Il registro.
“Antony Perkins, 92 anni.” Al suo nuovo incarico all'ufficio di stato civile, James Bangbone stava compilando un atto di morte e si soffermò a pensare a cosa sarebbe rimasto del povero anziano passato a miglior vita. Forse, l'unica cosa che avrebbe ricordato la sua permanenza sulla Terra, sarebbe stata la mezza pagina di registro degli atti di morte che stava terminando di scrivere. James non voleva arrendersi davanti a quella triste realtà. Davvero tutto quello che rimarrà di ognuno di noi sarà mezza pagina di registro su cui sono annotati i nostri dati? Chiuse il registro, lo posizionò sul grande scaffale posto alla sua sinistra e guardò i registri già compilati. Quante persone avevano dimorato sullo stesso pianeta e avevano lasciato le proprie informazioni su quei registri? Ognuno con la propria mezza paginetta che riportava il triste resoconto della propria vita. Forse i più fortunati avrebbero lasciato qualcosa di più, qualche traccia che li avrebbe resi immortali, ma tutto sarebbe passato e anche le tracce, prima o poi, sarebbero diventate così flebili da non poter essere più riconosciute. Allora quella paginetta sul registro sarebbe rimasta l'unica prova tangibile della loro esistenza. Mentre faceva questo ragionamento, fu distratto dalla pila di registri non ancora utilizzati, e si chiese su quale di essi sarebbe stata scritta la mezza pagina che l'avrebbe riguardato. Era tentato di fare una scommessa con sé stesso, aprendone uno a caso, magari quello più in basso, e annotando a matita il suo nome su uno spazio vuoto. A quel punto sorrise, non avrebbe avuto la possibilità di verificare nel caso avesse vinto la scommessa. Così abbandonò i suoi pensieri e stilò il certificato da consegnare alla suora, appartenente alla congregazione che gestiva il centro anziani, che aspettava impaziente davanti al bancone dell'ufficio. “Ecco Sorella, questo è per lei.” La suora afferrò il foglio senza tradire alcuna emozione. James pensò che per chi si occupa quotidianamente di curare le anime di quei poveri anziani, questo tipo di incombenze burocratiche fosse all'ordine del giorno. Poi, spinse il pulsante che aveva davanti a sé per fare scorrere la numerazione del tabellone luminoso posto all'ingresso degli uffici, per permettere al prossimo utente di entrare.
A fine giornata James prese il registro degli atti di morte e si incamminò verso l'ufficio del responsabile. La porta chiusa mostrava il fatto che Louis Understud non voleva essere disturbato poiché gli dava fastidio interagire con il resto del mondo. Il suo carattere schivo e solitario si mescolava alla puntigliosità con la quale non perdeva occasione di far notare gli errori ai suoi collaboratori. Ma James aveva bisogno di qualche firma sulle denunce e doveva per forza oltrepassare quella porta. Esitò un attimo e poi bussò. “Avanti.” “Signor Understud, ho bisogno delle sue firme sul registro degli atti di morte.” Louis distolse un attimo lo sguardo dallo schermo del computer e osservò James, non nascondendo un certo disprezzo per quel pover'uomo che aspettava sull'uscio. “Bangbone, cosa fa lì impalato? Non penserà che possa dedicare attenzione a questi piccoli adempimenti quando ho molte faccende più importanti da completare!” “Non volevo disturbarla, ma per oggi io ho concluso e devo andare via.” Louis scosse la testa, poi alzò il polso per controllare l'ora. “Vada pure, mi lasci il registro sulla scrivania.” James obbedì senza fiatare. Sapeva che ogni parola proferita dopo quella del suo capo avrebbe potuto scatenare reazioni che avrebbero ritardato l'uscita da quegli uffici. “Buonasera, signor Understud.” Louis fece un cenno con la mano, più per sottolineare il fastidio che quella intrusione imprevista aveva provocato piuttosto che per congedare il suo subalterno, e s'immerse nuovamente nelle sue relazioni. James era rimasto l'ultimo impiegato. Spense tutte le luci tranne quella del corridoio principale e raggiunse l'uscita. Mentre scendeva le scale sentiva in sottofondo il rumore provocato da una scopa che, ritmando, spazzolava il pavimento.
