Una Storia Indimenticabile.
La chiamavano Teresa la secca perché aveva un fisico asciutto e nonostante l'età mostrava ancora un'agilità non comune, frutto evidente del suo continuo camminare. Era famosa in tutto il paese perché riforniva le trattorie e i piccoli ristoranti di lumache, che lei stessa raccoglieva nella campagna circostante e poi depositava nel suo sacchetto di plastica bianco. Non era bella da vedere, spesso era sporca, trasandata e maleodorante, ma a lei non importava. Con quello che ricavava dalla vendita delle bestioline spesso riusciva ad arrotondare la sua misera pensione che, aggiunta a quella del marito defunto, le bastava a malapena per vivere. Teresa Bocchi non era sempre stata così, in passato non l'avrebbe notata nessuno. Stava perennemente rinchiusa nella sua piccola casa a scontare una vita che le aveva riservato un'evoluzione inattesa: un figlio in tarda età da accudire come se fosse un eterno bambino, perché soggetto alla sindrome di down, un'anomalia genetica che non lascia scampo. Lo aveva voluto comunque, nonostante il veto del medico, perché diceva che era stato Dio a mandarglielo, per i suoi sbagli. Era rimasta vedova due mesi dopo la nascita del bambino e si era trovata sola con la primogenita e con quel fagottino con gli occhi a mandorla, piuttosto paffutello. Si era sposata giovane, come la maggior parte delle donne del paese, e suo marito era stato l'unico uomo con cui si era legata. Piero l'aveva amata e rispettata sempre e nei brevi momenti di intimità l'aveva sempre soddisfatta, nonostante la fatica di un lavoro pesante e senza orari. La terra, i campi, le bestie e l'aria aperta erano stati per suo marito l'amore assoluto, la passione, la linfa nelle vene, perché lui ci era nato in quel posto e mai avrebbe potuto rinunciare ad esso. Eppure, anche se i solchi sul suo viso lo avevano raggiunto in giovane età e i primi acciacchi avevano investito il suo corpo piegandolo precocemente, si era convinto di essere un uomo felice, perché aveva fatto ciò che aveva sempre desiderato nella sua vita, ed era riuscito anche a sfamare la propria famiglia. Certo aveva sacrificato la propria gioventù al lavoro instancabile, limitando l'affetto e i dialoghi nei confronti sia di Teresa e sia di Anna, la sua prima figlia, ma era l'unico modo che conosceva per essere un uomo affidabile, giusto e onesto, frutto di ciò che gli avevano insegnato. Aveva promesso a Teresa che presto avrebbe trascorso più tempo con lei, perché stava invecchiando e il suo cuore iniziava a ribellarsi, ma non aveva fatto in tempo. La sua ora sopraggiunse in un tardo pomeriggio estivo, due mesi dopo la nascita del suo secondo figlio, il cui volto richiamava etnie orientali. Teresa lo trovò riverso nel cortile, mentre stava rientrando dal lavoro. Il cuore si era arreso spaccandosi in due e lui non era riuscito nemmeno ad accorgersi: in meno di una manciata di secondi la sua vita si era spenta a soli cinquant'anni. Da allora Teresa non ebbe una vita facile. Anna, la sua prima figlia, lasciò la casa per lavoro e si trasferì a Milano dove si sposò qualche anno dopo. Edoardo, invece, visse fino all'età di venticinque anni, per poi spegnersi a causa del cuore e dell'obesità. Teresa, privata del sostentamento di una pensione d'invalidità che le permetteva di vivere dignitosamente, iniziò il suo secondo calvario, cercando di sopravvivere. Fu allora che iniziò a camminare per la campagna in cerca di lumache, spostandosi spesso in autostop da un paese all'altro. Quei quattro soldi che ricavava le permettevano di pagare le bollette, senza contare che a volte si sfamava anche, cucinando polenta e lumache, un piatto tipico delle sue parti. Spesso si soffermava a riflettere a lungo, credeva che Dio avesse pensato a tutti, anche a una come lei, vecchia e acciaccata, perché popolava la natura di bestioline lente, incapaci di difendersi, facili da raccogliere e dal gusto prelibato. Bastava solo prenderle e infilarle nel sacchetto, tutto qui, soprattutto dopo qualche giornata umida e piovosa. Erano ormai passati dieci anni dalla morte di Edoardo, e lei aveva semplicemente camminato nella campagna, tra le fronde e nei boschi incastonati tra gli innumerevoli corsi d'acqua, scovando le sue prede rintanate nei tronchi, sulle foglie, nell'erba, rincasando solo a sera tarda, dopo aver fatto visita ai suoi ormai numerosi clienti: le trattorie. Era divenuta un'immagine ricorrente da quelle parti, tutti la conoscevano, tutti la deridevano, era perfino presente nelle barzellette del paese, lì col suo grembiulino smunto e la sportina di plastica in mano, secca come un'asse da lavare, con la pelle scura ed i capelli arruffati. Tutte le sere entrava da Mario, si avvicinava alla porta delle cucine e esclamava: “Ne ho due chili, le vuoi?”