirsi. Ne aveva bisogno. - E quel punto... c'era tutto. Tutto lì. Io ero tutto. Ero in quel punto. Ero quel punto. Fuori, il vuoto, definito in maniera negativa, per differenza. Eppure... eppure lo stesso vuoto era in quel punto. E fuori quindi c'era altro, che non so neppure definire... - , disse, con le mani che gli tremavano, il respiro singhiozzante. - Sulla mia pelle... la vertigine... la vertigine... - . Kirk continuava a blaterare quelle cose, come preso da un delirio, con gli occhi fuori dalle orbite. - La vertigine! - Mary capì che era il caso di intervenire. - Ok Kirk. Respira. Piano. Piano. Ricordati gli esercizi che abbiamo imparato. Una volta. Due. - Kirk chiuse gli occhi e seguì le sue istruzioni, e i suoi ricordi appresi. - Di nuovo. Uno. Due. Respira, inspira. Piano. Così. - Kirk si rilassò un poco e il battito gli si fece di nuovo regolare. - Così, bravo. Ancora. Così... - Lui riaprì gli occhi, e la guardò con uno sguardo penoso, ma docile. - Scusami. Credo che la cosa mi stia sfuggendo di mano. - - Va bene così. Ora non pensiamoci - , lo rassicurò lei. Lui però aveva gli occhi bassi e mortificati, le parole non parevano raggiungerlo. Un silenzio inopportuno calò e si frappose fra i due.
Alessandro Bettinzana
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