Quasi all'uscita, in corrispondenza della rampa che portava al seminterrato, sbucò Martin Humbleworker. “James, dove vai così di fretta? Festinare nocet. La troppa fretta nuoce.” “Quale fretta. La mia giornata lavorativa doveva essere terminata da un pezzo.” Martin guardò il suo orologio, ma la penombra del locale non gli permise di scoprire dove si fossero cacciate le lancette. “E allora cosa ci fai ancora qui?” “Oggi è stata la mia prima giornata all'ufficio di stato civile e devo ancora capire tante cose. Anche come comportarmi con qualcuno che non ama le relazioni umane. Ho appena avuto un colloquio, se così si può dire, con Understud.” A quel nome, Martin, ebbe un sussulto e gli si incupì il volto, ma con la scarsa luce James non se ne accorse e continuò il suo discorso. “E poi, per una persona come me, piena di vita, occuparsi di defunti non è la massima aspirazione. Dovrò abituarmi.” “Caro James, Seneca diceva che Necessitas fortiter ferre docet, consuetudo facile. La necessità ci insegna a sopportare le sfortune coraggiosamente, l'abitudine a sopportarle facilmente.” “Anche tu hai finito adesso?” “No, non ho ancora concluso il mio lavoro giù nel seminterrato. Sto andando a prendere qualcosa alla macchinetta delle bibite, devo essere concentrato. Vieni a trovarmi più spesso, adesso che il tuo ufficio è più vicino.” “Certo, Martin. Buon lavoro.” Mentre apriva la porta d'uscita, vide Martin sparire percorrendo la rampa di scale che portava al piano superiore, e pensò a quanto fosse cupa la vita di quell'uomo, costretto nel seminterrato a lavorare isolato. James non avrebbe sopportato la mancanza di contatti umani nell'ambiente di lavoro, ma per alcuni, lavorare senza le distrazioni di colleghi con le loro debolezze e le loro invadenze, pareva un privilegio. Martin era uno di questi. Amava il suo lavoro da restauratore di manoscritti, e la sezione culturale approntata nei locali seminterrati sembrava creata apposta per lui. James si allontanò verso la sua auto ed estrasse il cellulare con la tentazione di fare una chiamata. L'immaginetta di Christine gli si piazzò davanti al viso illuminato dallo schermo, ma mentre il pollice era pronto a far partire la chiamata, un senso di angoscia lo pervase e lo fece desistere dall'intento. Il dito sembrò intuire le intenzioni e scorse i contatti fino alla prima delle chiamate più frequenti. “Ciao Mark, ci si vede al solito pub?” La figura scura di James scomparve nella penombra del giardino rigoglioso, lungo la stradina sterrata che portava al parcheggio.
Il mattino seguente, un mormorio riverberava per le scale del palazzo municipale e anticipava una folla brulicante in attesa che l'ufficio demografico aprisse al pubblico. Mentre saliva le due rampe di scale che separavano la sua tranquillità dalla tempesta, James notò come il mormorio fosse diverso dal solito. Si fermò sull'ultimo gradino e gli sembrò strano che la folla normalmente inferocita per le lunghe code che erano solito trovare all'ingresso, fosse invece angosciata e sorpresa per qualcosa che turbava il normale trambusto quotidiano. Si fece spazio tra le persone che si accalcavano davanti alla porta ancora chiusa e si infilò nel corridoio secondario che portava all'ingresso laterale degli uffici. Con lo sguardo ancora stordito diretto verso quella folla, estrasse la chiave dalla tasca destra della giacca e, sovrappensiero, cercò di infilarla dentro la toppa della porta, non accorgendosi che era soltanto accostata. Quando se ne rese conto, dalla fessura vide qualcosa all'interno che non quadrava. Che non fosse una giornata come le altre lo aveva intuito, ma non immaginava cosa fosse realmente accaduto. “James, meno male che sei arrivato.” Mary Endheight, una delle colleghe, era molto nervosa. “Cosa è successo?”, le chiese James guardandosi intorno e cercando di individuare la fonte di tanto clamore. Mary con un cenno del viso indicò l'ufficio del responsabile. “Guarda tu stesso, ma non è un bello spettacolo. Non che lo fosse anche da vivo...” James si avvicinò all'ufficio