. Lui allungava il collo, dava un'occhiata all'interno della borsa di plastica e rispondeva: “Ti do dieci al chilo, come al solito”. Teresa la chiudeva con un nodo, quindi la depositava sul lavello e prima di andarsene mugugnava: “Spilorcio”. Mario sorrideva divertito scuotendo ripetutamente la testa. In fondo conosceva il carattere irruento di quella vecchia stramba, e gli piaceva anche perché, secondo lui, aveva coraggio da vendere. “Vai da Maria, alla cassa, ci vediamo domani.” Lei alzava la mano in segno di saluto, poi incassava i suoi venti euro e lasciava la trattoria. Ogni sera, quando rientrava a casa, si fermava sul pianerottolo, si toglieva le scarpe infangate e le sbatteva con vigore sporgendosi sul balconcino; lo faceva praticamente ogni volta, suscitando l'ilarità della sua vicina, che si lamentava per il fango che si depositava sul suo lindo balcone. Poi alzava lo zerbino, prendeva le chiavi frettolosamente e apriva con due mandate, giusto in tempo prima di udire le parolacce che risalivano dalla tromba delle scale. Teresa era fatta così, le piaceva provocare la gente, soprattutto quella vecchiaccia di Marisa che abitava sotto di lei. C'era un passato rancore tra loro due. Risaliva a molti anni prima, quando Edoardo era ancora in vita e un giorno si era trovato in difficoltà a causa del suo peso. Si era afflosciato e non riusciva più a rialzarsi e, nonostante chiamasse aiuto, Marisa gli aveva chiuso la porta in faccia, lasciandolo lì per terra. Da allora le due furono in guerra per ogni cosa, le buone regole del vicinato erano andate a farsi benedire. C'era un altro rito che Teresa seguiva ogni sera dopo essere rincasata: una telefonata alla figlia. Componeva il numero, attendeva cinque squilli, poi una voce maschile la raggiungeva come al solito: “Teresa, sei tu?”. Non era un indovino; erano anni che lei chiamava alla stessa ora e come sempre era suo genero a darle la medesima risposta: “Mi dispiace ma Anna non vuole parlarti”. Allora lei prendeva un bel respiro, quindi replicava: “Prima o poi lo farà, vedrai. Dille che le voglio bene”. “Glielo dirò.” Erano anni che sua figlia non le parlava, da quando era fuggita a Milano, stanca di assistere allo strazio di una vita che non le assomigliava, che non accettava più, che la ripugnava perfino. Per Anna vivere in un paesino lontano da tutto e da tutti, con la presenza ingombrante di un fratello anormale e con una madre asfissiante ed esigente, era diventato insopportabile. Inoltre il rapporto con suo fratello l'aveva fatta andar giù di testa. Così, appena diplomata, si era data da fare ed aveva trovato in un batter d'occhio un buon impiego in uno studio legale. Aveva fatto la pendolare per qualche mese, poi si era trovata una stanza in affitto e si era definitivamente trasferita. Da allora non aveva più parlato con Teresa, nemmeno nel giorno del suo matrimonio, quando si presentò con Edoardo, che aveva ormai superato i 130 kg. Per lei quelle due ‘presenze familiari' rappresentavano un disagio, una vergogna spaventosa. Se avesse potuto le avrebbe cancellate dalla sua vita, così in un lampo! Aveva vissuto i suoi anni con rabbia, astio, collera, e spesso l'ira l'aveva sopraffatta a causa del soffocante affetto che sua madre nutriva verso Edo. Lei non poteva sopportarlo, era perfino arrivata ad odiarlo, a sognare nella notte di alzarsi, di prendere un cuscino e porre fine a quell'agonia. Certo nei momenti di lucidità inorridiva di fronte al fatto di aver partorito simili pensieri, tanto che temeva di essere pazza. Desiderare la morte di Edo non era certo un comportamento equilibrato e lei si rendeva conto, giorno dopo giorno, che stava quasi per perdere la ragione. Così, spinta dai sensi di colpa che non le davano più tregua, si era ritagliata una via di fuga. Un buon lavoro l'aveva salvata da quegli orribili pensieri, e un buono stipendio le aveva permesso di mettere chilometri di distanza da quella casa, da quella famiglia, da quella vita. Ora, dopo tanti anni, i suoi ricordi si erano assopiti e, grazie ad un discreto matrimonio, era riuscita anche ad avere un figlio. Un figlio da amare, da accudire, da viziare, che ormai si avviava verso la turbolenta età dell'adolescenza, con i primi problemi da ormoni impazziti, così banali e importanti allo stesso tempo. Quel figlio si portava addosso l'insicurezza della madre e la pigrizia del padre, ma possedeva una fervida intelligenza che lo distingueva negli studi. Un perfetto ‘nerd', intellettuale, poco attento alle mode, isolato, imbranato in qualsiasi disciplina sportiva, ma molto, molto attento alla tecnologia, fin troppo. I suoi amici erano la playstation, facebook e twitter, i suoi nemici invece stazionavano nella credenza della cucina e nel frigorifero. Nell'ultimo anno aveva messo su peso, molto peso, tanto che sua madre gli aveva fissato un appuntamento dal nutrizionista. A 15 anni non ci si può permettere di fare una vita da recluso, senza amici, senza relazioni fisiche, intessendo rapporti a distanza tramite chat e social network, perché è pericoloso, è deleterio e il rischio di soccombere alla passività della vita è grande. Ma la vita è piena di risorse e quando meno te lo aspetti affonda il suo colpo, inaspettatamente, all'improvviso, lasciandoti solo il tempo di un respiro.
Elena Caserini
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