del signor Understud. La porta era ancora chiusa, ma le vetrate mostravano Louis seduto alla sua scrivania con la testa piegata verso destra, con gli occhi aperti e privo di vita. James rimase sgomento. Seppure odiasse quell'uomo, come chiunque altro in quell'ufficio, adesso ne provava compassione perché era morto in compagnia dell'unica cosa che l'aveva sempre affiancato, la solitudine. Mary scosse la testa. “Sarà stato un infarto. Ne aveva già avuto un altro tempo fa, ti ricordi?” “Certamente, Mary, ma da quel momento non è che facesse una vita movimentata. Sempre all'interno di quell'ufficio a tramare chissà cosa. Quando arrivi a un certo livello, o ti allinei al sistema oppure rischi di pestare i piedi a qualcuno. E questo qualcuno ti manda nel sottoscala a fare fotocopie. Invece hai visto dove è rimasto.” Louis era diventato responsabile da un paio d'anni. E da quel momento si era attirato le antipatie di tutti. Da sindacalista difensore dei diritti degli impiegati era passato in un battibaleno alla parte opposta. Gli stessi diritti che cercava di ottenere e difendere erano diventati per lui privilegi da combattere e osteggiare a tutti i costi. E per questo era costantemente premiato dagli amministratori. Ma la vita spesso presenta il conto da pagare. E forse tutte le maledizioni che gli avevano scagliato contro avevano raggiunto il bersaglio. James si guardò attorno e cercò di capire per quale motivo nessuno avesse avuto il coraggio di entrare dentro a quell'ufficio. Così si fece forza e provò a spingere la maniglia, ma senza risultato. La porta era chiusa dall'interno e la chiave era visibile guardando bene al di là della vetrata. Vedendo il tentativo fatto da James, Mary cercò inutilmente di trattenerlo per il braccio: “Non toccare la maniglia. Non sappiamo ancora cosa sia successo per davvero. Adesso rimarranno le tue impronte.” James la guardò perplesso. Non riusciva a capire di cosa stesse parlando: “Ci sarebbero state comunque le mie impronte. Ieri sera sono stato l'ultimo ad andare via e ho lasciato Understud da solo.” Poi, attraverso il vetro indicò a Mary un punto preciso della scrivania. “Ecco, vedi? Ho lasciato sopra la scrivania il registro degli atti di morte. Understud doveva mettere la propria firma. Speriamo l'abbia fatto.” Si fermò un attimo a riflettere. “Mary, non penserai mica che non si tratti di morte naturale? Sarà stato sicuramente un infarto. Posso dirti che alla fine se l'è cercata.” Proprio in quel momento, tra gli impiegati fermi davanti all'ufficio del responsabile, un operaio con una cassetta degli attrezzi cercò di farsi spazio. Si chinò davanti alla porta e con dei piccoli arnesi riuscì a spingere la chiave posta all'interno, facendola cadere a terra. A quel punto, tirò fuori una chiave di riserva e riuscì ad aprire la porta. I sanitari che avevano atteso in disparte, entrarono dentro la stanza per confermare quello che già tutti sapevano. Il responsabile dell'ufficio demografico, Louis Understud, era ufficialmente morto. Un uomo di mezz'età ben vestito si presentò dentro l'ufficio. Era il segretario della municipalità, il dottor David Bulls. Era stato lui a nominare Louis Understud come responsabile dell'ufficio e ne era stato il diretto superiore. “Forza, cos'è questo disordine? Al lavoro. Dobbiamo fornire dei servizi ai cittadini.” Disse. James se lo trovò a fianco e non poté fare a meno di controbattere. Seppure Understud non gli fosse simpatico, nessun essere umano in caso di morte meriterebbe tanto cinismo. “Dottor Bulls, non sarebbe meglio tenere chiuso l'ufficio per oggi? Io e miei colleghi siamo scossi per l'accaduto e non abbiamo lo spirito giusto per lavorare.” A quelle parole i presenti rimasero basiti e cominciarono a guardare altrove, quasi per non essere considerati complici di fronte a quella che poteva essere interpretata come una sfida a un superiore. Il segretario diede un'occhiataccia a James, poi si guardò intorno e sospirò: “Forse ha ragione, ma solo in parte. Vi dò mezz'ora di tempo per riorganizzarvi e dare una sistemata. Alle nove si apre. Sono sicuro che l'anima del signor Understud a quell'ora avrà già abbandonato questi luoghi e sarà sicuramente in viaggio per raggiungere la sua meta.” James si voltò verso i colleghi e notò che il disprezzo verso quell'uomo cinico era mitigato dall'aver ottenuto qualcosa che, francamente, non si aspettavano. Il segretario diede un paio di direttive al signor Godlove, che di fatto era l'impiegato più alto in grado, e si congedò. Dorian Godlove era prossimo alla pensione e aveva sempre glissato le proprie responsabilità, anche perché il signor Understud accentrava su di sé le decisioni, senza mai delegare alcunché agli impiegati. Dopo aver ricevuto le direttive si guardò in giro e si mise le mani sui fianchi. Non sapeva da dove cominciare. Cercando di riorganizzare i pensieri provava ad aprire bocca alzando il braccio verso qualcuno degli impiegati che, nel frattempo, si erano persi in mezzo ai discorsi generati dallo sgradevole episodio a cui avevano assistito. Poi, preso dallo sconforto, andò verso James che in quell'istante gli parve la persona più lucida e pacata. “James, dammi una mano. Metti un cartello fuori e parla con la gente in attesa. Io ho bisogno di una sigaretta, al momento non sono in grado di riflettere.” “Dorian, non preoccuparti. Ci penso io.” Mentre Godlove estraeva una sigaretta dal taschino e si incamminava verso il terrazzo, James batté le mani un paio di volte per calmare il brusio e attirare l'attenzione. “Dobbiamo darci una mossa. Avete sentito il segretario? Entro mezz'ora tutto deve essere pronto.” “Non ce la faremo mai!” obiettò uno dei colleghi. “Dobbiamo. Parlerò io con le persone in attesa, dirò loro che faremo tutto il possibile per recuperare il tempo perso a causa di un disservizio. Ormai tutti sapranno cosa è accaduto e non si può certo pretendere di essere superiori alla morte.” Quindi si rivolse verso Mary che gli sembrò la persona meno agitata tra quelle presenti: “Cerca di calmare gli altri colleghi. La giornata è dura ma ce la faremo.” La folla in attesa dell'apertura non faceva che parlare di quello che era accaduto. I particolari si amplificavano passando da una bocca all'altra e il racconto, nelle parole delle persone più anziane e poco udenti, si trasformava continuamente in qualcosa che in breve tempo nulla aveva in comune con il fatto realmente accaduto. Quando la porta si aprì, il brusio diventò un'acclamazione di soddisfazione, che venne spenta con rapidità dalle parole di James. “Signori, ci dispiace ma per un problema l'apertura sarà differita alle nove. Scusate per il disagio.” Poi si accorse che i sanitari avevano già portato via il corpo del signor Understud passando per una delle porte laterali, così si precipitò a recuperare il registro degli atti di morte. Lo trovò sulla scrivania nello stesso posto in cui lo aveva lasciato la sera prima, per cui gli sorse il timore che il signor Understud fosse morto prima di firmare le pagine giornaliere. Scosse la testa e aprì il librone fino all'ultima pagina compilata e fu sollevato nel constatare che l'ultimo atto di morte era stato sottoscritto. Chiuse il registro e se lo mise sottobraccio, incamminandosi verso la sua postazione, mentre i colleghi cercavano di far apparire l'ufficio un luogo in cui non era accaduto nulla di strano. Ma un tarlo cominciò a fare capolino nella sua mente: ricordava di aver compilato l'ultimo atto a metà pagina. Dopo il signor Perkins non aveva registrato alcun decesso, ma solo nascite o cambi di residenza. Nella sua mente la sensazione che ci fosse qualcosa di strano divenne più persistente, così aprì ancora il registro fino all'ultima pagina compilata per verificare cosa volesse comunicargli quel tarlo. Fu percorso da un brivido lungo la schiena quando lesse che l'ultimo atto di morte non era quello del signor Perkins. Si sbottonò la camicia e cominciò a sudare freddo. Poi, lesse un'altra volta il nome. “Atto di morte di Louis Understud...”
Fabio Valentino Tipa
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